Ron Howard si racconta tra cinema e TV: il nostro incontro con il regista
Il regista di Rush ha incontrato il pubblico alla Festa del Cinema di Roma 2019, parlando di passione e collaborazione, di cinema, televisione e coraggio.
Era il Richard Cunningham della mitica Happy Days, Ron Howard, serie che come ha spiegato lui stesso "ha spopolato in Italia prima ancora che nel resto del mondo". Prima ancora, indietro di un decennio fino agli anni '60, è stato anche l'Opie Taylor del The Andy Griffith Show, suo primo e storico lavoro nel mondo della televisione e quindi della recitazione, che ricorda ancora con affetto e nostalgia. Nato attore e divenuto regista in un processo del tutto naturale, Howard è in questi giorni nella capitale per presentare nella cornice della 14° Edizione della Festa del Cinema di Roma il suo Pavarotti, documentario dedicato alla grande figura del tenore italiano, considerato il migliore di tutti i tempi.
Si tratta del suo terzo sconfinamento in territorio documentaristico e a quanto pare non l'ultimo, volendo imitare il compianto Jonathan Demme nel passaggio costante e sostenuto tra scripted cinema e forma documentaria. La sua passione, il suo interesse e una profonda ammirazione per Pavarotti sono talmente forti, comunque, da riuscire a inserire un rimando al leggendario tenore quasi in ogni sua risposta, con riallacci tematici mai superficiali, parlando ad esempio di John Wayne, di un meraviglioso aneddoto su Bette Davis ma anche di giornalismo, coraggio, paura. E tutto questo rivivendo insieme al pubblico della Festa gli inizi della sua carriera, tra grande e piccolo schermo, l'esplosione del suo talento e tutti gli insegnamenti ricevuti nel corso di cinquant'anni di vita trascorsi davanti e dietro la macchina da presa.
Tra artisti e cowboy
Un vero tuffo all'intero della filmografia di Ron Howard, l'incontro mediato da Antonio Monda e Alberto Sesti, cominciato con una clip di American Graffiti di George Lucas, cult del cinema americano prodotto da Francis Ford Coppola e ampiamente ispirato ai Vitelloni, parlando di pigri ragazzi di provincia con piccole o grandi aspirazioni, disillusi o impegnati. "Ho scoperto molto tardi l'ispirazione proveniente dai Vitelloni", spiega Howard: "Quel film, per me, è stata un'esperienza culturalmente stimolante, comunque. Sono cresciuto all'interno del vecchio studio system hollywoodiano, dove le crew erano tendenzialmente composte da maschi bianchi e di una certa età che parlavano come redneck o cowboy, invece per girare American Graffiti mi spostai a nord, dove trovai gente appassionata, giovane e colta che aveva una considerazione sinceramente artistica del cinema. Fu uno sconcertante risveglio per la mia voglia di intraprendere la strada della regia, un approccio rivoluzionario". Come già spiegato e noto, la carriera di Howard iniziò in tenera età, per l'esattezza a sei anni, nei telefilm degli anni '60 e '70.
Da quelle esperienze rivela di aver imparato moltissimo, sia in senso umano che soprattutto professionale, come ad esempio il grande valore e l'importanza del gioco di squadra, della collaborazione. "Al tempo cinema e televisione erano mezzi ben distinti", dice il regista: "La tv era più lineare e facile, pur basandosi comunque su un processo creativo. Da giovane, nell'Andy Griffith Show, io e altri attori venivamo esortati a commentare gli script degli episodi, a dare consigli, a cerca di risolvere insieme dei problemi. Il gioco di squadra era importante".
A tal proposito, Howard racconta un simpatico episodio: "A sette anni volevo dare consigli ma non venivo ascoltato più di tanto. Un giorno però, durante una scena in cui dovevo semplicemente entrare in scena e recitare un piccola battuta, alzati timidamente la mano e dissi al regista che a mio avviso un bambino di sette anni non avrebbe mai detto qualcosa di simile. Mi chiese come l'avrei fatta io e gli risposi e il regista mi disse che andava bene, che potevo farla come avevo suggerito.
