Unbreakable, Split e Glass: lo Shyamalan Cinematic Universe

In attesa dell'uscita del suo nuovo film, Glass, riscopriamo insieme i due prequel di M. Night Shyamalan, Unbreakable e Split.

Unbreakable, Split e Glass: lo Shyamalan Cinematic Universe
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Nessun altro cineasta al mondo avrebbe potuto creare una trilogia tanto discontinua quanto calibrata al millimetro se non M. Night Shyamalan: con Glass l'autore fa quadrare i conti di una saga formatasi quasi per caso, sicuramente figlia della recente Era dei Supereroi al cinema (che, in sordina, lui stesso aveva creato nel 2000 insieme al ben più risonante X-Men di Bryan Singer), ma che va a chiudere in maniera incredibilmente coerente un cerchio che, quando venne tratteggiato per la prima volta, doveva essere un semplice punto.
C'è poco da stupirsi con Shyamalan, del resto: lui, uno dei pochi nella storia del cinema che ha avuto l'onore di veder nascere dalle proprie generalità un neologismo tecnico (il così detto Shyamalan twist, usato per descrivere un colpo di scena totalmente disarmante), ha sempre dimostrato un certo gusto perverso per le svolte inaspettate e i cambi di rotta improvvisi, ed era solo questione di tempo prima che il suo bisogno quasi fisiologico per la sorpresa venisse applicato in maniera meta-cinematografica a un discorso più ampio e ambizioso.
Così nel 2016, con Split, il cineasta estremizzò il concetto di plot twist, trascendendo il semplicistico momento di scrittura della sceneggiatura per far sì che cambiasse l'intero film, inteso come produzione.
Vogliamo chiamarlo "production twist"? Termine migliore probabilmente non esiste, dato che per la prima volta nella storia del cinema grazie a Split entravamo nelle sale cinematografiche per vedere un film - pubblicizzato e venduto come thriller/horror psicologico - e ne uscivamo con la consapevolezza di aver visto tutt'altro - un sequel, una origin story, un prequel di un progetto non ancora annunciato. Il film con James McAvoy e Anya Taylor-Joy rileggeva la sua stessa natura retroattivamente, trasformandosi da un momento all'altro - come la Bestia - in qualcosa di completamente diverso da ciò che era all'inizio.
E retroazione è forse la parola chiave per riflettere sulla saga metamorfica di David Dunn, Elijah Price e Kevin Wendell Crumb, nata come dramma esistenzialista, virata all'horror e poi saldatasi sul piano del cinecomic superomistico, ora che la domanda del pubblico è quanto mai rumorosa. Cinema d'industria di una genialità senza precedenti.

Il predestinato

Retroazione, sì, ma anche predestinazione. Di quella dal forte retrogusto pioneristico, che sa un po' di occasione persa mista a malinconia e consapevolezza; la consapevolezza di essere destinati tanto a sofferenze presenti quanto a futura grandezza, come il Van Gogh del recente Sulla Soglia dell'Eternità di Julian Schnabel, infatti, Unbreakable fu rinviato a giudizio dai suoi contemporanei con fare manzoniano.
I tempi, semplicemente, erano sbagliati. Nel 2000 il cinecomic non era ancora un genere a se stante, e qualche uscita di Superman di trent'anni prima e due o tre riletture burtoniane del mito di Batman non bastavano certo a trasformare una suggestione in una corrente cinematografica. Unbreakable voleva ribaltare il modo di pensare a un genere prima che i topoi di quel genere stesso avessero avuto modo di fondersi nella coscienza collettiva. Il concetto di decostruzionismo ha necessariamente bisogno del passaggio del tempo, e va di pari passo con quello della stagionatura: come avrebbero scoperto in seguito anche Watchmen di Zack Snyder e Kick-Ass di Matthew Vaughn, non si può riflettere su uno specifico genere cinematografico - e modificarlo, rileggerlo, innovarlo - se quel genere non ha ancora trovato una sua forma specifica da modificare, rileggere, innovare.
Nel 2000, quando usciva Unbreakable, nelle sale era arrivato soltanto il primo X-Men: i vari Spider-Man di Sam Raimi, l'Hulk di Ang Lee, Gli Incredibili di Brad Bird, I Fantastici Quattro di Tim Story, quei prodotti cioè che avrebbero posto le basi per la codifica del cinecomic inteso come genere, erano film che ancora dovevano essere pensati, immaginati, prodotti.

