USS Indianapolis: la vera storia dietro il film con Nicolas Cage

Non solo un film ma anche una delle tragedie più terribili della storia navale americana. Ecco cosa si cela dietro la caduta della mitica USS Indianapolis.

USS Indianapolis: la vera storia dietro il film con Nicolas Cage
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Per alcuni si tratta della più grande tragedia nella storia navale americana, con un altissimo numero di vittime, un infinito carico di polemiche e una storia di ingiustizie che ancora oggi continua a far discutere. L'affondamento del mitico incrociatore USS Indianapolis avvenuto alla fine della seconda Guerra Mondiale è ancora oggi una ferita aperta per il popolo americano, un evento tragico e forse evitabile, che ha tolto la vita a 880 persone e portato all'oblio, alla depressione, alla disperazione e poi al suicidio il suo comandante, il capitano Charles McVay. Questa vicenda è diventata un film con Nicolas Cage uscito nelle sale italiane il 19 luglio, ma ben più complessa e intricata è la storia vera dietro questa pagina nera del libro della storia militare americana.

Una nave gloriosa

La storia della USS Indianapolis inizia nel 1932, anno in cui questo incrociatore pesante venne ufficialmente varato, divenendo una nave ammiraglia della 5° Flotta della Marina Americana degli Stati Uniti d'America. La nave faceva parte di una classe molto particolare di incrociatori, delle vere e proprie città galleggianti che pullulavano di mezzi e armi. La Indianapolis si distingueva per la leggerezza del suo scafo e la potenza dei suoi motori, che permettevano una grande velocità di crociera, ma anche per l'alta vulnerabilità della sua struttura, poco protetta e troppo fragile, incapace di resistere all'attacco di un solo siluro. Molte furono le missioni che le furono affidate nel corso della storia, tutte piuttosto importanti, come l'ultima che, di fatto, segnò l'inizio della sua fine. Il 26 luglio 1945, nonostante alcuni danni riportati per un attacco kamikaze subito a Okinawa, la mitica nave attraccò a Tinian nel Pacifico meridionale per consegnare una cassa dal contenuto segretissimo ma dall'importanza fondamentale. Questa non era altro che l'involucro della prima bomba atomica, quella che poi avrebbe sconvolto il mondo durante l'attacco di Hiroshima. Consegnato il carico e riparati i danni la nave ripartì verso Leyte, nelle Filippine, dove si sarebbe riunita alla flotta del pacifico. Era il 28 luglio del 1945. Fu l'inizio della sua fine.

Un disastro annunciato?

La guerra giungeva al termine con gli Stati Uniti ormai certi della vittoria e il Giappone quasi in ginocchio. Le acque in cui si trovò a passare la Indianapolis non erano però tranquille, ma ricche di pericolosi sommergibili giapponesi, sempre allerta e pronti all'attacco ad ogni occasione. I vertici della marina sottovalutarono il pericolo e la Indianapolis fu fatta partire alla volta di Leyte senza una scorta di protezione, fondamentale per avvistare la presenza di nemici: gli incrociatori infatti erano sprovvisti di sonar, presenti invece nei cacciatorpedinieri che abitualmente le accompagnavano. Al comandante McVay fu inoltre data massima libertà sulla rotta da portare avanti: non era infatti obbligato a seguire un andamento a zig-zag, considerato fondamentale per la sicurezza, durante la notte nei periodi di buona visibilità. I dispacci informativi consegnati al comandate prima della partenza contenevano inoltre poche e frammentarie informazioni sull'avvistamento di tre sommergibili nella zona che la nave avrebbe dovuto attraversare, non citavano alcuni incidenti bellici avvenuti pochi giorni prima e non parlavano della presenza di un gruppo di sommergibili giapponesi che presidiava da tempo la zona. Per questioni di sicurezza il comandante e tutto il suo equipaggio furono tenuti all'oscuro di quello che sarebbe potuto accadere durante la loro traversata.

L'attacco

Fu in quelle acque che un sommergibile giapponese, guidato dal capitano Mochitsura Hashimoto, fu colpito dalla presenza solitaria della grande nave statunitense. Il sommergibile disponeva di un armamentario tecnologicamente molto avanzato, comprendente 19 siluri e 6 kaiten, missili pilotati da soldati suicidi pronti a immolarsi per la gloria della patria. Il capitano fu colpito dalla presenza della nave nemica, enorme, solitaria e perfetta per essere attaccata: la guerra giungeva al termine e la sconfitta cocente dell'esercito del Sol Levante aveva creato numerosi malumori; il capitano non voleva tornare in patria senza aver ottenuto nessun tipo di vittoria, il disonore sarebbe stato troppo grande. Per questo, alle 00:04 del 30 luglio, diede l'ordine di lanciare sei siluri. Nel giro di un minuto due di questi intercettarono l'incrociatore statunitense, danneggiandolo irrimediabilmente. Il serbatoio di carburante fu distrutto, provocando forti esplosioni e la prua inizio rapidamente ad immergersi, imbarcando acqua in tutto il corpo interno della nave.