Mi sentii per la prima volta parte di qualcosa e sorrisi emozionato e felice, tanto che sul set, quel giorno, c'era Andy Griffith che guardandomi sorridere mi chiese 'ehi ragazzo, cos'hai da ridere?'. Gli dissi che ero contento del fatto che finalmente mi avessero ascoltato e lui, con quel suo profondo accento del sud, rispose 'beh perché è stata la prima volta che hai consigliato qualcosa di sensato'. Questa ironia, questa collaborazione, il sapersi divertire hanno molto influenzato il mio modo di lavorare".
Il valore dell'informazione
"I documentari mi hanno sempre intimorito e affascinato", rivela l'autore: "Forse perché quando ero più piccolo pensavo di diventare giornalista, semmai avessi fallito come regista". Più o meno a metà della sua carriera, comunque, grazie a una divertente e brillante sceneggiatura scritta a quattro mani da David Koepp e dal fratello all'epoca giornalista a Time Magazine, Howard esplorò sempre attraverso il suo stile ironico, unico e intelligente il tema del giornalismo in Cronisti d'Assalto, uno dei suoi film minori e (forse ingiustamente) meno ricordati. Protagonista della pellicola erano Michael Keaton e una fantastica Glenn Close "in un ruolo", rivela Howard, "inizialmente pensato per essere un uomo": "Lo abbiamo poi modificato e adattato a Glenn, che è un'attrice sempre in forma e straordinaria, tanto che alla fine abbiamo tenuto anche la scena della scazzottata con il personaggio di Keaton. Ricordo ancora che, durante le riprese, Michael si avvicinò e mi disse 'dite a Glenn di andarci piano, perché mi sta facendo il culo a strisce'. Fantastico".
Uscendo per un momento dall'ambito cinematografico, poi, il regista ha voluto dare una sua personale lettura del ruolo del giornalista nella società contemporanea: "Non parlo da esperto anche se ovviamente lavoro nel campo mediatico, benché in un ramo differente, ma voglio esprimermi in quanto cittadino quando dico che quello del giornalista è oggi un ruolo più complesso e al contempo importante di altri.
In un mondo sempre più diviso è essenziale assicurare trasparenza e opportunità, ma di questi tempi si creano molti gruppi a sé stanti ed è davvero difficile prendere in esame opinioni fuori da questa cerchia. I giornalisti, oggi, dovrebbero avere il coraggio di superare queste polarizzazioni e il vero giornalismo è più importante che mai a causa di questa differenza tra informazione e opinione".
E come dicevamo, riesce a riallacciarsi a Pavarotti: "Di lui apprezzai particolarmente quando decise di collaborare con grandi pop-star o esponenti della musica leggera, ma molta stampa specializzata lo criticò aspramente e quelle critiche gli fecero male. Sì, si comportava come se non lo toccassero, ma non era così. Lui andò avanti comunque in quello che riteneva più giusto, e cioè nel creare ponti con le persone e con gli artisti, ad espandere l'opera a livello culturale. Scelse un percorso difficile ma molto coraggioso e credo che sia lo stesso per i giornalisti di oggi. Hanno due possibilità: continuare a rivolgersi a chi la pensa e la penserà sempre come loro o provare a creare dei ponti politici, culturali, sociali e mettere fine alle divisioni. Tutto si basa su collaborazione, valore delle informazioni e sul costruire delle connessioni".
"Ron, non Mr. Howard!"
