Spider-Man No Way Home, Andrew Garfield: un Peter Parker incompreso

Torniamo a parlare dell'interpretazione dell'attore nei film di Spider-Man di Marc Webb, ancora oggi i più divisivi e meno apprezzati dal grande pubblico.

Spider-Man No Way Home, Andrew Garfield: un Peter Parker incompreso
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I rumor continuano a rincorrersi senza sosta, ormai a un mese dal lancio cinematografico di Spider-Man: No Way Home di Jon Watts, mentre tutti noi restiamo in attesa di un final trailer ufficiale che delinei più chiaramente la maglia narrativa del cinecomic (nel frattempo godetevi il primo trailer di Spider-Man No Way Home). Il poster diffuso da Sony ha già tolto ogni dubbio residuo sulla presenza del Green Goblin in No Way Home, alimentando invece più di una perplessità sul chiacchierato ritorno del Lizard di Rhys Ifans, praticamente assente da ogni contenuto marketing. A mancare, purtroppo, sono ancora le conferme sull'eventuale ritorno degli Spider-Man di Tobey Maguire e Andrew Garfield, rispettivamente primo Peter Parker della storia del cinema e secondo - e al momento più divisivo - Spidey del medium.

Le nuove foto leak di Spider-Man No Way Home mostrerebbero comunque la loro insindacabile partecipazione al progetto, troppo articolate per un deepfake, con il volto stempiato e invecchiato di Maguire in primo piano, i costumi modificati, la scenografia identica a quella delle prime immagini rubate durante le riprese del film. Dovrebbe insomma essere solo questione di tempo prima che Sony e Marvel Studios svelino finalmente in via ufficiale la formazione on-screen del Trittico di Amichevoli Spider-Man del Multiverso; attesa che ci permette oggi di tornare a parlare del Peter Parker di Andrew Garfield, analizzandone presenza scenica, interpretazione e credibilità.

Uno Spidey più teen e innamorato

Il refrain morale di uno dei personaggi marvelliani per eccellenza è "da grandi poteri derivano grandi responsabilità". Il principio è adeguabile a ogni contesto socio-lavorativo possibile, ovviamente anche quello registico e attoriale; gli stessi due ambiti in cui tanto Marc Webb quanto Garfield non hanno purtroppo compreso a fondo le proprie responsabilità rispetto al potere concessogli.

Al naufragare cinematografico del mai realizzato Spider-Man 4 di Sam Raimi, Sony decise infatti di rebootare il personaggio sul grande schermo dopo nemmeno tre anni dall'uscita di Spider-Man 3 nelle sale. Al tempo lo studio era già in crisi creativa e commerciale - quella poi svelata dal Sony Gate - e voleva sfruttare il più possibile uno dei suoi protagonisti di punta. Non solo: assistendo attoniti al successo economico della saga di Twilight, all'epoca ormai vicina alla conclusione, i dirigenti della compagnia optarono per un rilancio che ricalcasse in qualche modo quello standard comunicativo dall'anima marcatamente più teenager e con un tessuto narrativo sviluppato attorno a una storia d'amore sofferta tra ragazzi. Anche per cambiare titolo e dare l'effettiva sensazione di una trasformazione concettuale rispetto alla saga di Raimi, si scelse di adattare la serie Amazing Spider-Man, per altro pensata anche fumettisticamente per essere un rilancio di spirito e tono diverso rispetto al passato, a partire dalla fisicità del protagonista, un Peter Parker più snello e attraente. In questo senso - bisogna ammetterlo - Sony rispettò pedissequamente le line guida della serie, scegliendo uno degli attori più lanciati e in vista di quegli anni, Andrew Garfield, fresco dei recenti successi di Non lasciarmi e The Social Network.

Il volto giusto e il physique-du-role adeguati al lavoro, dunque, che però in concreto andarono a scontrarsi con una gestione del nuovo adattamento davvero poco brillante, priva di autorialità (e dopo Sam Raimi era essenziale), di mordente e di sano ingegno creativo, dialogico, action. La colpa principale di questa superficialità, di una cura poco convincente del cinecomic, è imputabile a Webb, decisamente più a suo agio nella gabbia della commedia romantica rispetto a un cinema mainstream a tutto tondo, un blockbuster con troppa gente a cui rendere conto. Ma anche lo sceneggiatore principale, James Vanderbilt, ha gran parte dei demeriti (e la sua filmografia parla davvero per sé).

Di fatto, su schermo, non assistevamo al ritorno in grande spolvero di Spider-Man ma a una sorta di ricondizionamento di genere in formato supereroistico di Twilight, con la parte teen del protagonista messa in primo piano in modo sbagliato, cioè stereotipata, fin troppo distante dal cuore realmente geek di Peter Parker, e decisamente didascalica e mielosa in termini relazionali, nella storia con Gwen Stacy (Emma Stone).

In un contesto concettualmente giusto ma nato cinematograficamente sbagliato, frettoloso e destinato al solo guadagno e non alla qualità, un Garfield ancora ragazzo e ingenuo (come si è poi descritto lo stesso attore) fece tutto il possibile per interpretare al meglio un personaggio snaturato in partenza, mettendoci la giusta presenza scenica e la quantità necessaria del suo talento drammatico affinché il nuovo Peter fosse credibile.

Ci riuscì solo in parte a causa della sceneggiatura e di una direzione stilistica spesso poco convincente, incapace di valorizzare realmente fisicità e stoffa di Garfield. È lo stesso attore ad aver descritto il set di The Amazing Spider-Man come una prigione dorata e l'esperienza stessa "sconvolgente e dolorosa", parlandone come "di un e vero e proprio risveglio dal successo", motivo per cui dal 2014 a oggi ha puntualmente evitato di recitare in qualsivoglia blockbuster o cinecomic di sorta.
Un eroe, il suo, che più che incompreso appare bisognoso di riscatto perché mal gestito e trasposto. Nel trittico dei Peter, quello di Garfield è ancora oggi il meno rispettato e amato rispetto a Maguire e Tom Holland, e il suo ritorno in No Way Home, distante del suo contesto d'appartenenza, potrebbe essere l'occasione buona per rendere giustizia al personaggio, così da riuscire a dargli quella dimensione recitativa che non era riuscito a raggiungere dieci anni fa.

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