Wonder Woman non è il primo film di supereroi con una protagonista donna (pensate ad Elektra, a Catwoman, e possiamo tirarci dentro anche I Fantastici Quattro), così come Deadpool non è il primo film di supereroi ad aver alzato il tiro per quanto riguarda sesso, volgarità, violenza (Kick-Ass): però sono di certo i primi cinecomic ad averlo fatto, perché arrivati in un periodo della storia del cinema durante il quale il cine-fumetto era visto come un genere a se stante, al pari del western, del noir, della commedia e così via.
Fosse uscito oggi, Unbreakable, sarebbe stato considerato un capolavoro decostruzionista, in grado di rovesciare tutti i concetti associati al genere cinecomic e vantare una sua assoluta specificità, al pari di un Logan o - dal capo opposto della curva - di un Thor: Ragnarok.
Vera e propria origin story, ma decompressa, l'opera di Shyamalan divenne subito un cult per gli appassionati dei fumetti, ma non ottenne il successo cinematografico (inteso come riconoscimento visionario e avanguardista) che invece avrebbe meritato. Eppure già dal titolo sapeva di essere predestinato a essere rivalutato in retrospettiva.

Il folle

Retroazione, si, ma anche follia. E audacia, soprattutto. Perché bisogna essere tanto folli quanto audaci per concepire un'opera complessa, stratificata, coraggiosa e sorprendente come Split.
Un'opera fatta di sotterranei tortuosi - metafora per i meandri intricati della mente -, di scene magistrali di un'intensità cinematografica da antologia (come quella iniziale nell'auto, dove Shyamalan riesce chissà come a riprendere l'incorporeità di un flusso psicologico fra rapitore e vittima, mettendoli subito in relazione e dicendoci qualcosa di entrambi ma senza dirla davvero) e di riferimenti freudiani (spirali, scale, coltelli). A restare nella mente dello spettatore - oltre alla troppo sottovalutata prova di quell'attore fantastico che è James McAvoy - c'è soprattutto il twist finale, che rovescia completamente il significato del film e la sua stessa natura, piazzandolo in un posto completamente diverso nella filmografia del regista rispetto a quello dal quale era partito inizialmente.
All'epoca, prima di quel cameo di David Dunn (Bruce Willis), quasi ci si stupì che un regista/sceneggiatore tanto rinomato per la chiusa dei suoi film (storicamente, come detto sopra, riconducibile sempre a un clamoroso colpo di scena finale) avesse scelto di concludere una storia così complessa con un finale quanto mai semplice: il cattivo viene sconfitto, la protagonista riesce a salvarsi.

Certo, a ben guardare una rivelazione inaspettata nel corso della vicenda veniva raccontata, vale a dire il passato traumatico dell'apparentemente indifesa Casey (Anya Taylor-Joy). Ma per gli studiosi della filmografia di Shyamalan, e soprattutto per i suoi fan, che di plot twist ne avevano visto così tanti (e di così raffinati), era un po' poco.
Poi, quasi per caso, arriva Bruce Willis: nascosto in una tavola calda, dà l'impressione di essere finito lì per caso, forse di passaggio da un set nelle prossimità di quello di Shyamalan. Con audacia, e in retrospettiva, Split come il suo protagonista rivela una personalità multipla, passando da thriller a sequel di un film uscito sedici anni prima e quasi dimenticato.
Una segretezza di marketing da far invidia a J.J. Abrams e Christopher Nolan messi insieme, una mossa commerciale poderosa, che manifesta la volontà di buttarsi nella mischia del cinecomic e conferire maggior visibilità ad Unbreakable. Retrospettiva, predestinazione, follia. Gli ingredienti dello Shyamalan Twist.

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