Recensione Shutter Island

Scorsese e Di Caprio, di nuovo insieme, eludono dal capolavoro ma non deludono

Recensione Shutter Island
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Ci sono modi di dire e aggettivi talmente abusati che quasi perdono il significato originale, andando a banalizzarsi nell'uso quotidiano. Spesso si esclama “incredibile!” per cose in realtà assolutamente plausibili. Si dice, a volte, “fantastico!” di opere che in realtà di fantasioso e originale non hanno proprio niente. E si parla spesso a sproposito di qualcuno o qualcosa che ha “lasciato il segno”; si usa spesso nel cinema, parlando di taluni film o autori. Ma raramente con la giusta cognizione di causa. Di registi che hanno davvero impresso un'impronta sull'industria ce ne sono molti di meno di quanti se ne pensi comunemente, in realtà, e Martin Scorsese è uno di questi, senza se e senza ma. I suoi film sono diventati leggenda anche solo a partire dai titoli, che rievocano tutto un mondo. Un mondo ogni volta diverso, ma composto sempre di persone, di individui complessi, alle prese con le asprezze della vita e tutte le sue dualità. Di violenza, di fede (religiosa, nel denaro, nelle proprie possibilità), di nevrosi, di storia umana e morale che fa del progresso tecnologico e civile uno strumento nelle mani dell'uomo che, in fondo, rimane ancorato ai difetti e ai pregi di questa sua tanto sbandierata umanità, a dispetto della cosiddetta “evoluzione”.
Su Scorsese sono scorsi fiumi e fiumi di inchiostro, e il nostro compito qui non è tanto creare una retrospettiva dei suoi lavori quanto tentare di giudicare il suo ultimo, attesissimo lungometraggio, Shutter Island, quindi non ci dilungheremo oltre sul passato del Maestro, per il momento, ma ci addentreremo nello specifico del film in questione.

Qualcuno è scomparso.

Siamo nel '54: la guerra fredda sta per raggiungere il suo apice, la gente è diffidente e sfiduciata. Ci vuol poco per portare un uomo onesto sul bilico della pazzia: pazzia che nei casi più estremi può diventare delirio criminale. Per i casi più gravi del genere, è stato creato l'istituto Ashecliffe, un manicomio criminale sorto su un isolotto al largo di Boston, denominato Shutter Island, adattato da precedenti edifici di epoca coloniale. Un complesso diviso in tre ali principali, oltre al quale non c'è nulla, se non un misterioso e apparentemente inutilizzato faro. L'unico modo per giungere (ed andarsene) da Shutter Island è un malandato traghetto, che trasporta inoltre i beni di prima necessità per gli occupanti dell'isola.
Edward “Teddy” Daniels (Leonardo Di Caprio) è un agente federale, inviato insieme al nuovo collega Chuck Aule (Mark Ruffalo) sul luogo per un'indagine riservata: una pericolosa pluriomicida, Rachel Solando (Emily Mortimer), è scappata dalla propria cella in circostanze sospette e misteriose, ed è compito loro scoprire la verità sulla sua fuga e ritrovarla prima che possa accadere qualcosa di grave a qualcuno degli abitanti dell'isola.
Una missione complessa, considerando soprattutto l'ambiguo rapporto che si instaurerà tra gli agenti e il personale dell'ospedale, in particolare col direttore medico dell'istituto, il dottor John Cawley (Sir Ben Kingsley). Ma come raccogliere indizi e testimonianze attendibili dall'omertoso personale dell'istituto e dai disturbati ospiti coatti dello stesso? Teddy e Chuck si troveranno presto a dover dubitare di ogni piccolo dettaglio che passerà loro davanti, proprio quando un devastante uragano impazzerà sulla zona, impedendo loro di lasciare l'isola e rendendo ancora più difficili le ricerche della fuggitiva. Cosa si nasconde dietro Shutter Island? Stanno davvero investigando sulla “semplice” fuga di un prigioniero, o l'isola nasconde segreti ben più terrificanti, e pericolosi, per i due agenti?