In poco tempo la Indianapolis fu quasi spezzata in due, gli uomini confusi entrarono nel panico e le procedure di abbandono furono tra le più confuse mai viste. La posizione assunta dalla carcassa dopo l'attacco segnò sin da subito il destino di buona parte dell'equipaggio, visto che i salvagenti e le attrezzature di salvataggio si concentrarono solo su un lato; chi era sceso dalla parte giusta aveva possibilità di sopravvivere, gli altri si condannarono a morte certa. A creare ulteriori problemi fu il carburante riversatosi in acqua, appiccicoso e dannoso per pelle e vie respiratorie. Prima di abbandonare la nave furono inviati dei segnali di soccorso, ma i tre arrivati a destinazione furono ignorati. Il primo perché il capostazione era ubriaco, il secondo perché il comandante aveva ordinato ai suoi di non disturbarlo e il terzo perché ritenuto un falso inviato con l'inganno dai Giapponesi. Mentre l'USS Indianapolis esplodeva affondando nell'oscurità dell'oceano nessuno era a conoscenza che la nave era stata affondata. Fu l'inizio di un inferno durato cinque giorni.

Squali e Follia, il calvario dei sopravvissuti

Furono 900 gli uomini che riuscirono ad abbandonare la nave. Si ritrovarono in un tratto di mare terribile, profondo e oscuro, abitato da creature fameliche. Alcuni soldati morirono subito, altri furono vittime di tutte le terribili conseguenze della permanenza in mare. Chi non era morto nelle prime ore riuscì però a trovare un minimo di sollievo. I sopravvissuti si radunarono in piccoli gruppi, intorno a galleggianti di fortuna o zattere. Alcuni riuscirono a trovare viveri e provviste, altri iniziarono a segnalare la loro posizione con dei razzi. Il gruppo intorno al comandante McVay fu il meglio organizzato, ma un mortale pericolo iniziò a presentarsi dalle profondità dell'oceano, quello degli squali. Questi feroci animali iniziarono ad attaccare all'alba di martedì 31 luglio. Le creature, presenti in massa in quelle acque, avevano seguito per giorni l'Indianapolis, attirati dai rifiuti gettati fuori bordo. Nella giornata successiva all'affondamento si erano cibati quasi solo di cadaveri o naufraghi solitari, ma poi iniziarono a interessarsi ai grandi gruppi radunati intorno alle zattere. Gli attacchi furono terribili: alcuni venivano urtati e poi divelti a morsi, altri attaccati e trascinati giù con una velocità sorprendente. Alcune zattere furono spezzate e la sempre maggiore presenza di sangue e corpi eccitò ancora di più gli animali, che intensificarono i loro attacchi. Le giornate dei marinai iniziarono così ad essere scandite dalle abitudini degli squali, che solitamente attaccavano in massa la mattina, si cibavano di feriti e cadaveri durante il giorno e assalivano nuovamente i vivi dopo il tramonto. Disidratazione e ipotermia iniziarono a manifestarsi subito dopo, portando i naufraghi a bere importanti quantità di acqua salata, con tutte le terribili conseguenze del caso.

Cinque giorni d'inferno

Per raggiungere i naufraghi sarebbero bastate due ore di volo da Leyte o una crociera di 24 ore di una nave di salvataggio, ma nessuno si mosse. I porti che si occupavano di partenze e arrivi non si preoccuparono del ritardo della Indianapolis, visto che era abituale per navi di questo tipo cambiare rotta o arrivare giorni dopo. Nel frattempo i superstiti furono colpiti dalle reazioni mediche più disparate e da una disperazione che presto si trasformò in follia: vittime di allucinazioni e paure, i marinai iniziarono ad uccidersi tra loro, nei modi più terribili e truci. I giubbotti di salvataggio iniziarono a perdere la loro efficienza, molti annegarono, altri videro la loro pelle bruciata dall'acqua e dal sole. Nella mattina del 2 agosto, per un fortuito caso, un pilota della Marina che pattugliava il Mare delle Filippine con un bombardiere, avvistò la macchia di carburante e trovò un gruppo di 30 superstiti cui lanciò dei materiali di salvataggio. Inviata la segnalazione al comando si capì rapidamente con cosa si aveva a che fare: la presenza di quei naufraghi fu ricollegata alla fino a quel momento sottovalutata assenza della Indianapolis dai radar e dai dispacci dei porti. Fu organizzata una gigantesca opera di salvataggio e in poco meno di 24 ore tutti i naufraghi furono recuperati. I numeri finali della tragedia furono tra i più grandi mai visti, di quelli che stupirono anche gli stessi soldati. Su 1196 membri dell'equipaggio a sopravvivere furono solo 321. Su 81 ufficiali perirono in 67, mentre furono ben 808 i marinai scomparsi. Nei giorni successivi furono altri quattro i superstiti a morire in ospedale per un totale di soli 317 soldati sopravvissuti. Stime abbastanza precise parlano di almeno 200 vittime arrivate in seguito all'attacco degli squali, per una media folle di almeno 50 uccisioni al giorno. Ma per i sopravvissuti la tragedia proseguì tra traumi, azioni terribili compiute e un processo passato alla storia che vide protagonista il comandante McVay.

