Recensione Il figlio più piccolo

La denuncia dell’Italia furbetta e amorale ne Il figlio più piccolo di Pupi Avati

Recensione Il figlio più piccolo
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Con Il figlio più piccolo, lungometraggio che va a chiudere la trilogia di lavori incentrati sui padri, manchevoli, iperprotettivi o del tutto degeneri, Avati sceglie di mettere in piazza l'italietta furba e scorretta dei tempi moderni dove "conti per quello che hai e quello che possiedi è la misura di quanto vali", e lo fa per dare sfogo a un moto di stizza nei confronti dell'attuale e radicata depravazione. Come lui stesso ha dichiarato: "È la mia prima storia di denuncia. Mi sono sentito costretto a raccontarla da un presente indecente. Non parlo solo di politica, ma della volgarità che mi ha fatto insorgere e ricandidare l'innocenza, quella vera, pura". Il prolifico cineasta bolognese torna dunque, a due anni di distanza dal convincente Papà di Giovanna, a parlare di storie di ordinaria follia familiare che in questo nuovo affresco si tingono di marcio cinismo ed esasperato candore tramite la controversa storia di un padre, snaturato oltre misura, che sfrutta a proprio vantaggio l'innocente e sconcertante ingenuità della moglie e del figlio più piccolo. A vestire i panni dell'infame genitore un insolito Christian De Sica, che ritroviamo a distanza di oltre trent'anni da Bordella, a lavorare con Avati per un'insidiosa sfida artistica che lo vede in una nuova veste drammatica, affiancato da attori di indubbia bravura come Laura Morante, Luca Zingaretti e dalla vera sorpresa del film, il giovane Nicola Nocella, interessante frutto del centro sperimentale di cinematografia.

Storie di infamia e ingenuità

In una tranquilla giornata estiva bolognese del 1992, il piacente faccendiere Luciano Baietti (Christian De Sica) sposa, per meri scopi di lucro, la bella e sempliciotta Fiamma (Laura Morante). Giusto il tempo di un brindisi e Luciano è già pronto con tanto di valigie in mano a seguire le sue velleità imprenditoriali a fianco del mefistofelico consigliere Sergio Bollino (un bravissimo Zingaretti), lasciando moglie e figli vestiti a festa, non senza prima aver estorto a Fiamma i suoi due appartamenti. Così mentre lui si dilegua in cerca di fortune lei, cieca d'amore e fin troppo ingenua per capire, gli dedica un commosso applauso di incoraggiamento. A distanza di oltre dieci anni, Luciano conduce nella periferia romana una vita extralusso, circondato da fidi consiglieri e dal denaro dei loschi traffici della sua mastodontica holding gestita dal genio imprenditoriale di Bollino. Intanto a Bologna sua moglie Fiamma, una irriducibile Penelope dell'era moderna, canta ballate etniche con l'amica Sheyla e sogna il ritorno di quel marito che a suo dire, nonostante le nefandezze, è un principe azzurro senza macchia. E se Paolo, il figlio grande, prova un odio sfrenato per quel padre canaglia che ha abbandonato la famiglia in virtù di un esasperato egoismo, il figlio minore Baldo (Nicola Nocella), condivide l'ingenuità affettiva della madre e la recondita speranza che il genitore possa tornare a salvarli. Così quando un bel dì arriva la telefonata di Luciano che invita il figlio a recarsi nella sua dimora e a fargli da testimone per le seconde nozze, il buon Baldo parte alla volta della sfarzosa holding Baietti, fiducioso in un ravvedimento affettivo del padre.