La mente è un'isola in balia di quello che non vogliamo accettare

Tratto dal romanzo omonimo (da noi arrivato nel 2003 col titolo L'isola della paura), Shutter Island è la terza riduzione cinematografica di un romanzo dello scrittore Dennis Lehane, già autore del Gone Baby Gone diretto da Ben Affleck e del pluripremiato La morte non dimentica (Mystic River) di Clint Eastwood.
La storia di Shutter Island, complessa ed avvincente, nonché ricca di diversi livelli di lettura, ha inoltre ispirato ben due diverse graphic novel, una di matrice americana ad opera di Christian de Metter, e l'altra tutta italiana, realizzata da Stefano Ascari e Andrea Riccadonna, pubblicata in questi giorni da Edizioni BD.
L'idea di realizzare un film dal romanzo di Lehane è subito piaciuta a Scorsese, che ha più volte ribadito come il genere lo appassioni moltissimo da spettatore e che la rielaborazione in chiave filmica operata dalla sceneggiatrice Laeta Kalogridis (Alexander, Pathfinder) si adattava perfettamente alla sua visione, per sua stessa ammissione ispirata dai classici del cinema germanico della prima metà del secolo scorso.
Shutter Island scava a fondo nella psiche dei suoi personaggi, creando una fitta rete di misteri che, ad ogni nuovo indizio, fornisce anche nuove domande, e ben poche verità inconfutabili, come in ogni thriller che si rispetti. Il rapporto del genere col delicato argomento della sanità mentale è sempre stato a doppio filo: in questo caso, però, il protagonista non ha una linea unica di indagine e condotta come in molti racconti simili: si ritrova invece a dover discernere fra realtà e allucinazione, verità e menzogna, in una cerchia tutt'altro che ristretta di personaggi che gli ruotano attorno, e dai quali deve ben guardarsi. C'è chi spaccia la menzogna come verità per motivi ben precisi; c'è, invece, chi vive e interpreta una propria proiezione mentale come fosse vera. Dopotutto, la stessa isola è una metafora della mente, un luogo isolato e impervio in balia delle nostre burrasche interiori e di quello che non vogliamo accettare.
Da questo punto di vista, l'idea alla base della storia è vincente, coadiuvata da uno script perlopiù all'altezza, e soprattutto da una rappresentazione visiva e da un immaginario dal grande impatto psicologico.

Rappresentare la follia

Nel riportare su schermo una storia dalla così grande fascinazione, Scorsese è ricorso in primo luogo alla preziosa collaborazione dei suoi tecnici più fidati: il lavoro svolto dal grande scenografo Dante Ferretti in merito è una garanzia, mentre la fotografia di Robert Richardson conferma ancora una volta la maestria di quest'artista così capace di cogliere il meglio da ogni scena.
Non solo l'istituto Ashcliffe è inquietante, ma l'isola tutta che, complice l'uragano, sembra vivere di vita propria, estendendo il suo territorio come una tela di ragno in cui tutti i personaggi si muovono a fatica, sempre più invischiati in qualcosa di indefinibilmente minaccioso e oscuro.
Da un punto di vista tecnico, dunque, un lavoro di prim'ordine, contornato da una rappresentazione della follia tutt'altro che semplicistica e manichea, vero pregio della pellicola. Lo studio dietro alla rappresentazione di un tipico istituto americano di igiene mentale degli anni '50 è stato rigoroso, sotto la supervisione di un consulente speciale quale l'ex primario James Gilligan, che ha fornito precisissime indicazioni tecnico-scientifiche a tutto il cast e la troupe.
I tormentati pazienti dell'istituto sono tutt'altro che delle macchiette; sono presenze inquietanti la cui follia è spesso la visione più “lucida” della realtà con cui Teddy viene a contatto nel corso del film. Nonostante il loro stato di degrado fisico e mentale, sembrano sempre saperne più di quanto uno scaltro marshal federale possa mai scoprire e immaginare. I recessi della memoria e dell'anima vengono così scandagliati con attenzione e perizia, addentrandosi inoltre, a poco a poco ma in maniera sempre più pressante, anche in quelli del protagonista stesso, che scopriremo depositario di numerosi traumi.

