Taxi Driver: il monologo allo specchio di Robert De Niro

Riscopriamo l'iconica scena del monologo con protagonista Robert De Niro/Travis Bickle in Taxi Driver, film cult del 1976.

Taxi Driver: il monologo allo specchio di Robert De Niro
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L'iconico film di Martin Scorsese del 1976, Taxi Driver, ha rielaborato in maniera profonda ed efficace il noir metropolitano, ammantandolo di una forte componente psicologica capace di rendere l'opera una pellicola intramontabile della storia del cinema.
Complici anche i numerosi e stratificati temi di carattere sociologico trattati, così come la performance di Robert De Niro, Taxi Driver risulta, ancora oggi, come uno dei massimi esponenti del genere, in grado di segnare un prima e un dopo la sua uscita.
La stessa profonda caratterizzazione del personaggio principale ha inevitabilmente costretto tutti gli artisti successivi (registi, attori e creativi in generale) a cimentarsi con la figura dell'outsider, incarnato perfettamente da Robert De Niro.
Prima di analizzare l'iconica sequenza dello specchio, proveremo dunque a fare una panoramica generale dello sfaccettato protagonista.

Un tassista come tanti

Robert De Niro interpreta Travis Bickle, un giovane uomo letteralmente distrutto dal suo passato: il protagonista è infatti un reduce del Vietnam.
L'opera, oltre ai numerosi temi presenti tra cui l'alienazione dell'uomo moderno e la mancanza di fiducia e speranza verso la collettività, pone anche il focus sul disturbo post traumatico, che in Travis prende via via sempre più forma avanzando nel film.
Il tassista si ritrova a viaggiare di notte per le strade di New York - così da provare a lenire la sua insonnia cronica - per tentare di trovare posto in un mondo che però sembra aver finito lo spazio.
Per quanto il ritmo del film sia impostato in crescendo e la discesa nell'abisso più nero diventi sempre più profonda con l'avanzare dei minuti, per tutta la storia lo spettatore è in grado di comprendere di avere a che fare con un personaggio profondamente tormentato e a tratti instabile.
Travis, infatti, proprio per tutta una serie di disturbi comportamentali e psicologici che lo attanagliano, è continuamente in cerca di qualcosa, come testimoniato dalla sequenza in cui parla con un suo collega, in un dialogo che non sembra trovare alcuno sbocco concreto.
Il protagonista ha bisogno, in qualche modo, di sfogare tutta la sua ira repressa attraverso la violenza, una violenza viscerale che lui stesso non riesce però più a capire se sia giusta o sbagliata, quasi come a voler compiere delle azioni, anche insensate, per il semplice gusto di farlo.

Ci ritroviamo così davanti a un personaggio principale ossessionato dal suo stesso modo di pensare, incapace di comunicare, immerso in una città buia e oscura dai contorni quasi metafisici.
La New York del film ci appare quindi a tratti deformata, spappolata e rigenerata attraverso una visione che ammette solo il marcio, lo sporco, il male, il buio.
Ed è proprio da questo ambiente che Travis attinge le sue forze maggiori, provando in alcuni casi a reintegrarsi nella società (trovandosi appunto un lavoro o cercando di instaurare una relazione sentimentale con Betsy) senza però riuscirci.
Quando il mondo attorno a lui crolla, il tassista è costretto ad agire di conseguenza, dando sfogo a tutte le sue paranoie e trovando un capro espiatorio nel senatore Charles Palantine.
In sostanza, l'esplosione di violenza finale che vediamo nella pellicola non è nient'altro che una diretta conseguenza di tutto ciò che è successo prima, lasciando lo spettatore interdetto anche a livello empatico dato che sarà sempre più difficile - se non impossibile - provare a comprendere davvero la psiche morbosa e a tratti schizofrenica del protagonista.

