Recensione Lourdes

La regista Jessica Hausner ci porta in viaggio a Lourdes per riscoprire il senso della vita

Recensione Lourdes
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In uscita l'11 febbraio, giorno del 151esimo anniversario della prima apparizione della Madonna a Bernadette, Lourdes di Jessica Hausner, regista viennese di cui sentiremo ancora parlare, è uno di quei film densi di significato in cui coesistono astratti simbolismi e tangibili realtà e che ha, per la sue molteplici valenze, raccolto all'unanimità i consensi di agnostici e credenti. Come negli altri suoi due lungometraggi - Lovely Rita e Hotel, entrambi entrati a Cannes nella sezione Un Certain Regard - anche qui la giovane regista sceglie di sviluppare la propria storia in un contesto assai circoscritto, logisticamente e socialmente. Lourdes infatti, meta di pellegrinaggio per eccellenza, è il luogo dove s'incontrano anonime moltitudini di esseri umani malati nel corpo e/o nello spirito, accomunate dalla stessa necessità di ritrovare un senso di vita. Partendo da questa contestualizzazione, la Hausner costruisce il suo parallelo metaforico, secondo il quale la malattia - intesa soprattutto come emarginazione sociale - e il conseguente stato di dipendenza dagli altri, rappresentano le limitazioni che la vita necessariamente c'impone, mentre il miracolo, in quanto vertice massimo dell'espressione irrazionale, rappresenta l'ambivalenza, il dubbio dissacrante che può indurci a comprendere quanto la vita sappia essere sorprendente, nel bene o nel male.

In pellegrinaggio con Christine

Christine (Sylvie Testud) è una giovane donna, inchiodata a una sedia a rotelle da una grave forma di sclerosi multipla. La sua malattia, oltre ad averle causato una progressiva perdita di sensibilità del corpo, fino alla completa paraplegia, l'ha anche inesorabilmente obbligata a una vita di amara solitudine e coatta dipendenza dagli altri, condizioni cui i malati sono spesso costretti. Per sfuggire alla sua solitaria quotidianità e ritrovare un po' di fiducia nel mondo, decide di intraprendere un pellegrinaggio a Lourdes insieme ai volontari dell'Ordine di Malta. Affidata alla cure di una giovane volontaria di nome Maria, Christine seguirà l'eterogeneo gruppo di pellegrini - sani e non, devoti o pettegoli - lungo i vari rituali, sia religiosi che turistici, e le sante abluzioni che rappresentano l'essenza del Sacro Santuario, osservando inoltre come ognuno sia spinto verso quel luogo dei miracoli da un suo motivo personale che non sempre coincide con la fede religiosa. Nel corso del suo viaggio Christine guarderà ai componenti della comitiva con compassione, invidia, interesse, diffidenza, rimanendo però sempre un'osservatrice marginale e impotente, relegata in una vita d'immobilità da un destino che le appare a tratti quanto mai crudele. Finché una bella mattina, al suo risveglio, obbedendo a nuove e inattese pulsioni del corpo, Christine si alzerà e camminerà verso il bagno dove, con le stesse mani fino ad allora rattrappite, comincerà naturalmente a pettinarsi. Il suo ‘miracolo' sposterà sospetti, invidie, diffidenze ma anche nuove attenzioni verso di lei e il suo nuovo status di presunta graziata, mettendola, insieme a tutti gli altri pellegrini, di fronte alla fatidica domanda: "Perché proprio lei?". In un finale pregno di incredula gioia mista a paure di regressione, in cui verrà insignita anche del Premio al miglior pellegrino, Christine volgerà nuovamente il suo sguardo alla vita con un sorriso, miracolata non tanto per aver riscoperto la mobilità del corpo ma per aver ritrovato la gioia di vivere e insieme un barlume di felicità.

