Gran Torino, recensione del nuovo capolavoro di Clint Eastwood

Clint Eastwood dirige un film ruvido e toccante, che scava nell'America più profonda e nell'animo umano.

Gran Torino, recensione del nuovo capolavoro di Clint Eastwood
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Living Legend.

Ci sono autori che, arrivati a una certa età, cominciano a tirare i remi in barca, paghi dei successi passati accumulati nel corso della loro carriera. Altri gettano un cono d’ombra sul loro lavoro pluridecennale a causa di progetti girati con la “mano sinistra”. Altri ancora, pur evitando di appendere definitivamente le scarpe al chiodo, si adagiano sul proprio stile, perdendo inevitabilmente la capacità, o forse la voglia, di mettersi in gioco artisticamente.
Clint Eastwood, ormai prossimo ai 79 anni, riesce ancora a girare come se ne avesse quaranta, realizzando opere di rara intensità capaci, fra un Oscar e l’altro, di andare pure a demolire i preconcetti politici, ideologici che uno spettatore potrebbe avere sul regista californiano. Repubblicano fin dal 1951, dimostra con ogni suo lavoro che la ratio umana è una qualità che può prescindere dalle connotazioni politiche: da “testimonial” della Smith & Wesson Modello 29 ai tempi di Dirty Harry, è passato alla realizzazione di un dittico cinematografico, Flags of our Fathers e Letters From Iwo Jima, validissimo per criticare con assoluta franchezza, senza artifici retorici pomposi e magniloquenti, l’orrore della guerra, in un modo molto più equilibrato dei (troppo) manichei “Redacted”, dell’ormai “missing in action” Brian De Palma, o dell’Armadietto del Dolore (The Hurt Locker) di Kathryn Bigelow. Il cinema di Eastwood è diretto, quasi lineare verrebbe da dire. Narra senza inutili giri di parole. Che sia la caduta del mito del west americano, o il dramma di una madre che ha perso il proprio figlio trovandosi a combattere contro una burocrazia corrotta, predatoria ed affamata di consensi, la sostanza dei fatti non cambia. I film di Clint Eastwood s’inseriscono perfettamente nel grande filone della tradizione cinematografica americana che, come scrive Gianni Rondolino nella sua “Storia del Cinema” sono tutti “capitoli d’un grande romanzo sull’America, sorretto sempre da un gusto cinematografico preciso, dall’amore per quella tradizione del cinema spettacolare classico, che Eastwood non solo non rinnega, ma vuole in un certo senso rinverdire e rendere attuale”. Questo suo essere così incontrovertibilmente “classico”, è, secondo alcuni, un limite, una sorta di mancanza di personalità. Francamente, ci resta arduo immaginare un maestro che a sua volta non abbia avuto delle guide, quindi ci limitiamo a dire che se tutti gli autori di cinema fossero latori dello stesso “limite” di cui è portatore il granitico Clint, i lettori si troverebbero davanti agli occhi un numero ben maggiore di recensioni positive, anche perché, questo va precisato a chiare lettere, la riflessione umana del “texano dagli occhi di ghiaccio” è stata capace di evolversi e di andare oltre le meditazioni, cinematografiche ed personali, dei suoi numi tutelari Sergio Leone e Don Siegel.
E Gran Torino, con quel carico di significati profondi che si viene a delineare già solo a partire dal titolo che è una allegoria di tradizioni ormai perdute, è un punto d’arrivo artistico e morale che lascia inevitabilmente spiazzati.

Heart Locked in a Gran Torino.

So tenderly your story is
nothing more than what you see
or what you've done or will become
standing strong do you belong
in your skin; just wondering

gentle now the tender breeze blows
whispers through my Gran Torino
whistling another tired song

engine humms and bitter dreams grow
heart locked in a Gran Torino
it beats a lonely rhythm all night long
it beats a lonely rhythm all night long
it beats a lonely rhythm all night long.




