La satira è sempre stata parte vitale della fisiologia cinematografica di Adam McKay, fin dagli inizi. Regista e alunno del blasonato Saturday Night Live anni '90, l'autore ha cominciato il suo percorso nel mondo del cinema relativamente tardi, nel 2004, scrivendo e dirigendo una delle commedie demenziali più amate di sempre, Anchorman - La Leggenda di Ron Burgundy, tra l'altro prima collaborazione - anche produttiva - con il sodale Will Ferrell. Il film non si prestava semplicemente alla battuta volgare o al solito gioco d'inconsapevolezza del protagonista, si presentava anche come una velata critica al sistema mediatico dell'informazione, schiavo dell'arrivismo più becero e per questo più puro. Già in partenza, insomma, McKay aveva ben impiantato nel suo stile il seme della satira, nascosta adeguatamente - per non destare troppi sospetti tra i conservatori - sotto tonnellate di scrittura ebete o apparentemente dissennata, esplosa soprattutto nei suoi successivi film, da Ricky Bobby fino anche a Poliziotti di Riserva. Nel passaggio dalla pubertà all'adolescenza cinematografica del regista, la critica sarcastica o sagace ai diversi aspetti della vita contemporanea si è cominciata a perdere, ma come rivelato dallo stesso McKay è stata "colpa" della sua voglia di arrivare subito alla maturità autoriale. Per farlo - purtroppo o per fortuna - ha dovuto scendere a dei precisi compromessi e vivere appieno gli eccessi della giovinezza, ma ottenendo infine "il permesso" di andare oltre. Se con La Grande Scommessa ha dimostrato di sapere unire perfettamente satira e dramma, commedia e sintassi documentaria, con Vice - L'Uomo nell'ombra McKay regista raggiunge la sua piena coscienza stilistica, formalmente ineccepibile.
Ritratto di un servo del potere
Il lavoro svolto da McKay nel ritrarre sul grande schermo la vita di Dick Cheney, sfaccetta e secretata, è davvero impressionante. Ce lo svela già all'inizio, quando annuncia con veemenza di "avercela messa tutta" per proporre agli spettatori - in particolar modo americani - una fotografia quanto più veritiera possibile su uno degli uomini politici più discussi degli Stati Uniti. Ed è vero: ce la mette tutta, lui e anche i suoi protagonisti, di cui abbiamo già tessuto le lodi nella nostra recensione, ma le accuse di parte - anti-repubblicane, liberali, pro-democratiche - sono lì a colpire comunque il film, perché i fatti, paradossalmente, sono sempre soggettivi. Questo McKay lo sa e fa in modo di inserire le critiche stesse nella sua narrazione tanto virtuosa e ricca di artifici inventivi, lasciando rompere la quarta parete al Cheney di Christian Bale per non fargli chiedere scusa e anzi, lasciarlo giustificare platealmente per la valenza del suo servizio, di cui si dice "onorato". Il fatto è che l'ex-Vice Presidente non è riuscito a chiedere scusa pubblicamente neanche a un uomo a cui aveva sparato per sbaglio, figurarsi a un Paese intero - e allo stesso mondo, viste le ripercussioni - che ha invece portato volontariamente in guerra, sacrificando migliaia di vite innocenti per scopi personali o di partito. Il regista immagina allora il siparietto e la magistrale tracotanza di un Cheney mai impaurito e anzi sfrontato nel doversi scusare, che assume invece i connotati di un'ulteriore e finale attestazione di potere che non guarda in faccia nessuno, pur scrutando tutti negli occhi. McKay entra a gamba tesa sulla vita di Cheney e colpisce duro, lasciandola franare sul campo di gioco che è il cinema, in una caduta scomposta che non riesce ad attutire l'urto con il pubblico. Vice è un film che non risparmia colpi bassi quando può, che non si tira mai indietro quando c'è da attaccare con sicurezza la morale flessibile e ballerina dell-ex-vice presidente e del suo "entrourage" - se vogliamo chiamare così la Presidenza Bush. Un biopic politicamente spietato che fa di uno stile narrativo pop-intellettuale la sua grande arma vincente, sfruttando immagini di repertorio, font su schermo e digressioni stilistiche a piacimento, quasi sempre in modo più che convincente.
