Watchmen, la recensione: il cinecomic secondo Zack Snyder

Lo Smiley insanguinato di Alan Moore rivisto da Zack Snyder: la nostra recensione del cinecomic Watchmen.

Watchmen, la recensione: il cinecomic secondo Zack Snyder
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Capacità d’osare.

Zack Snyder ama il rischio.
Questa sua caratteristica è piuttosto evidente. Non pago di provenire dal mondo dei commercial televisivi, i cui registi, a dispetto dei successi conseguiti sul grande schermo, vengono comunque guardati con sospetto e sufficienza dai colleghi dell’Academy (emblematiche, a tal proposito, le esperienze di director come Ridley Scott che, nonostante abbia dalla sua capolavori come Blade Runner, Alien e I Duellanti è stato sempre snobbato dalla giuria degli Oscar, così come David Fincher che quest’anno si è visto soffiare immeritatamente la statuetta dal “milionario” Danny Boyle, regista inglese d’estrazione teatrale). Essere un paria, un “fuori casta” non dev’essere stato abbastanza per lui, se ha deciso di muovere i primi passi nel mondo di Hollywood dirigendo il remake del romeriano “Dawn of the Dead”, andando a “remixare” quello che, insieme a “La Notte dei Morti Viventi”, è forse uno dei punti più alti del politic/horror cinematografico. Poteva risultare un disastro di dimensioni ciclopiche ed invece il film si è rivelato un ottimo rifacimento che, nonostante i non-morti centometristi in stile “28 Giorni Dopo” (pare impossibile non andare a parlare di Danny Boyle in un modo o nell’altro) e “Incubo sulla Città Contaminata”, è riuscito a non tradire lo spirito polemico, beffardo di Romero, aggiungendo delle decise connotazioni apocalittiche evidenziate già in apertura col commento sonoro di “The Man Comes Around” di Johnny Cash. 28 milioni di dollari di budget e 102 d’incasso. Un successo che ha guidato Snyder verso un’opera ancora più ambiziosa: l’adattamento per il grande schermo di “300”, la celebre graphic novel di Frank Miller sulla battaglia delle Termopili, giunta sugli schermi anche sull’onda del buon esito commerciale di Sin City, diretto da Robert Rodriguez e coodiretto dallo stesso Miller. Ennesimo successo, ennesima dimostrazione di talento.
Sarebbe piuttosto facile affermare che con 300 Snyder abbia continuato in qualche modo quel discorso cominciato con la versione cinematografica di Sin City, vivendo in qualche modo di rendita. La realtà dei fatti è ben diversa. La riflessione sulla compenetrazione e rimediazione fra stilemi cinematografici e fumettistici si fa molto più profonda in 300 rispetto al film di Rodriguez/Miller. Laddove in Sin City (e in buona parte anche in The Spirit) possiamo trovare l’assurda pretenziosità di applicare al cinema la grammatica del fumetto, traducendo pedissequamente le vignette in scene nelle quali, a fronte di un’ effettiva eleganza estetica, possiamo trovare una cronica mancanza di cinematograficità, che scade quasi in fastidiosa staticità, in 300 Zack Snyder opera in maniera più intelligente. Magari anche furba. Attinge a piene mani dalla fastosità visiva, dall’opulenza widescreen della graphic novel milleriana, rimaneggia parzialmente la trama aggiungendo il sub-plot dell’intrigo a corte (e donando un ruolo ben più amplio rispetto al romanzo, alla moglie di Leonida) e, ben consapevole che cinema e fumetto hanno molto da condividere, ma restano in ogni caso due media profondamente differenti, traduce sullo schermo il linguaggio del fumetto, dilatando l’azione con l’uso (abuso per alcuni) di ralenti proprio in quei frangenti in cui Miller decide d’incorniciare l’azione in cornici panoramiche o a svolgimento verticale. Il risultato è un'orgia visiva che trasmette fragorosamente tutta la fisicità, tutta la stilizzata violenza del romanzo di Miller. L'estetica dell'effetto speciale viene usata, più che per meravigliare, per comunicare la violenza di corpi che sbattono, di lance che stridono e penetrano la carne spruzzando verso lo spettatore gocce di sangue in CGI.
D’altronde, come afferma il Maestro Will Eisner nel fondamentale “Eisner/Miller. Conversazioni sul fumetto” (Ed. Kappa, 2005, Bologna), con 300, il suo pupillo Frank Miller non stava tanto “infrangendo i limiti del formato tradizionale [del fumetto, ndr.], quanto piuttosto muovendo il punto di vista e sfruttando in modo diverso lo spazio nell’ambito di quel formato: lo stesso motivo per cui io elimino i bordi dalle vignette. Tu affrontavi il lettore nello spazio, che è una cosa completamente diversa”. 300, più che un veicolo di profondi significati è un notevole esperimento per testare le capacità espressive del medium fumettistico e il rispettivo adattamento cinematografico ne è una diretta emanazione.
Archiviata la pratica Miller, Snyder ha preso in mano un progetto che definire ambizioso sarebbe riduttivo: l’adattamento di Watchmen, la graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons unanimemente riconosciuta come una delle più importanti opere letterarie (si, avete letto bene) in lingua inglese del 1900. Quanto basta per attendere coi fucili spianati la nuova pellicola di Snyder.
Ma Zack Snyder ama il rischio.

