Tenet di Christopher Nolan: il cortocircuito dell'immagine

Torniamo a parlare di Tenet e delle sontuose abilità di messa in scena sfoggiate da un Christopher Nolan quanto mai divisivo.

Tenet di Christopher Nolan: il cortocircuito dell'immagine
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Nel cinema di Christopher Nolan a volte si innesca un cortocircuito che rischia di infiacchirlo, depotenziandone i valori assoluti. Ci riferiamo a quei momenti di transizione durante i quali le immagini del suo cinema diventano molto più deboli della sua parola scritta, e una volta scremate dal dialogo degli attori restituiscono allo spettatore un grande senso di vuoto.
Forse perché alcune delle sue idee, nel passaggio dalla carta al set, appaiono talmente ambiziose da far risultare impossibile anche per lui il solo gesto di filmarle.
A quel punto per trattenere il pubblico dentro la storia non resta che "costringere" il film a spiegarsi didascalicamente, con personaggi che sembrano sul punto di dover leggere degli opuscoli informativi e affannarsi a sfogliarne le pagine per non perdere il treno, che intanto continua ad andare indifferente.

In Tenet le cose non funzionano in questo modo. Il terzo capitolo di quella che potremmo definire un'ideale saga del tempo, che comprende anche i precedenti Inception e Interstellar, ci mostra un Nolan per certi aspetti completamente nuovo, che come il film va sia in avanti che all'indietro.
In avanti perché, con la sua sceneggiatura dichiaratamente ispirata al franchise di 007 da lui tanto amato, si propone di continuare la sua personale rivoluzione concettuale dei generi cinematografici (in questo caso lo spy-movie). All'indietro perché, nella ricerca di essenzialità, tenta sempre di schivare il prolisso raccogliendo il testimone del lavoro svolto in Dunkirk.

Non cercare di capire, segui il tuo istinto

Con un montaggio efferato Tenet ritaglia a un ritmo forsennato l'avventura dei suoi protagonisti, archetipi-bondiani con licenza di invertire il circuito dell'immagine.
Si muovono nel campo di una messa in scena in grado di aprire un nuovo punto di vista sul mondo, con la capacità di ignorare completamente il superfluo per farsi solo azione, spettacolo e cinema.
L'asciutta essenzialità di Dunkirk è evidente fin da subito: il film non si ferma mai, le nozioni basilari che Nolan deve impartire al suo pubblico sono un sassolino da togliersi dalla scarpa e non più le briciole di pane da seguire per arrivare all'uscita del labirinto.
Quando arrivano lo fanno nel rispetto dei canoni e dei tempi dello spy-movie, senza mai straripare nell'invadenza.
Per fare un esempio, Inception provava a mascherare questa necessità del parlato e dello spiegato molto meglio di Interstellar (film in cui il monologo di Matthew McConaughey una volta entrato in Gargantua serve tantissimo allo spettatore) perché ragionava alla base come un caper movie.
Le canoniche scene dell'impostazione della rapina tipiche di quel genere venivano sostituite con dialoghi concepiti al solo scopo di spiegare a chi guarda il funzionamento del mondo in cui è ambientata l'opera.
A differenza di Inception, Tenet non ha ambizioni allegoriche né tantomeno sembra interessato a spiegarsi di continuo.

Il mondo di "gioco" di Nolan si costruisce davanti allo spettatore usando prevalentemente le immagini, con indizi specifici (come i respiratori, o i movimenti dei corpi, la catenella rossa) che già fanno intuire all'occhio più attento che parte di ciò che accade sullo schermo procede nel senso "sbagliato".
Solo una volta giunto a uno dei suoi pochi momenti di pausa il film ci farà sapere che quelle mascherine per l'ossigeno hanno uno scopo ben preciso, ma lo spettatore si è già abituato a vederle ovunque e unire i vari punti a quel punto spetta a lui.
Non è che gli spiegoni non ci siano, beninteso, ma sicuramente non viene allestita intorno a essi quella carica drammatica che in Inception e in Interstellar finiva col dare loro una grande rilevanza.
Qui invece Nolan sfrutta lo stesso meccanismo basato sui punti di vista della messa in scena sviluppato in Dunkirk.

Un nuovo Nolan?

Potrebbe essere arrivata l'alba di un nuovo Christopher Nolan, uno che dopo essere stato spesso definito un regista freddo decida di abbracciare definitivamente il lato impersonale del suo modo di concepire l'arte per ritagliarsi ancora maggiore libertà.
In questo senso la scelta di derubare il pubblico di una contropartita emotiva è ben evidente nella decisione di depersonalizzare tutti i protagonisti, che o non hanno un nome (John David Washington è Il Protagonista) o non hanno un background (o se lo hanno è puro archetipo).

Non c'è più il dramma di un marito dal cuore infranto per il suicidio della moglie che lui stesso ha fatto impazzire, né quello di un padre costretto ad abbandonare sua figlia per esplorare l'universo alla ricerca di una nuova casa per lei e tutta l'umanità, ma solo soldati anonimi persi nella loro guerra, esattamente come accadeva in Dunkirk.
Ed entrambe le guerre, per quanto diverse, sono quelle di Nolan: forse, addirittura, sia Inception che Interstellar andrebbero rivalutati alla luce di Dunkirk e Tenet, visto il sempre più aleatorio ruolo che l'autore sta riservando agli script in una sorta di atto di onestà intellettuale in divenire.
È una scelta curiosa, che legittimamente dividerà chi ama una buona storia da chi vuole godersi le belle immagini, e che forse costringerà lo stile nolaniano a rimanere per sempre incompiuto, ma è senza dubbio anche una scelta forte, un taglio netto.

Di certo Tenet è la dimostrazione che il talento visivo di Nolan può fare a meno di quello narrativo: come Dunkirk riusciva a far sembrare originali e mai viste prima le scene di guerra su larga scala, così questo James Bond in salsa sci-fi è in grado di inventare dinamiche visive e concetti di messa in scena, basate solo sul rewind ma che allo stesso tempo non hanno eguali o termini di paragone nella storia del cinema.
Se alcune idee di Inception e Interstellar risalivano fra gli altri a Matrix e a 2001: Odissea nello Spazio, i combattimenti di Tenet non sono quelli che già conosciamo perché non lo sembrano mai, gli inseguimenti in auto non rievocano lontani parenti né sono in debito con sequenze già viste altrove, la complessa sequenza finale è e rimarrà per sempre un unicum.
Bastano gli sguardi di John David Washington, il sorriso da deuteragonista di Robert Pattinson e quella cordicella rossa per dire tutto ciò che c'è da dire sulla loro amicizia, così come il primo piano sul Protagonista al momento dell'ingresso nel mondo invertito basta a riassumere il grado di stupore che il film vuole raggiungere.
Fa venire in mente quello che deve aver conquistato i volti degli spettatori de L'uscita dalle officine Lumière, il primo film mai proiettato a un pubblico, quando l'occhio umano vide qualcosa che davvero non era mai apparso prima.

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