Nel percorso tra le varie clip della sua filmografia, quella che ha visibilmente più emozionato Ron Howard (ma anche il pubblico) è stata quella di A Beautiful Mind, il discorso finale di John Nash (Russell Crowe) durante la cerimonia per il Premio Nobel. Racconta Howard sul film che gli è valso due Oscar, come Miglior Film e Miglior Regia: "Anche se il mio partner di produzione, Jonathan Grazer, stava già lavorando al progetto, io entrai sia come produttore che regista per ragioni familiari, prima di tutto, per esplorare e stigmatizzare attraverso il cinema la malattia mentale. Potevamo farlo in modo ironico, esasperatamente tragico o raccontando la vita di John Nash, valorizzata in senso cinematografico grazie alla fantastica penna di Akiva Goldsman, che partì da un articolo di giornale e intervistò anche diversi psichiatri. Uno degli obiettivi principali del film era quello di voler far sentire la gente come quell'uomo, come quelle povere creature che si intravedono su ciglio della strada a parlare da sole, persone tormentate che non vedono il mondo come lo vediamo noi. La ragione fu insomma molto semplice: utilizzare il medium per combattere la malattia mentale e permettere alla gente di percepirla e viverla in modo differente".
Cambiando radicalmente argomento, alla fine si lascia andare in un caloroso e divertito ricordo di due grandi star come John Wayne e Bette Davis. Con il primo recitò nel suo ultimo film prima della morte, Il Pistolero, e di lui dice: "Non era una persona facile con cui lavorare e la gente era intimorita dalla sua figura, ma il nostro fu un rapporto fantastico. Mi viene in mente un momento sul set del film in cui gli chiesi di provare le battute di una scena, che all'epoca era qualcosa che si faceva soltanto in televisione, e lui ne fu deliziato. Notai che riusciva a trovare un ritmo tutto suo, la cosiddetta Pausa alla John Wayne. Al tempo lottava già per la sua salute e veniva da pensare che si dimenticasse la battute, ma non era così. Dava potenza, forza e carisma alle sue frasi, ai suoi momenti. Una cosa che ritrovai, ad esempio anche in Bette Davis: l'etica professionale".
E sulla Davis si dilunga affettuosamente nel raccontare il divismo, la serietà e la simpatia della star all'epoca settantenne e che lui diresse in uno dei suoi primi lavori da regista, quando aveva appena 24 anni. Racconta nostalgico e divertito Howard: "Io ero produttore e regista di questo piccolo progetto e lei voleva recitare questo ruolo. Aveva ormai 74 o 75 anni. A lei dava estremamente fastidio il fatto che un ragazzino come me potesse dare ordini a una diva come lei. Prima delle riprese non ci siamo mai incontrati e abbiamo sempre parlato per telefono e una volta, a pochi giorni dall'inizio della produzione, ricordo che discutemmo su di una scena in particolare. Lei mi chiamava sempre Mr. Howard e solo in quell'occasione le dissi di chiamarmi anche solo Ron, e lei rispose 'La chiamerà Mr. Howard finché non avrò capito se lei mi piace oppure no'".
Conclude infine l'aneddoto: "Sapevo che uno dei suoi registi preferiti indossava sempre un abito sul set, e così decisi di farlo anche io per il primo giorno di riprese. Giravamo in Texas, alle 8,00 di mattina c'era un caldo infernale ma lo feci comunque. Appena mi avvicinai a lei ebbe una reazione spropositata e disse ad alta voce per farsi sentire che l'avevo spaventata perché non capiva cosa volesse un bambino da lei. Inghiotti e andai avanti a forza di pillole per lo stomaco [scherza]. Fu una giornata abbastanza tesa, devo dire, ma a un certo punto la fermai durante le riprese per chiederle di sistemare una scena, consigliarle come farla. Mi disse che secondo lei non andava bene ma la fece comunque e quando capii che avevo ragione lo disse immediatamente, annuendo e appoggiando la mia visione. A fine giornata la ringraziai e lei mi disse 'ok, Ron', dandomi addirittura una pacca sul sedere". Anche questo, in fondo, un modo di creare ponti e connessioni.