Le terribili conseguenze

Quello che si scatenò nei mesi successivi alla tragedia ebbe dell'incredibile. Le giuste critiche verso le pratiche lacunose della marina statunitense lasciarono presto il posto alla ricerca di un unico capro espiatorio cui addossare tutte le colpe. Con la decisione di non navigare a zig zag come imponevano i protocolli, il comandante McVay attirò su di se l'attenzione dei media e della marina, pronta a liberarsi delle sue innumerevoli colpe e a dare ad un uomo solo tutte le responsabilità di quanto accaduto. Ne nacque un incredibile processo e il comandante fu l'unico tra quelli che persero una nave durante la seconda guerra mondiale ad essere sottoposto a corte marziale. La marina non ritenne di avere responsabilità su quanto accaduto e nel processo non vennero affrontati alcuni argomenti piuttosto controversi. Nessuno si interrogò sul ritardo dei soccorsi, sul fatto che nessuno per cinque giorni si fosse chiesto che fine avesse fatto l'Indianapolis, sul modo in cui la missione fu gestita sin dalla sua genesi, su come nessuno fosse stato avvertito dei pericoli che sarebbero potuti arrivare. Tutto fu ridotto ad una sola accusa verso il comandante, colpevole di non aver navigato a zig zag e di aver così messo in pericolo la sua nave provocando, indirettamente, il suo affondamento. Il 19 dicembre McVay fu giudicato colpevole, si vide decurtati i suoi meriti e fu di fatto costretto ad abbandonare la sua carriera. Tutto questo nonostante il comandante del sommergibile giapponese, Hashimoto, avesse tranquillamente ammesso che la traiettoria a zig zag non avrebbe cambiato la natura dell'attacco ne salvato l'Indianapolis dall'affondamento. Da quel momento in poi McVay iniziò a ricevere continue lettere di insulti da parte dei famigliari delle vittime e fu sottoposto ad un linciaggio morale che lo spinse anno dopo anno nel vortice della depressione e del senso di colpa. La riunione tra tutti i superstiti nel 1960 servì a risollevare leggermente il morale del capitano, non ritenuto responsabile di nulla dai colleghi, ma la morte di sua moglie nel 1961 e quella del nipote nel 1965, unite alle lettere di minaccia dei parenti delle vittime che continuava a ricevere, lo spinsero a puntarsi una pistola alla tempia e a togliersi la vita il 6 novembre del 1968.

La (tardiva) riabilitazione

Nel corso degli anni successivi furono numerosi i tentativi di riabilitare la figura dello sventurato comandante, per molti messo in mezzo ad una storia più grande di lui e accusato di colpe che non potevano essere sue: qualsiasi cosa avrebbe scelto di fare non avrebbe potuto cambiare di una virgola quanto successo. La lunga diatriba giudiziaria e la difesa a spada tratta di alcuni dei compagni di McVay portarono il congresso degli Stati Uniti a firmare una risoluzione per riabilitare la figura del comandante e liberarlo da ogni responsabilità. Dopo anni di ritrosie la marina accolse la richiesta del governo e dell'allora Presidente Bill Clinton e nel 2001 prosciolse il comandante da ogni accusa. Seppur non ammettendo mai ufficialmente le sue colpe rilasciò una nota ufficiale in cui ritrattava ogni decisione presa: "Il popolo americano dovrebbe ora riconoscere l'assenza di colpevolezza del comandante Mc Vay per la tragica perdita dell'USS Indianapolis e della vita degli uomini che vi perirono in seguito all'affondamento di quell'unità. Nel ruolino di servizio del capitano di vascello Mc Vay è stato inserito il proscioglimento dalla responsabilità della perdita dell'unità e della vita di tanti dei suoi uomini". Un'ammissione ufficiale che, unita alle carenti informazioni che la marina stessa fornì al comandante e alla negligenza di altri membri e ufficiali, riscrisse in modo più giusto la storia di un uomo che si era addossato per parecchi anni colpe che non erano mai state sue. Un rivedimento tardivo ma necessario per un comandante che come gli altri aveva subito sulla sua pelle una terribile tragedia. Oggi esiste un memoriale dedicato alla nave e ai suoi caduti nella città di Indianapolis, il relitto invece non è mai stato ritrovato. Le numerose spedizioni di ricerca non hanno mai dato i frutti sperati. Si ritiene che la carcassa possa essere esplosa per l'incredibile quantitativo di esplosivi che trasportava o del tutto dispersa nelle acque di uno degli oceani più profondi al mondo.

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