Interpretare la follia

Una rappresentazione così espressiva della follia e dell'ambiguità non potrebbe avere luogo, ad ogni modo, senza il lavoro di prima mano del cast attoriale, davvero notevole. Vorremmo in primo luogo rendere onore non solo agli attori protagonisti (sui quali torneremo immantinente) quanto sulle figure relativamente secondarie: le interpretazioni di Max von Sydow, Michelle Williams, Elias Koteas e Jackie Earle Haley, ad esempio, sono azzeccatissime, ma il plauso va al cast nel suo complesso, uno dei più espressivi mai visto.
Venendo ai protagonisti, sicuramente ottime le prove di Mark Ruffalo nei panni dell'agente “buono” del duo investigativo, e di Emily Mortimer in quelle della astrusa Rachel; ma sono l'intensità e il rigore offerte da Di Caprio e Kingsley a firmare un ottimo biglietto di presentazione per qualunque premio degno di questo nome a cui questo film voglia candidarsi.
Sir Kingsley è sfuggente, beffardo, al contempo sospetto e rassicurante; sempre avvolto in una nuvola di fumo, vera o metaforica che sia.
Di Caprio, invece, qui alla sua quarta collaborazione con Scorsese, firma il sodalizio che lo vuole come nuovo attore-feticcio del regista (dopo il De Niro dei tempi d'oro) con un'interpretazione sorprendente. Non è certo la prima volta che interpreta un personaggio borderline, sia per Scorsese che per altri, ma qui la dualità insita nell'animo umano vede nel corpo e nel volto di Di Caprio un'ottima via espressiva, mentre il suo Teddy sprofonda nell'angoscia e nel dubbio. Sarebbe infine ora che la fama di belloccio, che lo ha reso inviso a parte del pubblico (principalmente maschile) fin dai tempi di Titanic lasciasse definitivamente il posto a quella di un attore talentuoso, e visibilmente impegnato nel suo lavoro, che ha trovato in Scorsese, come confermatoci in conferenza stampa, un grandioso medium per l'espressione libera del suo mestiere.

“Qualcosa” è scomparso

Sicuramente in molti avranno già sbirciato il voto finale, e si chiederanno a questo punto il perché di una cifra relativamente bassa per un'opera così tecnicamente valida. La motivazione è data da una doppia mezza delusione di fondo. La prima è relativa alla trama del film, l'altra alle aspettative inevitabilmente legate a cotanto regista. Ma andiamo con ordine.
Molti, durante la visione di Shutter Island, rimarranno delusi da un particolare colpo di scena, che naturalmente non vi sveliamo, anche se certamente i più perspicaci (o avvezzi al genere) subodoreranno la direzione che la storia prende da un certo punto in poi, e che mette in discussione tutto ciò che fino a un certo punto si credeva di sapere. Il coup de théâtre è per molti inatteso e per tutti spiazzante: c'è chi lo apprezzerà, trovandolo geniale e adattissimo, ma una fetta di pubblico lo troverà invece indigesto, inconcludente e insoddisfacente. Oltretutto, il finale è lasciato volutamente aperto da un'ultima, significativa, battuta, che lascerà allo spettatore decidere la verità sugli avvenimenti di Shutter Island, un luogo dove niente è ciò che sembra.
Questa, tuttavia, è una problematica legata al romanzo originale, certamente non imputabile alla Kalogridis o a Scorsese. E' tuttavia aggravata dal fatto di essere una riduzione cinematografica del romanzo stesso, che per forza di cose deve quindi snellire la vicenda di molti fronzoli che però conferivano una grandissima forza e atmosfera sia alla storia che ai personaggi. A Teddy manca molta della caratterizzazione che ha nel libro, qui basata quasi unicamente sul doloroso ricordo della moglie morta e della sua infernale partecipazione al secondo conflitto mondiale. Tutto il resto, dal lascito familiare, alla dipendenza dall'alcol, ai problemi legati a traumi marini (qui risolti in una banale e apparentemente innocua chinetosi), vengono liquidati in pochi particolari che acquisteranno un loro senso solo nel momento in cui si rivedrà la pellicola in un secondo tempo.
Allo stesso modo, il film perde la potenza espressiva del periodo storico in cui è ambientato, concentrandosi quasi esclusivamente sui terrori derivati dall'isola e non su quelli derivati dal mondo esterno, per certi versi ancora più spaventoso.
La paranoia causata dalla guerra fredda, col suo carico di pessimismo cosmico e diffidenza, alla base di molti rapporti umani e professionali così come alla caccia alle spie rosse, confluente in misteriosi e agghiaccianti esperimenti ai danni di innocenti, viene solo sfiorata, ed è un male necessario ma assai fastidioso.