Infilmabile.

Terry Gilliam, ex membro dei Monty Python e visionario regista di acclamati film come Brazil, L’Esercito delle 12 Scimmie e Paura e Delirio a Las Vegas, avrebbe dovuto dirigerne l’adattamento già a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. Il suo, è risultato uno dei molteplici tentativi d’adattamento andati a vuoto:

“Come trarre un film da un capolavoro? E’sempre un problema. Finora nessuno ha fatto un buon adattamento da Guerra e Pace e per me Watchmen è il Guerra e Pace dei fumetti, scusate, dei romanzi a fumetti [...] Il tempo passò, la frustrazione crebbe. Come si può condensare una simile opera monumentale in un film da due ore, due ore e mezza? Cosa tagliare? Cosa lasciare? Questo è il problema [...] Certe opere dovrebbero essere lasciate stare nella loro forma originale. Non tutto deve diventare un film” (Terry Gilliam in “Alan Moore. Ritratto di uno Straordinario Gentleman” , Ed. Black Velvet, 2003, Bologna)

A prescindere dal fatto che lo stesso Gilliam abbia contravvenuto a questa dichiarazione d’intenti filmando il lisergico “Paura e Delirio a Las Vegas”, capace di restituire solo parzialmente le suggestioni del Gonzo Journalism di Hunter S. Thompson, la sua è un’affermazione che suggerisce la portata, la caratura intellettuale della graphic novel di Alan Moore. Il peso dell’autore inglese spesso non viene afferrato in toto neanche dai quei cosiddetti “amanti dei fumetti” che magari, nonostante l’amore dichiarato per il medium, non sono mai usciti dall’orticello delimitato dagli X-Men e compagnia.
L’impatto di Watchmen è stato devastante, perché ha elevato un mezzo’ d’espressione guardato con sospetto e diffidenza, ai livelli dell’Arte. Ha spinto l’arte sequenziale verso il proprio limite. La rivoluzionaria caratterizzazione bidimensionale adottata da Stan Lee sintetizzabile con le parole dello stesso Moore “questa persona è buona, ma ha poca fortuna con le ragazze, oppure questa persona è cattiva, ma potrebbe redimersi ed unirsi ai Vendicatori se abbastanza lettori ci scrivessero chiedendolo” (Alan Moore. Writng for Comics, ProGlo Edizioni, 2007), seguita pedissequamente per anni dagli autori di comic, venne definitivamente infranta con dei personaggi che si estendevano “quantisticamente”, quadridimensionalmente in un continuum cronologico e psicologico di raro spessore, di intrinseca coerenza. Watchmen è un universo compiuto, a se stante. La distopia creata da Moore e realizzata graficamente da Gibbons, presa come storia in se, è piuttosto convenzionale, quasi prevedibile.
In un 1985 alternativo, Richard Nixon è ancora presidente degli Stati Uniti d’America, con i giornalisti Woodward e Bernstein (autori nella realtà del libro-inchiesta sul caso Watergate “Tutti gli uomini del Presidente”, divenuto film nel 1976 per mano di Alan J. Pakula) che vengono addirittura trovati uccisi in un garage e la Guerra Fredda che assume dei contorni sempre più drammatici. In questo contesto, gli Watchmen, un gruppo di tutori della legge un tempo ben visti tanto dalla popolazione quanto dallo stato, vengono messi fuori legge con il Decreto Keen e costretti a terminare la loro attività di vigilanza.
Fra questi vigilantes, spiccano Adrian Veidt, il primo Watchmen a rendere pubblica la propria identità, nonché miliardario e uomo più intelligente della Terra, e il Dr. Manhattan, l’unico ad avere effettivi superpoteri. Nato dall’incidente di laboratorio occorso allo scienziato Jon Osterman è una figura quasi divina capace di controllare la materia a livello molecolare e atomico e di controllare tempo, spazio ed energia. Vero e proprio l’asso nella manica dell’esercito americano, grazie al suo sostegno, gli Usa hanno vinto la guerra in Vietnam e si trovano nella posizione di assoluti leader mondiali, grazie alla sua funzione di deterrente nei confronti delle nazioni del blocco sovietico. L’equilibrio del mondo è appeso ad un filo. Filo che comincia a rompersi quando un assassino decide di eliminare gli Watchmen, anche quelli divenuti ormai vecchi e da tempo fuori dal giro.