Walt Kowalski (Clint Eastwood), dopo essere sopravvissuto alla guerra di Corea ed essere ormai rimasto vedovo, continua a vivere nella casa che divideva con sua moglie nei sobborghi di Highland Park, nel Michigan. Ormai il quartiere è in mano agli immigrati d’ogni etnia, tanto che la sua bandiera “star and stripes” appesa con orgoglio nella veranda della sua dimora pare essere l’unico vessillo d'America rimasto nel circondario. Per Kovalski, americano tutto d’un pezzo, ex operaio d’industria automobilistica che gira nel quartiere a bordo di un’americanissimo pick up Ford, ciò non è certo fonte di piacere, così come il fatto di avere dei vicini di casa orientali. Sono molte le cose che lo contrariano oltre a ciò: avere un figlio che vende auto giapponesi dopo che lui ha lavorato per 50 anni alla Ford, constatare come le attenzioni di sua nuora sono solo verso i gioielli della sua defunta consorte, vedere sua nipote che ignora qualsivoglia forma di decenza nel vestire e ogni forma di rispetto. Anche nei confronti delle autorità di quella religione che sua moglie, invece, seguiva in maniera devota, c’è parecchia insofferenza.
Nel suo garage, custodisce gelosamente un gioiello automobilistico all american: una bellissima Ford Gran Torino del 1972. I suoi figli e nipoti, mal tollerano l’integrità vecchio stile di Walt, tanto che le uniche attenzioni vanno proprio alla macchina che tiene nel suo capanno, bramata fortemente dalla sua nipote teenager. Ma la nipote di Kowalski non è l’unica a voler mettere le mani sulla vettura: essa finisce per attirare le “premure” di una banda criminale di Hmong (un gruppo etnico cinese). Il capo di questa gang, è intenzionato a far rubare (a mo’ di rito di passaggio) l’automobile dal proprio cugino Thao (Bee Vang), ragazzo taciturno ed educato che vive proprio nella casa accanto a quella di Walt. Il furto viene sventato e, grazie alla penombra del garage, il ladro mancato riesce a scappare e a mantenere nascosta la propria identità. Dopo qualche giorno, la gang di teppisti arriva a casa di Thao e comincia ad infastidire lui e sua sorella Sue Lor (Ahney Her). Quando il giovane Thao viene atterrato proprio all’interno del giardino di Kowalski, questi imbraccerà di nuovo il suo fucile per difendere la sua proprietà, mettendo in fuga i balordi e diventando, suo malgrado, l'eroe del quartiere. La famiglia Hmong, si sentirà molto riconoscente nei suoi riguardi, nonostante lui, inizialmente, non gradisca molto tali attenzioni. Quando Thao rivela a Walt che era stato proprio lui a tentare di rubare la sua Gran Torino, sua madre e sua sorella dicono al vecchio che l’unico modo per lavare via quella macchia di disonore è far si che il ragazzo lavori per lui per una settimana. il mondo di Kovalski, entrando in contatto con una cultura forse non molto dissimile dalla sua, cambierà inevitabilmente.

Get off my lawn.