Il regista si schiera - apertamente - contro Cheney e la sua corsa verso "l'esecutivo unitario", contro il suo ego, contro la classe dirigente di cui fa parte e contro gli ideali ipocriti della sua famiglia, pronta a voltare le spalle in blocco all'unico elemento "di minoranza" del nucleo. Si avverte un palpabile disprezzo per la figura politica e umana di Cheney, che certo, viene alterata dalla visione sinistrorsa dell'autore, ma anche appoggiata dalla documentazione dei fatti; o almeno, dei fatti noti, raggruppati e riproposti sul grande schermo in un giocoso e intrigante caleidoscopio di ripetizioni, esemplificazioni e trovate espositive e formali straordinarie. Curioso però come, dovendo giocare di sottrazione nell'insicurezza fattuale del materiale documentato o biografico, McKay riesca a tirare fuori il meglio dalla sua anima satirica, confezionando intuizioni meravigliose come i finti titoli di coda a metà del film o lo "schiocco di dita shakespeariano" - atto a drammatizzare l'inconoscibile.
Raggruppate insieme alla metafora della pesca (vista già nel Nymphomaniac di Lars Von Trier), alla scelta dei piatti da ordinare o alla storiella delle parrucche e dei giardini della Casa Bianca, tutte queste trovate sottolineano la piena maturità artistica di Adam McKay, che diventa gran cerimoniere e maestro formidabile della valorizzazione dell'artificio narrativo, massimo comune denominatore del suo cinema. L'autore si adopera in un racconto per immagini modellato interamente dalla sua visione e dal materiale raccolto, decodificando con un pizzico di intransigenza intellettuale la figura di Cheney, lasciandola assurgere a personificazione concreta del cuore nero americano. È la stessa configurazione del potere a essere malata e soggetta a piccoli infarti socio-politici, tant'è che il regista accompagna questa riflessione con la cagionevole salute cardiaca di Cheney, messa spesso a repentaglio. Diventa per noi un'abitudine vedere il protagonista annunciare "di voler andare in ospedale", così come per i co-protagonisti, tanto che sembra che lo stesso McKay voglia tentare a più riprese di togliere di mezzo il suo Vice, senza però riuscirci, perché i fatti vanno contro la sua volontà. In ugual misura, la stessa politica continua a riprendersi di volta in volta e a tornare più battagliera e arrogante che mai, perché la corruzione morale che infetta gli organismi statali è come l'energia: non si crea né si distrugge. Si trasforma.
Vice, il cuore nero d'America secondo Adam McKay
Il regista de La Grande Scommessa evolve la sua grammatica narrativa per portare sul grande schermo un biopic brillante e sofisticato.
La satira è sempre stata parte vitale della fisiologia cinematografica di Adam McKay, fin dagli inizi. Regista e alunno del blasonato Saturday Night Live anni '90, l'autore ha cominciato il suo percorso nel mondo del cinema relativamente tardi, nel 2004, scrivendo e dirigendo una delle commedie demenziali più amate di sempre, Anchorman - La Leggenda di Ron Burgundy, tra l'altro prima collaborazione - anche produttiva - con il sodale Will Ferrell.
Il film non si prestava semplicemente alla battuta volgare o al solito gioco d'inconsapevolezza del protagonista, si presentava anche come una velata critica al sistema mediatico dell'informazione, schiavo dell'arrivismo più becero e per questo più puro.
Già in partenza, insomma, McKay aveva ben impiantato nel suo stile il seme della satira, nascosta adeguatamente - per non destare troppi sospetti tra i conservatori - sotto tonnellate di scrittura ebete o apparentemente dissennata, esplosa soprattutto nei suoi successivi film, da Ricky Bobby fino anche a Poliziotti di Riserva.
Nel passaggio dalla pubertà all'adolescenza cinematografica del regista, la critica sarcastica o sagace ai diversi aspetti della vita contemporanea si è cominciata a perdere, ma come rivelato dallo stesso McKay è stata "colpa" della sua voglia di arrivare subito alla maturità autoriale. Per farlo - purtroppo o per fortuna - ha dovuto scendere a dei precisi compromessi e vivere appieno gli eccessi della giovinezza, ma ottenendo infine "il permesso" di andare oltre.
Se con La Grande Scommessa ha dimostrato di sapere unire perfettamente satira e dramma, commedia e sintassi documentaria, con Vice - L'Uomo nell'ombra McKay regista raggiunge la sua piena coscienza stilistica, formalmente ineccepibile.