Il più classico dei Whodunit, la cui risposta comincia a delinearsi con prepotenza nella mente del lettore ben prima di avvicinarsi alla fine dei dodici capitoli in cui Watchmen è suddiviso.
Ma la grandezza dell’opera di Moore, come affermato in precedenza, non sta tanto nel cosa viene narrato, quanto nel come. Un modus operandi ben diverso da quello esclusivamente estetico utilizzato da Miller in 300. Il mondo che si viene a delineare nella novel ha una profondità storica che interessa tanto la vicenda quanto i personaggi, inevitabilmente segnati dal loro passato e dagli errori che hanno fatto nell’arco della loro esistenza.
Il postulato mooriano del “se esistessero i supereroi si considererebbero degli Avatar, delle incarnazioni divine e guarderebbero agli affari dell’uomo con una certa sufficienza” viene orchestrato attraverso un uso quasi schematico della composizione delle tavole tinteggiate con colori secondari, in cui tutto funziona perfettamente come se si trattasse del meccanismo di un orologio (guardacaso, Osterman è figlio di un orologiaio e quello dell’orologio è un tema leibnizianamente ricorrente). Dettagli apparentemente privi d’importanza, visioni del mondo antitetiche, speculari, in cui nulla è dettato dal caso, e anche l’incedere di un personaggio in direzione contraria a quella di un camion che porta un simbolo ben determinato (nella prima pagina del romanzo) assume un contorno ben più inquietante una volta che tutti i tasselli sono andati al loro posto. Lance Parkin nella sua biografia di Alan Moore (edita in Italia da Black Velvet) paragona le vignette di Watchmen a dei frattali in cui “ogni volta che le osservi appare un dettaglio che non avevi notato la prima volta o un accenno a nuovi riferimenti” e evidenzia come il lavoro sulle convenzioni del fumetto prenda una strada che lo distanzia nettamente da quanto visto fino a quel giorno: non c’è traccia di baloon di pensiero, onomatopee, didascalie del narratore onnisciente. La metatestualità, composta dall’intrecciarsi degli eventi con i “Tales of the Black Frighter” (fumetto letto davanti a un edicola da un ragazzo di colore che funge da allegoria a quanto narrato nella storia principale) e dagli estratti da libri ed articoli di giornale posti fra un capitolo e l’altro di Watchmen, plasma un unicum narrativo in cui è difficile, impossibile scovare delle falle. La sospensione d’incredulità è totale e si rimane intrecciati nell’universo analettico e prolettico di Watchmen, come nel magistrale quarto capitolo in cui il Dr. Manhattan ripercorre contemporaneamente tutti gli istanti della propria vita in un sincretismo diegetico tanto frequente nel cinema, quanto di difficile attuazione nel medium fumettistico. “Quis custodiet ipsos custodes?”, chi controlla i controllori? La frase, estrapolata dalla sesta satira di Giovenale, scardina definitivamente il concetto del supereroe mono o bidimensionale coi quali gli autori americani avevano cullato l’audience per decenni. Non c’è nulla di rassicurante nei paladini di Alan Moore. Dall’impotenza sessuale superabile solo indossando il costume da vigilante, al fatto di poter determinare le sorti dell’intera umanità, alla crudeltà del Comico (versione dannatamente più cruda e reale del Capitan America di marveliana memoria), messa al servizio dello Stato in Vietnam; gli Watchmen sono delle maschere fallaci, misere se non addirittura folli nella loro autoproclamata onnipotenza.
Onnipotenza che in realtà è del tutto presunta, anche nel caso del determinismo dimostrato dal Dr. Manhattan in cui tutto è già scritto da un orologiaio e tutti, lui compreso, sono delle marionette di cui lui però può vedere i fili. Ordine e progresso. Concetti difficilmente conciliabili secondo Alan Moore.
Considerata la mole di argomenti presente nella graphic novel, è del tutto legittimo essere intellettualmente interessati a quanto fatto da Zack Snyder.
Perché questa volta oltre alla forma è richiesta un’ingente dose di sostanza.