Ron Howard si racconta tra cinema e TV: il nostro incontro con il regista
Il regista di Rush ha incontrato il pubblico alla Festa del Cinema di Roma 2019, parlando di passione e collaborazione, di cinema, televisione e coraggio.
Era il Richard Cunningham della mitica Happy Days, Ron Howard, serie che come ha spiegato lui stesso "ha spopolato in Italia prima ancora che nel resto del mondo". Prima ancora, indietro di un decennio fino agli anni '60, è stato anche l'Opie Taylor del The Andy Griffith Show, suo primo e storico lavoro nel mondo della televisione e quindi della recitazione, che ricorda ancora con affetto e nostalgia.
Nato attore e divenuto regista in un processo del tutto naturale, Howard è in questi giorni nella capitale per presentare nella cornice della 14° Edizione della Festa del Cinema di Roma il suo Pavarotti, documentario dedicato alla grande figura del tenore italiano, considerato il migliore di tutti i tempi.
Si tratta del suo terzo sconfinamento in territorio documentaristico e a quanto pare non l'ultimo, volendo imitare il compianto Jonathan Demme nel passaggio costante e sostenuto tra scripted cinema e forma documentaria. La sua passione, il suo interesse e una profonda ammirazione per Pavarotti sono talmente forti, comunque, da riuscire a inserire un rimando al leggendario tenore quasi in ogni sua risposta, con riallacci tematici mai superficiali, parlando ad esempio di John Wayne, di un meraviglioso aneddoto su Bette Davis ma anche di giornalismo, coraggio, paura.
E tutto questo rivivendo insieme al pubblico della Festa gli inizi della sua carriera, tra grande e piccolo schermo, l'esplosione del suo talento e tutti gli insegnamenti ricevuti nel corso di cinquant'anni di vita trascorsi davanti e dietro la macchina da presa.
Tra artisti e cowboy
Un vero tuffo all'intero della filmografia di Ron Howard, l'incontro mediato da Antonio Monda e Alberto Sesti, cominciato con una clip di American Graffiti di George Lucas, cult del cinema americano prodotto da Francis Ford Coppola e ampiamente ispirato ai Vitelloni, parlando di pigri ragazzi di provincia con piccole o grandi aspirazioni, disillusi o impegnati. "Ho scoperto molto tardi l'ispirazione proveniente dai Vitelloni", spiega Howard: "Quel film, per me, è stata un'esperienza culturalmente stimolante, comunque. Sono cresciuto all'interno del vecchio studio system hollywoodiano, dove le crew erano tendenzialmente composte da maschi bianchi e di una certa età che parlavano come redneck o cowboy, invece per girare American Graffiti mi spostai a nord, dove trovai gente appassionata, giovane e colta che aveva una considerazione sinceramente artistica del cinema. Fu uno sconcertante risveglio per la mia voglia di intraprendere la strada della regia, un approccio rivoluzionario".
Come già spiegato e noto, la carriera di Howard iniziò in tenera età, per l'esattezza a sei anni, nei telefilm degli anni '60 e '70.
Da quelle esperienze rivela di aver imparato moltissimo, sia in senso umano che soprattutto professionale, come ad esempio il grande valore e l'importanza del gioco di squadra, della collaborazione. "Al tempo cinema e televisione erano mezzi ben distinti", dice il regista: "La tv era più lineare e facile, pur basandosi comunque su un processo creativo. Da giovane, nell'Andy Griffith Show, io e altri attori venivamo esortati a commentare gli script degli episodi, a dare consigli, a cerca di risolvere insieme dei problemi. Il gioco di squadra era importante".
A tal proposito, Howard racconta un simpatico episodio: "A sette anni volevo dare consigli ma non venivo ascoltato più di tanto. Un giorno però, durante una scena in cui dovevo semplicemente entrare in scena e recitare un piccola battuta, alzati timidamente la mano e dissi al regista che a mio avviso un bambino di sette anni non avrebbe mai detto qualcosa di simile. Mi chiese come l'avrei fatta io e gli risposi e il regista mi disse che andava bene, che potevo farla come avevo suggerito.