Walt Kovalski è un reduce, un superstite. E’ sopravvissuto a una guerra e alla morte della sua amata consorte, ed è il frutto di un’epoca in cui parole come rispetto e morale, erano ancora cariche di significato e non erano state soppiantate dalla grettezza del relativismo, dall’edonismo ormai imperanti. Il verso di disgusto e disapprovazione che ci regala ad inizio film (primo di una lunga serie, a dire il vero) quando, durante il funerale della moglie, osserva la propria nipote inginocchiarsi davanti all’altare con la pancia scoperta e il piercing all’ombelico seguita a ruota dall’altro nipote che s’inchina storpiando l’invocazione trinitaria è solo un'avvisaglia che ci viene lanciata per inquadrare la personalità di Kovalski. Il suo sdegno non nasce tanto per lo sberleffo nei confronti della Chiesa e della religione; lui stesso avrà modo di definire il giovane prete della sua parrocchia, Padre Janovich, “un ventisettenne vergine estremamente educato che ama tenere le mani di superstiziose vecchie signore promettendo loro vita eterna”. La collera nasce dalla mancanza di deferenza ed ossequio dimostrata dai suoi nipoti (e chiaramente, in senso lato, dalle nuove generazioni) nei confronti di un evento come la perdita di una persona amata. Il quantitativo di offese e stereotipi razziali che fuoriescono dalla sua bocca è spiazzante. “Ne ho una buona: Un messicano, un ebreo e un tizio di colore entrano in un bar. Il barista li guarda e dice: andatevene a fanculo fuori di qua!”. Ma da un Autore come Eastwood, l’ultimo grande vecchio del cinema americano, non bisogna aspettarsi dei personaggi piatti, stereotipati, perché spesso nella sua carriera ha ripreso certi canoni del cinema Usa, resi così eccessivamente monocromatici, lineari, o bianchi o neri, facendoci capire che nella narrazione del Mito non c’è più spazio per la totale assenza di gradazioni di colore intermedie. Se già l'epopea del West, emblema di quella dottrina del Destino Manifesto che ha accompagnato (caratterizzandola tutt’ora) la nascita della Nazione Americana, è definitivamente caduta diciassette anni fa con “Unforgiven”, con i suoi bounty hunter vecchi, stanchi e con più di un crimine da espiare, ora è il cinema stesso di Clint Eastwood, autore ed attore, ad essere rimesso in discussione. In Gran Torino c’è un malinconico senso crepuscolare, il continuo sentore di un tempo che sta cambiando, morendo definitivamente esalando il suo ultimo respiro. “Non è un paese per vecchi” verrebbe da dire. Ma, senza nulla togliere al magnifico affresco sull’America che cambia fatto dai fratelli Coen, la valutazione del regista californiano è più profonda ed umana, meno matematicamente algida del pluripremiato film dei geniali fratelli. Laddove lo sceriffo Ed Tom Bell, intepretato da Tommy Lee Jones, restava soverchiato da queste forze, da questi spaventosi venti di cambiamento nei quali era difficile trovare un barlume di senso, uno spiraglio di luce (si riveda a proposito la scena finale del film in cui lo sceriffo racconta il sogno fatto durante la notte), Walt Kovalski ha un atteggiamento diverso e riesce a capire che una possibilità, in fondo in fondo, c’è ancora. Il forte legame che si verrà ad instaurare fra il vecchio ed il giovane ragazzo asiatico Thao, con sua sorella e la sua famiglia, gli farà comprendere che il rispetto e la morale sono valori che prescindono dalla nazionalità d’origine e dalle spezie usate per cucinare il maiale. Anche perché, questo va affermato a gran voce, è vero che sono le colpe dei padri a ricadere sui figli, per cui se Kovalski si ritrova con una progenie che ha completamente smarrito il senso della misura, la colpa in buona parte è sua. Nei suoi pomeriggi passati a bere birra seduto sotto la veranda della sua abitazione, si ritrova ad osservare il suo vicinato con l’occhio di un County Sheriff che sta lentamente perdendo il controllo su quanto gli accade intorno, ma quando la sua proprietà verrà minacciata dalla balorda intrusione del cugino di Thao e dei suoi smidollati compari, non esiterà a tirar fuori il fucile intimando ai teppisti di andarsene dalla sua proprietà. Ma anche quest’atto, che sembra solo un’esagerazione narrativa di quel modo di pensare in stile NIMBY (Not In My Backyard) tipico del nuovo mondo (fate quello che volete, ma fatelo lontano da casa mia perché la vostra libertà non deve invadere il mio spazio), misto a dei revanscismo Dirty Harryiano, diviene la miccia che accenderà il rapporto di stampo paterno di cui parlavamo poc’anzi. Ed è qua che il film di Eastwood si distanzia nettamente dal cupo, profondo pessimismo che permea l’opera mutuata da Cormac McCarthy (autore peraltro quasi coetaneo di Eastwood). Se l’asfittico, soffocante senso di disagio che scaturisce dalle immagini (e dalle pagine) de No Country for Old Men è subordinato a una lettura della realtà nella quale non c’è più spazio per un’idea di progresso umano, perché ormai l’unica strada intrapresa dagli uomini è la barbarie, la violenza priva di senso (Darwin, where are you?), Kovalski/Eastwood trova la chance di restituire un senso alla propria esistenza facendo capire ad un giovane ragazzo “giallo”, per usare il suo gergo, che avere le palle non significa fare lo spaccone con una pistola, ma avere senso del dovere, rispettare il prossimo, guadagnarsi onestamente da vivere per potersi poi bere una birra gelata la sera con la mente libera, consapevoli di aver appena trascorso un altro giorno non da leone, ma da uomo. A questo punto, la riflessione metacinematografica s’inserisce in maniera doverosa, seppur non prepotente. Walt Kovalski è una summa dei personaggi portati sullo schermo da Clint Eastwood (in questo la stampa straniera è stata analiticamente precisa e puntuale): impossibile non scorgere in lui gli echi del “Dirty” Harry Callahan (italianizzato il Callaghan), del “leoniano” uomo senza nome della trilogia del dollaro, del Luther Whitney de "Absolute Power" che vedendo in Tv il Presidente degli Stati Uniti, colpevole impunito di omicidio, lo apostrofa con un rabbioso "You son of a bitch!"o del William Munny de “Unforgiven”. Forse, è proprio con quest’ultimo che Kovalski condivide di più: entrambi, uno perché dedito al crimine, l’altro perché servo della patria, hanno diversi morti sulla coscienza e questo rappresenta per loro un motivo di intenso travaglio interiore. Ma laddove ne “Gli Spietati”, Will Munny vendicava l’omicidio del suo amico Ned Logan (Morgan Freeman) sfoderando nuovamente tutta la sua collera, Kovalski, nel finale del film che ovviamente non sveleremo, giungerà ad una conclusione ben diversa, capace di mettere in discussione quell’e(ste)tica della violenza di cui Eastwood è stato portavoce soprattutto negli anni ’70 (il filone dei Dirty Harry era un lampante esempio di risposta alla crescente paura della violenza urbana serpeggiante negli Stati Uniti e non a caso, il primo film della serie, vede il celebre ispettore sulle tracce di un serial killer, Scorpio, chiaramente ispirato al Killer dello Zodiaco che terrorizzò la zona di San Francisco per un decennio abbondante).
Per dare un futuro a Thao (e a sua sorella), bisogna innanzitutto tenerlo lontano dalla violenza evitando che si possa andare a macchiare di un peccato con il quale poi, un domani, dovrebbe andare a fare i conti. Memorabile in tal senso, la vera confessione di Walt, dopo quella mezza farlocca concessa al prete, in cui il vecchio leone rivela al giovane che l’unica cosa peggiore dell’aver ucciso 13 uomini è avere ricevuto una medaglia per averlo fatto; Eastwood si erge con tutta la sua autorità sopra al giovane e sopra a quanti sono accorsi al cinema convinti di vedere una sorta di action movie della terza età con un Dirty Harry in pensione sempre pronto, però, a distribuire piombo. Il mondo è cambiato, gli anni settanta sono passati da un bel pezzo, e far parlare le pistole non è detto che sia sempre la soluzione migliore per risolvere delle questioni. E capiremo anche che la differenza fra redenzione ed espiazione, non è di poco conto.
Do you feel lucky, punk?