L’organizzazione razionale del mistero

Ciò che colpisce di questo lavoro è la lucida geometria, profondamente razionale, di luoghi e cose che si perde nell'indistinto mare magnum di irrazionalità che invece governa le transitorie percezioni umane: fede o scetticismo, misericordia o invidia. L'intento è quello di creare una sottofondo profondamente razionale sul quale far muovere i personaggi di un mistero. Queste contrapposizioni e sinergie, anche musicali, sono all'origine della tensione narrativa che dall'austera scena d'apertura accompagnata dall'Ave Maria di Schubert, in cui lo scenario sembra confinato in una surreale quanto triste regolarità, segue un continuo crescendo per poi liberarsi con l'allegra goliardia dell'epilogo sulle note corroboranti della nostrana Felicità. Tra queste due scene chiave, l'occhio narrante della macchina da presa segue il viaggio di Christine con inquadrature sempre fisse, immobili, indugiando con oggettiva stabilità su rituali, abitudini e sulla sua esistenza inerte, in netto contrasto con il pullulare di variegate identità ed emozioni che le ruotano attorno e che a loro volta cozzano con il rigore formale e il ruolo emblematico di quel luogo reputato sacro ante litteram. Luogo che, metaforicamente parlando, diventa teatro di una girandola di vite che apparentemente senza causa alcuna, scoprono la sofferenza o vengono illuminate da una inaspettata gioia. È infatti proprio la logica del caso a far sì che la poco credente Christine venga miracolata mentre la devotissima Cécile (Elina Löwensohn) prenda il suo posto nel limbo degli infermi. Nell'originale linguaggio cinematografico che la Hausner ci propone con quest'opera ritroviamo uno stile minimalista e grottesco, scientifico e al contempo parabolico, che ispirandosi a grandi maestri del cinema - da Dreyer a Buñuel passando per Tati - riesce a illustrare le profonde incrinature che il miracolo crea nella lineare logica della razionalità, lasciando quindi spazio ad argomentazioni di tipo prettamente astratto e/o spirituale.

Dio è buono e/o onnipotente?

Lo sguardo della Hausner è formalmente ateo ma nondimeno molto imparziale e rigoroso nell'analisi di un quid esistenziale che trae spunto da un antico e dissacrante dilemma epicureo. "Se Dio è buono e onnipotente, perché dovrebbe consentire la sofferenza degli innocenti? Se non può evitarlo", dice Epicuro, "allora non è onnipotente. Se può farlo ma non lo fa, allora non è buono". Mettendo con ciò in discussione l'idea salvifica della religione, sostenuta da un'immagine di Lourdes che vive tanto di rituali religiosi quanto di quelli turistici, souvenir di ogni genere in primis, quel viaggio che la religione interpreta ‘della salvezza' assume qui un ruolo puramente simbolico in quanto Christine lo intraprende solo per uscire dalla prigione del corpo e corroborare l'anima e non per invocare il miracolo. Infine il santuario, meta di sani e invalidi alla ricerca di un segno rivelatore, ovvero quella grazia che compiendosi proverebbe l'esistenza di un'entità suprema a vegliare su di noi, diventa luogo di pellegrinaggio privo di quel fine mistico, lasciando devoti pellegrini e viandanti casuali tutti al loro destino. Si tratta di un lavoro nel complesso molto equilibrato in cui le protagoniste femminili, nei panni di giovinezza, devozione e malattia, appaiono efficaci pedine sulla scacchiera della vita mentre alla regista va il merito di aver gestito del materiale estremamente complesso senza cadere nei cliché religiosi o nei pietismi del caso, dosando abilmente il pathos narrativo lungo la pellicola per poi far convergere tutte le emozioni in un'ultima catartica scena. Ciò che va infine ribadito è che questo della Hausner non vuole essere un film sulla religione o sull'ateismo ma piuttosto un'opera sul mistero della vita che ci appare, sic et simpliciter, come una mera manifestazione del caso: "Il film si interroga sul modo in cui possiamo dare un senso alla vita attraverso le nostre azioni. Di fronte a quest'idea c'è la paura che il mondo sia cupo e freddo, privo di un senso profondo, che si nasca per caso, che si muoia allo stesso modo e che nulla di ciò che facciamo durante la vita conti qualcosa. La verità è difficile da trovare, la nostra vita è al tempo stesso meravigliosa e banale".

Lourdes Traendo ispirazione dalla compostezza visiva di Dreyer, dall’umorismo di Tati e dal potere satirico ammantato di surrealismo di Buñuel, la viennese Jessica Hausner elabora un film originale per forma e contenuto, dai molteplici livelli interpretativi e dalle numerose chiavi di lettura, che non a caso è stato apprezzato concordemente da agnostici e credenti e scelto dall'Istituto Luce come opera da promuovere tra le scuole. E in effetti l’unanimità di consensi è dovuta al fatto che la pellicola, nonostante il titolo, non si soffermi a parlare di religione bensì di valori molto più ampi che abbracciando temi come la solitudine della malattia o il calore umano della comprensione, si spingono infine a sondare il ben più accidentato terreno del senso ultimo della vita, guardandosi bene dal fornire risposte ma impegnandosi piuttosto a gettare le basi per degli importanti spunti di riflessione.

7.5

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