Mi sentii per la prima volta parte di qualcosa e sorrisi emozionato e felice, tanto che sul set, quel giorno, c'era Andy Griffith che guardandomi sorridere mi chiese 'ehi ragazzo, cos'hai da ridere?'. Gli dissi che ero contento del fatto che finalmente mi avessero ascoltato e lui, con quel suo profondo accento del sud, rispose 'beh perché è stata la prima volta che hai consigliato qualcosa di sensato'. Questa ironia, questa collaborazione, il sapersi divertire hanno molto influenzato il mio modo di lavorare".
Il valore dell'informazione
"I documentari mi hanno sempre intimorito e affascinato", rivela l'autore: "Forse perché quando ero più piccolo pensavo di diventare giornalista, semmai avessi fallito come regista". Più o meno a metà della sua carriera, comunque, grazie a una divertente e brillante sceneggiatura scritta a quattro mani da David Koepp e dal fratello all'epoca giornalista a Time Magazine, Howard esplorò sempre attraverso il suo stile ironico, unico e intelligente il tema del giornalismo in Cronisti d'Assalto, uno dei suoi film minori e (forse ingiustamente) meno ricordati. Protagonista della pellicola erano Michael Keaton e una fantastica Glenn Close "in un ruolo", rivela Howard, "inizialmente pensato per essere un uomo": "Lo abbiamo poi modificato e adattato a Glenn, che è un'attrice sempre in forma e straordinaria, tanto che alla fine abbiamo tenuto anche la scena della scazzottata con il personaggio di Keaton. Ricordo ancora che, durante le riprese, Michael si avvicinò e mi disse 'dite a Glenn di andarci piano, perché mi sta facendo il culo a strisce'. Fantastico".
Uscendo per un momento dall'ambito cinematografico, poi, il regista ha voluto dare una sua personale lettura del ruolo del giornalista nella società contemporanea: "Non parlo da esperto anche se ovviamente lavoro nel campo mediatico, benché in un ramo differente, ma voglio esprimermi in quanto cittadino quando dico che quello del giornalista è oggi un ruolo più complesso e al contempo importante di altri.
In un mondo sempre più diviso è essenziale assicurare trasparenza e opportunità, ma di questi tempi si creano molti gruppi a sé stanti ed è davvero difficile prendere in esame opinioni fuori da questa cerchia. I giornalisti, oggi, dovrebbero avere il coraggio di superare queste polarizzazioni e il vero giornalismo è più importante che mai a causa di questa differenza tra informazione e opinione".
E come dicevamo, riesce a riallacciarsi a Pavarotti: "Di lui apprezzai particolarmente quando decise di collaborare con grandi pop-star o esponenti della musica leggera, ma molta stampa specializzata lo criticò aspramente e quelle critiche gli fecero male. Sì, si comportava come se non lo toccassero, ma non era così. Lui andò avanti comunque in quello che riteneva più giusto, e cioè nel creare ponti con le persone e con gli artisti, ad espandere l'opera a livello culturale.
Scelse un percorso difficile ma molto coraggioso e credo che sia lo stesso per i giornalisti di oggi. Hanno due possibilità: continuare a rivolgersi a chi la pensa e la penserà sempre come loro o provare a creare dei ponti politici, culturali, sociali e mettere fine alle divisioni. Tutto si basa su collaborazione, valore delle informazioni e sul costruire delle connessioni".
"Ron, non Mr. Howard!"