Siamo sicuri che quello che è scomparso non è Scorsese stesso?

Infine, veniamo all'ultimo punto da prendere in esame: la direzione di Scorsese, che sembra aver voluto trovare un equilibrio tra autorialità e contenuti mainstream per questa sua nuova fatica. In Shutter Island troviamo alcune, ma decisamente non tutte, delle sue tematiche più care, tra cui il gioco degli opposti, il senso di colpa, e la tematica dell'uomo autodistruttivo, alla base di gran parte del suo cinema, da La grande rasatura in poi.
Manca, tuttavia, il senso di grandezza, ricchezza ed epicità visto in tutte le sue opere, anche quelle più intimistiche. Ma è chiaro che qui il regista ha voluto semplicemente dire la sua su un genere che ha molto amato da spettatore e che ora voleva far suo, con risultati invero ottimi ma limitanti rispetto al solito.
In confronto al macrocosmo nel quale solitamente getta lo spettatore, quello di Shutter Island è un relativamente piccolo anfratto della mente, nel quale Scorsese sfrutta l'impianto del thriller per parlare e rappresentare visivamente i recessi più oscuri del cervello, dove si annidano sogni e speranze, traumi e violenza. Così come con la trama del film, ci si aspetta una cosa e se ne trova un'altra, e che quel che si trova piaccia o meno è a completa discrezione dello spettatore, relativamente a quanto tenga alle aspettative così tanto ventilate e a quanto sia disposto ad accettare i messaggi provenienti dall'autore degli stessi. Viene da domandarsi se c'era bisogno di scomodare un nome così altisonante per un film di questo genere: ma è il regista stesso che ha mostrato interesse nel realizzarlo, e dunque possiamo semplicemente prenderlo come un divertissement personale nel creare qualcosa di molto lontano dal solito, compresi anche i documentari che ama realizzare di tanto in tanto.

Shutter Island Shutter Island è un bel film nel suo genere, pieno di sfaccettature sottili e meritevole di molteplici visioni volte a coglierle tutte. Sfrutta in maniera magistrale tutti i cliché del thriller, espandendo in maniera realistica le turbe, vere o presunte, dei protagonisti. Ma con i cliché si porta a volte dietro anche un'aria di “già visto” che porterà lo spettatore più smaliziato a intuire parte del mistero molto prima del dovuto. Mistero la cui “soluzione” è molto a rischio di disappunto da parte del pubblico, soprattutto da chi si aspetta, come da tradizione quando si parla di Scorsese, una storia che si regge sulle proprie gambe dall'inizio alla fine, senza bisogno di colpi di scena decisamente ambigui e relativamente “comodi”, che da alcuni possono essere interpretati come una deliberata volontà di barare. La mano di Scorsese si nota eccome, ma questa volta sembra giocare al ribasso.

7

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