Lo Smiley insanguinato

”Now at midnight all the agents
And the superhuman crew
Come out and round up everyone
That knows more than they do
Then they bring them to the factory
Where the heart-attack machine
Is strapped across their shoulders
And then the kerosene
Is brought down from the castles
By insurance men who go
Check to see that nobody is escaping
To Desolation Row”
Desolation Road, Bob Dylan

Lecito quindi, aspettarsi intensi dosi di machismi tardo adolescenziali, provenendo dalla visione di “300”. Come avere la certezza che i ralenti, lo stop’n’go così adatto alla trasposizione milleriana non si sia già trasformato in cifra stilistica, in marchio di fabbrica ripetuto ad libitum anche in un contesto come quello di Watchmen che invece impone un modus operandi ben più riflessivo. Il primo trailer che venne diffuso qualche mese fa, misto alla dichiarazione in cui il regista svelava che il film sarebbe durato quasi 3 ore, faceva pensare a una sequela infinita di scene madri dilatate all’inverosimile; lo spettro di un repetita che avrebbe giovato ben poco tanto al film quanto alla carriera del director.
L’incipit con la cruenta uccisione del Comico (Jeffrey Dean Morgan) sembra confermare ogni più funesta previsione. La dissonanza cognitiva data dall’assistere a un così efferato omicidio mentre Nat King Cole ci culla con le note della sua celeberrima Unforgettable crea un substrato differente dalle adrenaliniche scene di lotta in cui un manipolo di spartani massacrava guerrieri persiani sulle note sperimentali arrangiate da Tyler Bates, ma tutto viene condito dai ralenti e dagli stop'n'go di cui sopra.
Tutto pare iniziare nel peggiore dei modi.
Ma è sempre in questa scena d’apertura che un accadimento capace di passare quasi del tutto inosservato segna un metaforica cesura con la precedente opera di Snyder: il bicchiere lanciato dal Comico va ad infrangersi contro il numero dell’interno del suo appartamento ed è in questo preciso istante che la pellicola intraprende un percorso inaspettato, spiazzante. Il numero di cui stiamo parlando è un 3001 in rilievo sulla porta, che pare mutare in "300" una volta che la cifra finale viene messa in ombra dai frammenti e dai rimasugli del liquido all'interno del contenitore.
Snyder afferma subito di voler spezzare la pesante eredità del precedente film, eredità così utile in fase di campagna marketing per portare nelle sale tutti quelli che Watchmen non sanno neanche cosa sia.
Alla sintesi additiva di 300 in cui, per dare maggiore chiarezza e profondità alla storia, Snyder era stato costretto ad aggiungere eventi non presenti nella storia originale, in Watchmen il regista adopera con saggezza una sintesi sottrattiva inevitabile per adattare un romanzo in cui coesistono fumetti, una storia nella storia e stralci da libri, archivi e articoli di giornale.
La lunga sequenza dei titoli in cui la canzone forse più emblematica di tutti gli anni’60 americani, The Times Ther are a-Changin di Bob Dylan fa da cornice al racconto dell’ascesa e della conseguente caduta dei primi eroi in maschera, i Minuteman, raccontandoci il loro ruolo all’interno della storia americana, ci consente di spendere un epiteto che mai ci saremmo sognati di utilizzare per questo film. Magistrale. Snyder si permette di demolire qualsiasi preconcetto (e per tutta la serie di motivi che abbiamo elencato non è che fossero pochi) erigendo un contesto storico nel quale inserire i suoi Watchmen. Un contesto storico nel quale Bob Dylan ironicamente, canta che i tempi stanno cambiando, ma non perché stia nascendo una nuova coscienza collettiva, bensì un nuovo modo d’intendere il potere precostituito. "Come senators, congressmen, please heed the call”. Ma non ci sarà risposta alla chiamata popolare e i fiori nei cannoni diventeranno pallottole in faccia ai manifestanti. Gli still frames tridimensionali con cui Snyder affresca gli opening credit, riescono a condensare proporzionatamente la sensazione di “storicità”.