La ricerca di un compito da svolgere, di una missione da eseguire come di un ordine da portare a termine (seppur autoimposto) diviene così per Travis la sua unica ragione di vita, l'unica cosa che lo porta ad andare avanti e a pensare di rimettersi in forma per risultare agile e scattante nei momenti maggiormente problematici.
Di grande impatto la scena in cui osserviamo il protagonista allenarsi nel tentativo di prepararsi a un evento inaspettato, non importa però davvero quale.

Ma dici a me?

Seppur nella sua brevità, la sequenza in cui vediamo Travis parlare da solo davanti allo specchio è entrata di diritto nella storia del cinema, non solo per la performance attoriale in sé ma per la sua stessa capacità di racchiudere l'anima del personaggio.
Innumerevoli le reintepretazioni o le semplici citazioni alla scena, basti pensare ad esempio a quella del 1995 vista ne L'Odio, con Vincent Cassell/Vinz intento a citare addirittura stralci delle stesse battute.
La scena ci mostra così un uomo come tanti, un tassista, che dialoga allo specchio simulando però un'aggressione, estraendo all'improvviso, di tanto in tanto, una pistola nascosta nella manica rivolgendosi a un avversario immaginario.
Di fronte a noi viene così descritta la follia insita nel protagonista e più in generale forse nell'intero genere umano, in cui la violenza non può che generare solo e soltanto altra violenza, seppur proprio questo modus operandi sia in realtà salvifico per lo stesso personaggio principale.
Nel momento del monologo vediamo così Travis realmente intenzionato a fare del male a qualcuno, ebbro di potere e della voglia di esercitarlo sugli altri.
Lo spettatore si ritrova in questo modo davanti a una mina impazzita, in una scena dall'enorme pathos emotivo anche per il senso di ansia che trasmette, per via del cortocircuito tra il silenzio assoluto che avvolge tutto quanto in contrasto con le gesta convulse e a tratti disperate del protagonista.

La lotta infinita contro un nemico immaginario, contro una minaccia insondabile e invisibile accennata fin dall'inizio trova proprio nella scena dello specchio il culmine, in cui il tassista osserva la sua immagine riflessa identificandola, forse inconsciamente, come il vero nemico da sconfiggere.
Ed è proprio questa voglia di agire, di sentirsi di nuovo vivo, che porta Travis ad addentrarsi nelle strade più buie dell'animo umano con una consapevolezza a cavallo tra la premeditazione maniacale e il puro istinto animale.

Travis assume così i connotati di una semplice persona problematica, poi di un vero e proprio maniaco omicida e poi ancora di un giustiziere della notte che decide (almeno secondo lui) di lottare per salvare qualcun altro - o forse solo se stesso.
Eppure le varie fasi che il protagonista vive non sono in realtà da considerare come distinte ma come un vero e proprio concentrato della sua intera personalità, capace di mutare, cambiare, evolversi o involversi a seconda delle situazioni.
Gli infiniti giri notturni in taxi effettuati per provare a trovare sollievo verso un disagio esistenziale, in realtà senza soluzione, vengono semplicemente sostituiti dalle armi e dal modo in cui esse possono essere utilizzate, senza però mai andare a risolvere i traumi di cui è affetto il protagonista.
Martin Scorsese ci regala così un personaggio sfaccettato ma, soprattutto, costantemente in fuga: dalla vita, dai problemi, da qualsiasi cosa.
Questa discesa verso il baratro, verso la follia umana più pura e sconvolgente, viene in realtà ribaltata a livello percettivo proprio grazie alla bravura del regista, che con un finale magistrale riesce a rendere la parabola del protagonista ancora più inquietante e, se vogliamo, tragica.

Nonostante infatti per l'intera pellicola ci venga sbattuta violentemente in faccia la vita di un individuo borderline, pronto a esplodere da un momento all'altro e, addirittura, a uccidere in preda a raptus omicidi, proprio nel momento conclusivo lo spettatore si ritrova davanti a un ribaltamento di fronte, una sorta di nuova genesi dello stesso Travis.
Ci resta però il dubbio su cosa sia successo nella sua psiche, ammantando l'intero film di una vera e propria aura di ciclità a tratti davvero inquietante.

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