Un nuovo Avati in chiave moderna

Avati abbandona per questo film le suadenti atmosfere del passato scegliendo di virare verso un clima moderno e molto rappresentativo della società attuale, popolata da furbetti e ladruncoli di ogni sorta che non mancano alla prima occasione di farsi strada sulle spalle di gente onesta, sprovveduta e magari incapace di nutrire rancori. Nasce così la figura di quest'uomo insensibile, perso nel suo brigare e pronto a far ricadere magagne imprenditoriali e guai economici sul figlio piccolo, tonto e facilmente raggirabile. Dall'altra parte della barricata navigano invece i buoni sentimenti, qui spinti oltre il limite e vestiti di esasperata ingenuità. È forse questo il primo anello debole del lavoro, ovvero la distinzione troppo marcata, e dunque un tantino irreale, esistente tra buoni e cattivi, che diventano senza sfumature di sorta buonissimi e cattivissimi. Diciamo che l'idea di esasperare l'assunto manicheo alla base della storia, funziona fin quando non si ha la sensazione di personaggi-macchietta che stentano a convergere in un quadro comune, come sembra accadere qui. Ma il nodo narrativo non è l'unico neo, purtroppo. C'è una generale disattenzione anche dal punto di vista tecnico, in termini di regia, doppiaggio, green screen e avvertibile disgregazione della sintassi filmica, tutti particolari che vanno a inficiare l'economia globale della pellicola.

Una prova riuscita?

Insomma Avati, per dirla in soldoni, sembra aver perso smalto e coerenza espositiva in questo suo ultimo lavoro, dandoci a intendere che forse l'essere prolifici, per esigenze di mercato o simili, può tradursi in vizi creativi, a tratti anche stilistici, che da un regista come lui davvero non ci aspetteremmo. Ma oltre alle note dolenti non manca invero qualche gradevole sorpresa. In primis un De Sica sdoganato dal becero cinepanettone, e che dimostra di essere un onesto attore senza il bisogno di nascondersi dietro leziose moine o antipatici manierismi vocali, e, in questo senso Avati è stato bravo a lavorare per sottrazione. A convincere, inoltre, sono l'efficace prova di Zingaretti nei panni dell'ex religioso convertitosi in arrivista manager d'impresa, sagace e spietato al punto giusto nonché vero motore della storia, e la sempre brava Morante, personaggio che conferisce alla storia un certo pathos, componente che tende nel procedere generale un po' a latitare. Infine un plauso particolare va al giovane Nicola Nocella capace di convogliare lealtà e semplicità nel complesso personaggio di Baldo, un ragazzo che sembra uscito dai fumetti, con quella sua aria persa e candida, sempre in attesa che gli si apra uno spiraglio verso il suo mondo fiabesco, popolato da ingenue fantasie come quella di sfondare nel cinema con un film splatter ambientato a El Paso. E in effetti se per Baldo l'epilogo non sarà così roseo, lo stesso non può dirsi del suo interprete Nocella, al quale realmente si aprono, con questa riuscita prova attoriale, le porte del cinema.

A conti fatti, però, l'onestà interpretativa degli attori non basta a garantire al film quell'efficace scioltezza raggiunta negli altri due lavori facenti parte della succitata ‘trilogia paterna', ovvero La cena per farli conoscere e Il papà di Giovanna, film, soprattutto il secondo, che senza ombra di dubbio rendono più giustizia al talento registico del regista bolognese.


Il figlio più piccolo Di certo non il miglior film di Pupi Avati, Il figlio più piccolo si porta appresso la zavorra di una sceneggiatura non ben sviluppata che marca fin troppo nettamente il confine tra buono e cattivo senza muovere i personaggi in una direzione precisa che susciti pathos, drammatico o comico. Questo, insieme a qualche imprecisione di natura anche tecnica, fa del film un lavoro non propriamente riuscito e che in generale coinvolge poco. Rimangono l’interessante spunto di riflessione che mette al centro il valore improprio attribuito dalla nostra società a denaro e potere, le buone e ottime prove attoriali, inclusa quella dell’esordiente Nocella, e l’apprezzabile coraggio del regista nel cercare sempre di confrontarsi con contesti e questioni socialmente spinosi. Nonostante ciò l’amaro in bocca rimane ed è un amaro che ha a che vedere con premesse e aspettative: da un film di Avati siamo soliti attenderci qualcosa in più.

6

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