Spiazzante.
Così come Moore e Gibbons creano su carta una realtà alternativa nella quale ogni personaggio non è la semplice risultante gestaltica del proprio apparire su carta, ma il frutto di un continuum spazio-temporale in cui sembra esserci un prima e un dopo Watchmen creato attraverso una costruzione che rende contemporanei i concetti cronologici di presente e passato, Snyder agisce sull’immagine cinematografica rileggendo gli ultimi anni della storia americana come se “Batman, Superman e Capitan America” fossero esistiti realmente (il virgolettato è naturalmente obbligato dal fatto che tali supereroi trovano in Watchmen dei ben precisi corrispettivi ed è proprio l’apparizione di Superman a dar impulso alla nascita dei Minuteman).
Chiaramente, parlando di sintesi, in questa pellicola il lavoro viene fatto inevitabilmente nella direzione opposta a quella di 300. I fatti principali della graphic novel ci sono tutti, ma la narrazione deve necessariamente abdicare di fronte ai “Racconti del Vascello Nero” e ai vari subplot come quello della triste vicenda dello psicologo che prende in cura Rorschach o all’infanzia della piccola Laurie, limitandosi a concedere omaggi visivi che non passeranno inosservati agli occhi allenati dell’amante di Mr Moore.
Ma quello che colpisce di più è quello che mai ci saremmo aspettati di trovare in un Watchmen diretto da Zack Snyder, ovvero una presa di posizione che risulta equamente bilanciata fra un giusto ossequio al lavoro originale su carta e il necessario tradimento che si deve mettere in cantiere quando si adattano per lo schermo opere unanimemente riconosciute come monumentali. Il materiale originale su cu lavorare, permetteva una libertà d’azione ben meno amplia di quella avuta, ad esempio, da David Cronenberg nella trasposizione della graphic novel di Wagner/Locke “A History of Violence”. Difficile ribaltare completamente il punto di vista complesso e poliedrico dell’autore di Northampton senza rischiare di banalizzare un po’ il tutto (che è l’errore forse più grave imputabile alla versione cinematografica di V for Vendetta).
Sconcerta la naturalezza con la quale il regista restituisce sul grande schermo passaggi intensi e diegeticamente complessi come il funerale del Comico (in cui s’intrecciano i flashback di tre personaggi personaggi), la detenzione di Rorschach o il racconto di come Jon Osterman sia diventato il Dr Manhattan. Paradossalmente dimostra anche come, forse, sia più agevole costruire la sincronia utilizzando il linguaggio cinematografico piuttosto che quello fumettistico (il tempo del cinema è sempre quello del hic et nunc e assistere agli stacchi cronologici raccontati al presente indicativo fa forse meno effetto al buoi di una sala di quanto lo faccia sulla carta stampata). A voler essere pignoli, questa parziale reverenza, scade anche nel comico involontario in alcuni passaggi, come quello che vede Gufo Notturno e Spettro di Seta fare sesso all’interno della navicella Archie in cui la riproposizione frame-by-frame di quanto accade nella novel scade drammaticamente nel kitsch, con le note di Halleluja di Leonard Cohen che di certo non aiutano ad uscire da questa empasse. E chiaramente, non sono questi i momenti di fan-service in cui Watchmen-il-film gode di luce propria. A far contenti i fan son capaci tutti (vero Sam “Spider Man No More” Raimi?).