For your consideration.

Nonostante le tre nomination ricevute per Changeling, resta quantomeno bizzarro notare come Gran Torino sia stato nettamente ignorato dall’Academy, soprattutto per quanto riguarda l’intepretazione di Clint Eastwood, che domina la scena con regalità leonina, e la categoria miglior film. Lo stupore poi, non può che aumentare considerando come un film patinato, una gradevole favoletta della buonanotte come “The Millionaire”, in cui ogni segmento narrativo, ogni accadimento è confezionato per compiacere e cullare lo spettatore in un escalation di autentica furbizia fabulatoria, ha ricevuto così tanti consensi. Forse c’è da dire che in questi tempi di crisi, è inevitabile che tutti vogliano sentirsi un po’ degli “slumdog millionaire” e non c’è da meravigliarsi che un film capace di effettuare un’analisi così profonda (ma di certo non priva di una seppur minima via d’uscita), dei giorni che inevitabilmente ci troviamo a vivere sia stato ignorato dall’Academy (ma fortunatamente non dal pubblico).
Amarezza a parte, davvero degne di nota le interpretazioni dei giovani Bee Vang e Ahney Her, entrambi al loro esordio cinematografico. Ammirevole come riescano a tener ottimamente la scena, seppur alle prese con un mostro sacro del calibro di Clint Eastwood.
Il cast tecnico, è composto dai classici collaboratori del regista californiano come il direttore della fotografia Tom Stern (Million Dolalr Baby, Mystic River, nominato all’Oscar per l’altro film di Eastwood, Changeling), Joel Cox e Gary Roach al montaggio.
La sceneggiatura, scritta dai novizi Nick Schenk e Dave Johannson, ha ricevuto notevoli apprezzamenti da parte della stampa sino-americana che ha riconosciuto come gli aspetti della cultura Hmong siano stati trattati con la dovuta maturità (anche se la fetta maggiore di complimenti è chiaramente andata a Eastwood, capace di ribaltare gli stereotipi costruiti nel tempo intorno alla sua figura e al suo cinema)
Davvero bellissima e struggente la canzone dei titoli scritta da Jamie Cullum ed intitolata proprio Gran Torino, che riportiamo ora per esteso.