Ritratto di un servo del potere
Il lavoro svolto da McKay nel ritrarre sul grande schermo la vita di Dick Cheney, sfaccetta e secretata, è davvero impressionante. Ce lo svela già all'inizio, quando annuncia con veemenza di "avercela messa tutta" per proporre agli spettatori - in particolar modo americani - una fotografia quanto più veritiera possibile su uno degli uomini politici più discussi degli Stati Uniti. Ed è vero: ce la mette tutta, lui e anche i suoi protagonisti, di cui abbiamo già tessuto le lodi nella nostra recensione, ma le accuse di parte - anti-repubblicane, liberali, pro-democratiche - sono lì a colpire comunque il film, perché i fatti, paradossalmente, sono sempre soggettivi.
Questo McKay lo sa e fa in modo di inserire le critiche stesse nella sua narrazione tanto virtuosa e ricca di artifici inventivi, lasciando rompere la quarta parete al Cheney di Christian Bale per non fargli chiedere scusa e anzi, lasciarlo giustificare platealmente per la valenza del suo servizio, di cui si dice "onorato". Il fatto è che l'ex-Vice Presidente non è riuscito a chiedere scusa pubblicamente neanche a un uomo a cui aveva sparato per sbaglio, figurarsi a un Paese intero - e allo stesso mondo, viste le ripercussioni - che ha invece portato volontariamente in guerra, sacrificando migliaia di vite innocenti per scopi personali o di partito. Il regista immagina allora il siparietto e la magistrale tracotanza di un Cheney mai impaurito e anzi sfrontato nel doversi scusare, che assume invece i connotati di un'ulteriore e finale attestazione di potere che non guarda in faccia nessuno, pur scrutando tutti negli occhi.
McKay entra a gamba tesa sulla vita di Cheney e colpisce duro, lasciandola franare sul campo di gioco che è il cinema, in una caduta scomposta che non riesce ad attutire l'urto con il pubblico. Vice è un film che non risparmia colpi bassi quando può, che non si tira mai indietro quando c'è da attaccare con sicurezza la morale flessibile e ballerina dell-ex-vice presidente e del suo "entrourage" - se vogliamo chiamare così la Presidenza Bush. Un biopic politicamente spietato che fa di uno stile narrativo pop-intellettuale la sua grande arma vincente, sfruttando immagini di repertorio, font su schermo e digressioni stilistiche a piacimento, quasi sempre in modo più che convincente.
Il regista si schiera - apertamente - contro Cheney e la sua corsa verso "l'esecutivo unitario", contro il suo ego, contro la classe dirigente di cui fa parte e contro gli ideali ipocriti della sua famiglia, pronta a voltare le spalle in blocco all'unico elemento "di minoranza" del nucleo.
Si avverte un palpabile disprezzo per la figura politica e umana di Cheney, che certo, viene alterata dalla visione sinistrorsa dell'autore, ma anche appoggiata dalla documentazione dei fatti; o almeno, dei fatti noti, raggruppati e riproposti sul grande schermo in un giocoso e intrigante caleidoscopio di ripetizioni, esemplificazioni e trovate espositive e formali straordinarie.
Curioso però come, dovendo giocare di sottrazione nell'insicurezza fattuale del materiale documentato o biografico, McKay riesca a tirare fuori il meglio dalla sua anima satirica, confezionando intuizioni meravigliose come i finti titoli di coda a metà del film o lo "schiocco di dita shakespeariano" - atto a drammatizzare l'inconoscibile.
Raggruppate insieme alla metafora della pesca (vista già nel Nymphomaniac di Lars Von Trier), alla scelta dei piatti da ordinare o alla storiella delle parrucche e dei giardini della Casa Bianca, tutte queste trovate sottolineano la piena maturità artistica di Adam McKay, che diventa gran cerimoniere e maestro formidabile della valorizzazione dell'artificio narrativo, massimo comune denominatore del suo cinema. L'autore si adopera in un racconto per immagini modellato interamente dalla sua visione e dal materiale raccolto, decodificando con un pizzico di intransigenza intellettuale la figura di Cheney, lasciandola assurgere a personificazione concreta del cuore nero americano.
È la stessa configurazione del potere a essere malata e soggetta a piccoli infarti socio-politici, tant'è che il regista accompagna questa riflessione con la cagionevole salute cardiaca di Cheney, messa spesso a repentaglio. Diventa per noi un'abitudine vedere il protagonista annunciare "di voler andare in ospedale", così come per i co-protagonisti, tanto che sembra che lo stesso McKay voglia tentare a più riprese di togliere di mezzo il suo Vice, senza però riuscirci, perché i fatti vanno contro la sua volontà.
In ugual misura, la stessa politica continua a riprendersi di volta in volta e a tornare più battagliera e arrogante che mai, perché la corruzione morale che infetta gli organismi statali è come l'energia: non si crea né si distrugge. Si trasforma.
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