Sono altri. Sono quei lampi in cui Snyder dimostra che dover leggere e adattare una graphic novel come 300 e Watchmen son due lavori differenti, così come son diverse le concezioni politiche e artistiche dei due autori in questione, Frank Miller e Alan Moore. Si potrebbe cominciare dalle peculiarità più ovvie di questa pellicola, ovvero da quel gusto per la citazione più o meno nascosta che Snyder sembra aver interiorozzato da Moore, specialista di in joke e autentica miniera di “quotation” più o meno criptiche. I manifesti dei primi fumetti di Batman che fanno capolino dietro il primo Gufo Notturno durante la sequenza dei titoli, le pubblicità dei prodotti e delle attività di beneficenza di Adrian Veidt, l’estetica e la coreografia scenica delle battaglie del Secondo Gufo Notturno e della seconda Spettro di Seta, così debitrici ai lavori di Nolan e Burton. Anche la “caverna” nella quale Dreiberg nasconde i suoi macchinari segreti e le sue tute, ben lungi dall’essere pacchianamente modernizzate, hanno un rimando visuale ben preciso alle pellicole di Nolan. Così come son cambiati sulla carta, i supereroi son mutati anche sullo schermo e Snyder tira fuori dal cilindro una raffinatezza che mai ci saremmo aspettati da lui, in cui troveranno spazio anche le immagini del film “I 300 spartani”, fonte d’ispirazione per Miller e il suo 300 e l’orwelliana pubblicità con la quale nel 1984 l’Apple Macintosh venne presentato al mondo.
Ed è da quest’apparizione fugace del celebre spot diretto da Ridley Scott (come possiam vedere è impossibile in questa sede non intraprendere un percorso d’analisi connotato da una certa ciclicità) che possiamo trovare lo spunto ermeneutico più preciso per capire dove e come Snyder prenda una strada ben diversa da quella di Moore senza per questo dare vita ad un caso di lesa maestà.
La critica di Zack Snyder è indirizzata in maniera acre ad un America che sorveglia senza essere sorvegliata. Il finale del film, saggiamente cambiato rispetto a quello del fumetto, in cui un Nixon dal naso posticcio (nota per i colleghi che si sono intestarditi a sottolineare l’artificiosità della protuberanza nasale di Tricky Dick: non è che forse, considerato il budget del film, è un fattore voluto e calcolato? D’altronde, quella del Presidente non è una maschera come quella del Gufo Notturno o del Comico?) lancia un messaggio di coesione fra potenze coalizzate contro un nemico comune, sa tanto di drammatico deja-vu. In tempi in cui una nazione ne attacca un’altra perché “culla del terrorismo” accusata di possedere chissà quali (ed inesistenti) armi di distruzione di massa, Snyder si permette un autentico sberleffo nei riguardi del paese che ha dato i natali alla odierna democrazia che però sta del tutto andando alla deriva, assumendo solo la veste di “Watchman” globale in cui i sorrisi di chi proclama “Yes, we can!” appaiono solo come un diverso modo d’intendere questa autoproclamata leadership mondiale.
“Who Watches the Watchmen?”. Sono passati quasi duemila anni da quando Giovenale ha posto in essere la questione.
A quanto pare la domanda è destinata a restare senza risposta.

