Speciale Torino Film Festival 2008

Uno sguardo di sbieco sul Festival di Torino

Speciale Torino Film Festival 2008
Articolo a cura di

Della Vittoria

La vittoria dell'ambito trofeo di Tony Manero non ha stupito nessuno. Il film di Pablo Larrain, già candidato all'Oscar come miglior film straniero, era uno dei vincitori annunciati e dimostra come il gusto della giuria di quest'anno (composta, tra gli altri, da Alba Roarwacher, Jerzy Stuhr e Jonathan Lethem) sia orientato verso il Sud America. Non che il film non meriti, ma all'interno della rassegna si è visto di meglio. Si potrebbe dubitare che il giudizio ideologico sia pesato più di quello estetico. Stiamo parlando di un film velatamente politico nel Cile di Pinochet. Della storia di un Travis Bickle fuori dal tempo capace di uccidere pur di perseguire il suo ideale massimo di alienazione. Certo, alcune trovate sono molto riuscite ma il film, nel suo complesso, non è affatto quanto di meglio visto nei giorni torinesi. Premiare, ad esempio, Die Welle come miglior film - si è dovuto accontentare della miglior sceneggiatura - poteva essere una scelta altrettanto telefonata ma sicuramente più coraggiosa. Die Welle denuncia la paura, denuncia lo spettro dell'ignoranza e della psicosi collettiva, lancia un messaggio forte e preciso con un linguaggio metropolitano e un'estetica ben precisa. Insomma, sarebbe stato un bel messaggio. Così come un bel messaggio è premiare col premio speciale della giuria Sean Baker, il cineasta americano capace, con Prince Of Broadway, di aggiornare il messaggio di Spike Lee virandolo in un'estetica free che vede il suo maestro in John Cassavetes. Tra i film in concorso, avremmo puntato su Die Welle, come già detto, e Prince Of Broadway, senza dimenticare l'irlandese Helen, l'americano Momma's Man e il tedesco Mein Freund Aus Faro.Helen, di Joe Lawyor e Christine Mollowy, rasenta la perfezione estetica. L'eventuale lentezza della narrazione è mitigata da uno stile che paga il giusto dazio a Gus Van Sant ma se ne distacca per tematiche e sviluppo. Il lento ma inarrestabile processo di identificazione tra la ragazza rapita e la sua sosia è il quadro perfetto dell'alienazione contemporanea in una piccola ma benestate città del Regno Unito. Alienazione che è anche il tema portante di Momma's Man, di Azazel Jacobs (figlio del cineasta d'avanguardia Ken Jacobs). La claustrofobia e il senso di nostalgica inadeguatezza avrebbero meritato almeno una menzione. Così come l'avrebbe meritata la leggerezza e la poetica malinconia di Mein Freund Aus Faro, film in cui Nana Neul riesce a rendere una storia alla Boys Don't Cry senza sfociare nella violenza ma concentrandosi sulle dinamiche psicologiche.