Realign all the stars above my head
Warning signs travel far
I drink instead on my own Oh! how I’ve known
the battle scars and worn out beds

Gentle now a tender breeze blows
whispers through a Gran Torino
whistling another tired song
Small Text
Engines humm and bitter dreams grow
heart locked in a Gran Torino
it beats a lonely rhythm all night long

These streets are old they shine
with the things I’ve known
and breaks through the trees
their sparkling
Your world is nothing more than all the tiny things you’ve left behind

So tenderly your story is
nothing more than what you see
or what you’ve done or will become
standing strong do you belong
in your skin; just wondering

Gentle now a tender breeze blows
whispers through the Gran Torino
whistling another tired song
engines humm and bitter dreams grow
a heart locked in a Gran Torino
it beats a lonely rhythm all night long

May I be so bold and stay
I need someone to hold
that shudders my skin
their sparkling

Your world is nothing more than all the tiny things you’ve left behind
So realign all the stars above my head
warning signs travel far
I drink instead on my own oh how ive known
the battle scars and worn out beds

Gentle now a tender breeze blows
whispers through the Gran Torino
whistling another tired song
engines humm and better dreams grow
heart locked in a Gran Torino
it beats a lonely rhythm all night long
it beats a lonely rhythm all night long
it beats a lonely rhythm all night long

Gran Torino Non è un paese per vecchi, soprattutto se portatori di colpe davvero difficili da sopportare, come uomo e come genitore, come quelle di Walt Kovalski. Gran Torino è un film che (sor)prende anche se da uno dei più grandi registi americani, il minimo che ci si possa aspettare è di non trovarsi di fronte ad uno squallido, patetico action movie con protagonista un quasi ottuagenario. A prescindere dal fatto che, con tutta probabilità, a quasi ottant’anni, Clint Eastwood sarebbe ancora in grado (almeno sullo schermo) di prendere a calci in culo un Vin Diesel qualsiasi, l’opera d’addio di Eastwood alla professione d’attore (per fortuna solo a quella, dato che è già al lavoro sulla sua nuova regia) è una riflessione amara, cupa, sui giorni amorali nei quali siamo impantanati. Chiaramente però, non abbiamo una valutazione unidirezionale, a senso unico. Gran Torino non è il lamento di un vecchio burbero che rimpiange i bei tempi andati in cui i ragazzi davano una mano alle nonne a portare la spesa e i vicini di casa giocavano a Scarabeo, piuttosto che a Mahjong. Così come con il dittico Flags/Letters ha dimostrato che in guerra non ci sono alleati e nemici, ma solo uomini accomunati dallo stesso dramma, con Gran Torino ci fa capire che esiste uno spiraglio per le disgraziatissime nuove generazioni. Basta solo avere il coraggio di fare i conti col proprio passato e di saper ergersi a guida. Quanto a noi, non possiamo fare altro che auspicare che un domani il volto di Clint Eastwood possa apparire sul monte Rushmore accanto a quello di Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln. Our hearts live now locked in a Gran Torino ed è davvero inevitabile che sia così.

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