Metal Gear Watchmen

Quello di David Hayter, co-ceneggiatore del film insieme ad Alex Tse, è un nome che non risulterà del tutto nuovo ai lettori di Everyeye.E' infatti l'attore che da la voce a Solid Snake nei lavori di Hideo Kojima. Haytner, oltre ad essere un valido voice actor, è anche un brillante sceneggiatore. Oltre ad aver incassato i parziali complimenti di Alan Moore che, pur nel totale disinteresse nei confrinti del film di Watchmen, ha dichiarato che la sua sceneggiatura è quanto di più simile al suo Watchmen gli sia mai capitato di leggere, è responsabile degli script dei primi due film di X-Men ed è attualmente al lavoro come regista dell'adattamento cinematografico di Lost Planet, tratto dal celebre videogame Capcom.

Cala il sipario

Il cast scelto per dare vita al manipolo di eroi mascherati è composto da attori noti ai frequentatori delle sale, ma di certo non particolarmente famosi presso il grande pubblico. Scelta, questa, che si rivela essere particolarmente intelligente tanto da un punto di vista di budget (la produzione ha risparmiato sui compensi) quanto artistico poiché la personalità e mondanità degli interpreti non ha preso il sopravvento sui personaggi.
Fra tutti sono Jackie Earle Haley (Rorschach) e Jeffrey Dean Morgan (il Comico) a spiccare.
Il primo riesce a catturare in maniera a dir poco impressionante la complessità di un personaggio come Rorschach, vera e propria miccia che innesca la serie d’eventi. E’ un eroe violento, figlio a sua volta di una violenza immotivata tanto nella sua precedente vita di Walter Kovacs quanto in quella di Rorschach. Haley restituisce tutta la rabbia, la mancanza di fede nella società, nell’uomo e in Dio (che nella sua visione è il primo degli Watchmen a disinteressarsi delle umane miserie) posseduta da questo character paranoico e giustizialista. La scena della sua cattura diviene ancor più forte sullo schermo rispetto a quella narrata su carta grazie alla sue doti attoriali.
Morgan, che per dovere di copione appare solo nei frequenti flashback e nella scena del suo omicidio, con una fisicità a metà strada fra quella di un Javier Bardem e un Robert Downey Jr, ci dona un Comico cinico, che si crogiola nell’esercizio legalizzato della violenza. Ma anche la sua è una maschera utilizzata per nascondere un’amara consapevolezza tanto sulla propria condizione di vigilante, quanto, in modo più esteso, su quella degli esseri umani che, più che da entità esterne, vanno protetti da loro stessi.
Se un Billy Crudup lavorato al computer trasla bene la ieratica e (quasi) totale assenza d’emozioni del Dr. Manhattan, sono Malin Ackerman e Patrick Wilson a delineare più debolmente i loro personaggi. Forse per una mera questione anagrafica (sono nettamente più giovani dei personaggi che intepretano), non riescono davvero a rendere credibile la loro condizione di eroi a riposo e un po’ fuori allenamento e la loro “liaison” perde del tutto quei connotati di pateticità esistenziale presente nel romanzo.
Paradossalmente, è nel rapporto fra Kovacs e Dreiberg che la sceneggiatura funziona di più: il Gufo Notturno guarda alle disgrazie del suo collega ed amico con sincero affetto e sarà proprio nelle ultime battute del film che verrà aggiunto un elemento del tutto assente nella graphic novel capace di rinsaldare ulteriormente questo legame.
Passando al più preventivamente criticato della combriccola, ovvero Matthew Goode/Adrian Veidt, si rende necessario affermare quanto le critiche anticipate vadano sempre prese con le pinze; ogni persona che abbia letto l’opera di Moore è informata del fatto che il Veidt del romanzo è basato, esteticamente, su Kennedy e Redford e quindi la scelta di un attore appena trentenne può far storcere il naso. Tuttavia il Veidt filmico è volutamente più ambiguo del suo corrispettivo su carta: frequenta lo Studio 54, il crogiolo degli eccessi della New York anni’80 ed è decisamente dandy, quindi la scelta di un artista con un phisique du role indiscutibilmente dissimile da quello che appare nelle vignette, più che una svista sembra una scelta voluta (così come il fatto che nella lobby di Veidt risuonino le note di “Everybody wants to rule the world” dei Tears For Fears).
Analogamente, la tanto pubblicizzata esagerazione della violenza, è dettata dal fatto che quanto può essere mostrato in due vignette all’interno di una graphic novel, abbisogna di uno sviluppo differente e maggiormente articolato (e anche furbo, perché no) all’interno della narrazione filmica.