Sul fuori concorso

Come spesso accade in rassegne di questo genere, i film migliori sono quelli fuori concorso. Non solo nella sezione definita tale, ma anche in tutte le altre tra documentari, altri film e rassegne storiche. Quest'anno, per dire, si parlerà molto di The Escapist, esordio alla regia di Rupert Wyatt con protagonista un magistrale Brian Cox intento a pianificare l'evasione perfetta in un carcere al nord di Londra. È un film intensissimo e duro, pieno e passionale. Uno dei migliori film di genere dell'anno. Così come funziona la comicità surreale di Real Time di Randall Cole e con un Randy Quaid diviso tra calma ed esplosività. Funziona anche il ritratto malinconico della Londra degli outsider di Somers Town, opera ultima di quell'eccellente esempio di "inglesitudine" che è Shane Meadows. Interessante anche Lake Tahoe, film messicano che costruisce attraverso l'aridità (dei personaggi, dei luoghi e della narrazione) le reazioni successiva ad una tragedia. Farà parlar molto di sé Lat Den Ratte Kamme In (Fammi entrare), film svedese di disagio adolescenziale mischiato ad horror vampiresco distribuito dalla morettiana Sacher. E se di W. abbiamo già parlato, gli Stati Uniti indipendenti alzano la testa con Gigantic e Wendy And Lucy. Il primo, esordio alla regia di Matt Aselton, dimostra come un certo tipo di cinema comico a metà tra il surreale e il dramma ironico può ambire a diventare un'industria di un certo tipo (da segnalare le performance di John Goodman, Zooey Deschanel e dell'alienato Paul Dano, già apprezzato in Little Miss Sunshine). Il secondo, invece, è il nuovo film dell'acclamata film maker Kelly Reichardt - Old Joy - ed è la metafora del passaggio dall'adolescenza all'età adulta attraverso il rapporto di Wendy (Michelle Williams, Dawson's Creek e Brokeback Mountain) e Lucy, il suo cane.Gli eventi chic della rassegna, invece, sono Filth And Wisdom (esordio alla regia di Madonna) e The Edge Of Love (polpettone neoromantico su Dylan Thomas con Kiera Knightley e Siena Miller), ma abbiamo preferito passare la mano senza eccessivi rimpianti.Nella sezione Lo stato delle cose, si fanno notare Hunger, Religulous, The Exiles e Made in America. Il primo, esordio alla regia di Steve McQueen, è un violentissimo film di denuncia sulle condizioni di vita nelle carceri irlandesi. Il secondo, di Larry Charles, è un documentario che vede il comico americano Bill Maher girare il mondo facendo domande sulla religione e sulle assurdità - vere o presunte - dei vari Credo monoteisti (e le degenerazioni come i mormoni, Scentology e i santoni televisivi). Il terzo è un reperto storico, arriva direttamente dal 1961 e racconta la vita dei nativi americani che cercano disperatamente l'integrazione nella Los Angeles di Bunker Hill raccontata da John Fante. L'ultimo, invece, è firmato da Stacy Peralta (Lords Of Dogtown) ed è la convincente testimonianza - pur con qualche patetismo alla Michael Moore di troppo - della guerra tra gang afroamericane (Bloods e Crips) che da anni infesta la città più importante della California.Nota a parte per Parade di Brandon Cahoon, lungometraggio indipendente sull'adolescenza nello Utah che guarda a Gus Van Sant e David Gordon Green pur delineando un'estetica molto personale e cercando una narrazione frastagliata ma non per questo meno efficace.

Della Retrospettiva

Poche righe per girare attorno all'ovvio. Uno dei punti di forza della rassegna torinese è sempre stato il materiale d'archivio per le retrospettive complete e le rassegne storiche. L'anno scorso si è parlato molto della rassegna integrale delle opere di Wim Wenders e John Cassavetes, quest'anno è toccato a Roman Polanski e alla riscoperta di Jean-Pierre Melville, autore francese padrino spirituale della nouvelle vague spesso dimenticato.Interessante anche la rassegna Britsh Renaissance. Sono trenta film distribuiti tra il 1979 e il 1989 che descrivono con uno stile a volte rabbioso, a volte poetico, a volte barocco il sentimento e il fermento culturale generato dalle proteste verso il governo di Margaret Thatcher. Passando i nomi della rassegna troviamo registi come Stephen Frears e Ken Loach, ma anche Derek Jarman, Neil Jordan e Peter Greenaway, Terence Davies e Julien Temple, il socialista Mike Leigh e il realista Bill Forsyth. E tanti altri ancora. Sono storie di loser e punk, di eroi dimenticati e ciarlatani (il protagonista di Withnail & I, i personaggi di Local Hero) e descrivono la condizione della Londra dei sobborghi, degli immigrati, degli omosessuali e dei "diversi" di ogni specie (Britannia Hospital). Un cinema espressamente politico ma capace di esprimersi nelle pieghe del sistema che voleva combattere (The Singing Detective, Pennies From Heaven ma anche Monty Python's The Meaning Of Life).

Della Conclusione

Che dire d'altro? Tra film in concorso e non, documentari e finzione, rassegne e altro materiale di dubbio valore, il Torino Film Festival si è dimostrato all'altezza delle aspettative con una selezione forse migliore rispetto a quella degli ultimi anni. Lo staff di Nanni Moretti ha risposto alle attese di un pubblico meno interessato agli aspetti mondani - come può accadere a Venezia o a Roma - e più cinefilo con una selezione di lavori che attraversano i generi e le nicchie, guardando al più ampio numero di persone possibile senza rinunciare alla qualità. Lamentarsi, come abbiam fatto in apertura, della vittoria di Tony Manero è in realtà un gesto di pura incontentabilità. Oggettivamente, è una cosa giusta. Del resto, qui non abbiamo nemmeno citato il lavoro di Kim Ki-Duk, uno dei film più attesi.

Articolo a cura diHamilton Santià