Nel percorso tra le varie clip della sua filmografia, quella che ha visibilmente più emozionato Ron Howard (ma anche il pubblico) è stata quella di A Beautiful Mind, il discorso finale di John Nash (Russell Crowe) durante la cerimonia per il Premio Nobel. Racconta Howard sul film che gli è valso due Oscar, come Miglior Film e Miglior Regia: "Anche se il mio partner di produzione, Jonathan Grazer, stava già lavorando al progetto, io entrai sia come produttore che regista per ragioni familiari, prima di tutto, per esplorare e stigmatizzare attraverso il cinema la malattia mentale. Potevamo farlo in modo ironico, esasperatamente tragico o raccontando la vita di John Nash, valorizzata in senso cinematografico grazie alla fantastica penna di Akiva Goldsman, che partì da un articolo di giornale e intervistò anche diversi psichiatri.
Uno degli obiettivi principali del film era quello di voler far sentire la gente come quell'uomo, come quelle povere creature che si intravedono su ciglio della strada a parlare da sole, persone tormentate che non vedono il mondo come lo vediamo noi. La ragione fu insomma molto semplice: utilizzare il medium per combattere la malattia mentale e permettere alla gente di percepirla e viverla in modo differente".
Cambiando radicalmente argomento, alla fine si lascia andare in un caloroso e divertito ricordo di due grandi star come John Wayne e Bette Davis. Con il primo recitò nel suo ultimo film prima della morte, Il Pistolero, e di lui dice: "Non era una persona facile con cui lavorare e la gente era intimorita dalla sua figura, ma il nostro fu un rapporto fantastico. Mi viene in mente un momento sul set del film in cui gli chiesi di provare le battute di una scena, che all'epoca era qualcosa che si faceva soltanto in televisione, e lui ne fu deliziato.
Notai che riusciva a trovare un ritmo tutto suo, la cosiddetta Pausa alla John Wayne. Al tempo lottava già per la sua salute e veniva da pensare che si dimenticasse la battute, ma non era così. Dava potenza, forza e carisma alle sue frasi, ai suoi momenti. Una cosa che ritrovai, ad esempio anche in Bette Davis: l'etica professionale".
E sulla Davis si dilunga affettuosamente nel raccontare il divismo, la serietà e la simpatia della star all'epoca settantenne e che lui diresse in uno dei suoi primi lavori da regista, quando aveva appena 24 anni. Racconta nostalgico e divertito Howard: "Io ero produttore e regista di questo piccolo progetto e lei voleva recitare questo ruolo. Aveva ormai 74 o 75 anni. A lei dava estremamente fastidio il fatto che un ragazzino come me potesse dare ordini a una diva come lei.
Prima delle riprese non ci siamo mai incontrati e abbiamo sempre parlato per telefono e una volta, a pochi giorni dall'inizio della produzione, ricordo che discutemmo su di una scena in particolare. Lei mi chiamava sempre Mr. Howard e solo in quell'occasione le dissi di chiamarmi anche solo Ron, e lei rispose 'La chiamerà Mr. Howard finché non avrò capito se lei mi piace oppure no'".
Conclude infine l'aneddoto: "Sapevo che uno dei suoi registi preferiti indossava sempre un abito sul set, e così decisi di farlo anche io per il primo giorno di riprese. Giravamo in Texas, alle 8,00 di mattina c'era un caldo infernale ma lo feci comunque. Appena mi avvicinai a lei ebbe una reazione spropositata e disse ad alta voce per farsi sentire che l'avevo spaventata perché non capiva cosa volesse un bambino da lei. Inghiotti e andai avanti a forza di pillole per lo stomaco [scherza].
Fu una giornata abbastanza tesa, devo dire, ma a un certo punto la fermai durante le riprese per chiederle di sistemare una scena, consigliarle come farla. Mi disse che secondo lei non andava bene ma la fece comunque e quando capii che avevo ragione lo disse immediatamente, annuendo e appoggiando la mia visione. A fine giornata la ringraziai e lei mi disse 'ok, Ron', dandomi addirittura una pacca sul sedere". Anche questo, in fondo, un modo di creare ponti e connessioni.
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