Watchmen Folle. Ipertrofico. Spiazzante. L’Alan Moore e il Dave Gibbons rivisti da Zack Snyder sono una sorpresa tanto per chi conosce a menadito la graphic novel (tutti i momenti salienti del romanzo sono presenti e riconoscibili), tanto per lo spettatore attirato al cinema dal fatto che “il regista è quello di 300” e che si troverà ad assistere ad un film di quasi 3 ore in cui dialoghi e tematiche son decisamente più forti dell “AUUUU!” gridato dai trecento spartani. A scanso di equivoci precisiamo che i ralenti e gli stop’n’go di cui 300 era pieno zeppo, son comunque presenti, anche se in maniera non altrettano esagerata e prepotente. Questo perché Watchmen vive in bilico fra il sentito omaggio al materiale alla base della sceneggiatura, con sequenze orchestrate in maniera perfettamente aderente alla novel, e una certa presa di posizione narrativa e tematica. Consapevole del fatto che mettere in un film tutte le idee di Moore sarebbe stato impossibile, Snyder adotta una diegesi sintetica, con spostamenti cronologici di alcuni eventi ed aggiunta di altri ingredienti che convergono tutti nella stessa direzione: la creazione di un contesto credibile nel quale dipingere l’operato dei suoi Watchmen. Vigilantes che, di fatto, sono solo tasselli di un mosaico ben più amplio chiamato Storia in cui loro, malgrado le capacità sovrumane del Dr Manhattan e l’intelligenza fuori dal comune di Veidt, sono solo “marionette”. Snyder, al posto di premere l’acceleratore sulla pateticità ai limiti del meschinità degli Watchmen, pone l’accento sulla critica allo status quo di una congiuntura storica in cui viviamo tutti all’ombra di un grande Watchman che si è autoconcesso il potere di fare e disfare praticamente tutto quello che vuole su questo granello di polvere cosmica chiamata Terra. Certo, il suo stile deve ancora raffinarsi (e il kitsch di alcuni passaggi ce lo ricorda), ma tanto da un punto di vista prettamente cinematografico, tanto sotto l’ottica dell’adattamento di un’opera oltremodo importante e densa, Watchmen di Zach Snyder è riuscito davvero a sorprenderci. Il suo film è un oggetto anomalo, magari non dotato della perfezione formale di un opera di Chistopher Nolan cui peraltro risulta debitore in larga parte, ma che comunque affascina e lancia un chiaro messaggio anche a chi non ha mai letto la graphic novel. E c'è anche la sperzanza che dopo la visione del film, ci possano essere più persone interessate ad entrare in contatto con i lavori del Guru di Northampton, semplicemente uno dei massimi esponenti del panorama culturale odierno.

8

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