Wonder Woman e la fine della credibilità: quando l'ideologia vince sul cinema

La vittoria del cinecomic di Patty Jenkins agli ultimi Critic's Choice Awards riapre il dibattito sulle opinabili scelte morali dei cugini americani.

Wonder Woman e la fine della credibilità: quando l'ideologia vince sul cinema
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A ognuno il proprio Dio, anche cinematografico. Non che si voglia trascendere nella blasfemia, sia chiaro, ma la critica oltreoceano ha nella sostanza avviato un processo di deificazione di Wonder Woman sin dalla sua uscita nelle sale, ponendosi al vertice assoluto di un'immaginaria piramide gerarchico-valutativa composta esclusivamente da fautori dell'incredibile successo del cinecomic di Patty Jenkins e con protagonista Gal Gadot. E stando ai numeri, il boom dell'eroina DC per eccellenza al boxoffice è stato davvero glorioso, con un incasso in patria di ben 412 milioni di dollari (il terzo più alto del 2017) e mondiale di 821 milioni, quasi 200 milioni in più di Justice League, uno dei flop commerciali dell'anno. E anche se complessivamente Thor: Ragnarok o Spider-Man: Homecoming hanno battuto di qualche milione di dollari lo stand-alone dedicato a Diana di Themyscira, in America non c'è stata davvero partita. Dati su una mano e criteri valutativi nell'altra (quelli base, i più semplici), il successo di Wonder Woman è però spiegabile solo in un modo, e cioè in virtù di una guerra aperta alla fallocentrificazione nel genere cinecomic, a sua volta specifica branca del cinema action. E tra elogi a profusione ed editoriali che annunciavano l'arrivo "della salvifica Wonder Woman in un cinema maschio e macho", si è purtroppo perso per strada il senso della misura e soprattutto un minimo di coerenza critica, portando Wonder Woman alla vittoria nella categoria Miglior Film d'Azione dei Critic's Choice Awards.


Una giusta battaglia combattuta in modo sbagliato

Se si trattasse solo di valutare nella loro interezza e organicità i cinecomic usciti quest'anno, comunque il film di Patty Jenkins non reggerebbe il confronto né con Thor: Ragnarok né con Spider-Man: Homecoming, ma se la giocherebbe a carte scoperte e in parità con Justice League, però completamente affossato dalla critica. Ora, anche per mandare un messaggio all'innumerevole gruppo di sessisti che vivono e prolificano nell'industria del cinema (che resta, ahinoi, maschilista), la vittoria ai premi della critica americana come miglior esponente del cinema d'azione sarebbe anche accettabile al netto dei difetti del titolo, sempre in virtù di un lotta sentita e anche giusta contro un dilagante sessismo cinematografico.

Risulterebbe più coerente, essenzialmente perché, nella complessità produttiva del genere di appartenenza, Wonder Woman è a tutti gli effetti l'unico cinecomic con protagonista una donna forte e determinata, dalla psicologica sfaccettata, non oggettificata, sexy e guerriera. Certo, ha gravi ed evidenti problemi in purissimi termini di CGI e recitazione, per non parlare di un minutaggio troppo lungo sulla base di una sceneggiatura spesso poco entusiasmante, ma tutto cadrebbe in secondo piano se il messaggio ideologico della critica venisse fuori con tutta la sua forza dirompente a tirare giù gli argini di un Sistema Cinema fallocratico; tutto sarebbe più chiaro, tutto sarebbe più giusto. E invece no, perché c'è stato bisogno di esagerare i finti elogi verso un film essenzialmente sufficiente, con più lode che infamia. I voti sono schizzati alle stelle, i numeri anche, portando un titolo passabile a uno score del 92% su Rotten, uno dei più alti per un cinecomic. E se il divario critico-ideologico tra stampa nostrana o europea e cugini d'oltreoceano era già ai ferri corti, il divario valutativo su Wonder Woman non ha fatto altro che stringere ancora di più questa forbice. In questo quadro, inoltre, la vittoria ai Critic's Choice Awards assume un'ulteriore piega negativa se andiamo ad analizzare la cinquina dei nominati, che comprendeva Baby Driver di Edgar Wright, The War - Il Pianeta delle scimmie di Matt Reeves, Thor: Ragnarok di Taika Waititi e Logan di James Mangold, tutti titoli tecnicamente superiori al film della Jenkins ma tutti con protagonisti maschili. Assurdo, in aggiunta, che in un contesto simile non sia stato candidato Atomica Bionda, che vede come assoluta regina della scena un'agguerritissima Charlize Theron, per giunta con alcune delle migliori sequenze action dell'anno -ricordiamo uno spettacolare piano sequenza di 10 minuti, che di per sé vale già ogni scena d'azione goffa e poco originale di Wonder Woman. L'esclusione del film di David Leitch potrebbe aver due motivazioni: la prima, più semplice, è il suo score su Rotten, aggregatore di recensioni, mentre la seconda, più complottista, per far vincere facilmente Wonder Woman. Stando a quella più plausibile, incrociando i titoli risulta che a entrare nella cinquina siano stati solo i film con una percentuale tra il 92 e il 93%, il che è anche comprensibile se pensiamo che si parla dei premi della critica. Con il suo 77%, invece, Atomica Bionda non è riuscito a entrare nelle candidature, pur essendo stato lodato e apprezzato dalla stampa americana.

"Pazienza", direte voi, e invece no, perché anche se non veicola una positività simile a quella di Wonder Woman, Atomica Bionda è sempre la rappresentazione di una donna forte e determinata, sexy e guerriera, anche se in un film non adatto ai più piccoli, e quindi la sua esclusione rappresenta un lack ipocrita nella raffinata ideologia vaginocentrica americana, giustissima ma fino a un certo punto, quello di rottura. Arrivati a questo vertice, così, abbiamo infatti assistito alla vittoria dell'ideologia sul cinema d'azione, quello davvero bello e giusto da premiare, a prescindere dalla gender question. La critica ha palesemente ignorato la tecnica di Wright, la scrittura pungente ed esagerata di Waititi, il peso emotivo di un addio in Logan e la perfetta chiusura di una trilogia con The War. E tutto questo è stato causato da infiltrazioni di bigottismo e incoerenza in una battaglia sacrosanta da combattere ma portata avanti nel modo più sbagliato possibile, almeno in questo caso.

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