Rocky e Rambo a confronto: due icone affrontano il tempo che passa
Sylvester Stallone destruttura e ricalibra la destinazione emotivo-utilitaristica dei suoi "eroi", rendendoli più fragili, sentimentali, anziani e umani.
Anche i più irriducibili devono fare i conti con la vecchiaia. Lo sa bene Sylvester Stallone, indiscussa icona muscolare cinematografica che con i suoi personaggi badass ha fatto la storia dell'action anni '80, con la sua cifra stilistica e quelle tematiche profondamente politco-culturali deviate su di un quadrilatero o nel bel mezzo della guerriglia vietnamita. È stato d'ispirazione per molti e ha dato cornice, ombreggiatura e senso all'eroe esteticamente tutto d'un pezzo, facendolo a pezzi internamente, quando a causa di un Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD), quando invece in lotta con se stesso per superare i propri limiti, rimediare a quelli considerati degli sbagli personali. Li ha costruiti e modellati all'apice della loro forma fisica, Rocky e Rambo, scrivendoli come un amanuense in opera di ricalco di un testo, nel caso di Stallone della propria vita. Ci si è sempre nascosto dentro, Sly, come fosse la matrioska più piccola, il cuore dell'opera, protetto da una serie di strati di finzione cinematografica così da mescolarsi nel racconto e nelle dinamiche da lui imbastite; esserci per poi scomparire nell'amalgama totale, rendendo comunque chiara la sua presenza.
Lo ha fatto con il primo Rocky, quando non c'era fiducia ma la sola necessità di mettere nero su bianco la sfida per emergere; lo ha ripetuto in Rambo, raccontando l'emarginazione dei reduci e il difficile connubio tra malattia mentale e società "pacifica", per quanto la composta rigidità del male riesca ad attecchire anche al di fuori dei conflitti armati. Quarant'anni dopo, Stallone è tornato a rifarlo scambiando in definitiva l'amore per l'atto fisico dei giovani con la saggezza derivativa della vecchiaia, senza tradire le linee guida etiche e morali dei suoi personaggi ma inquadrandoli in un contesto fedele alla loro storia e alla loro evoluzione umana.
Giochi da giovani
Già con il Rocky Balboa del 2006 - arrivato dopo una sequela di fallimenti - Sylvester Stallone aveva tentato un'opera di invecchiamento-svecchiamento di una delle sue due grandi icone, cambiando sì qualche carta in tavola ma mettendo forse con troppa prepotenza il suo personaggio al centro della scena, nel quadrilatero. Lì c'era come sempre una parte dell'autore, quella che gridava rivalsa e voleva dimostrare al suo pubblico di poter essere ancora quel Rocky, solo in un fisico più "decadente". Naturale e umano, in fondo, eppure nella poetica stalloniana la forza di volontà supera tutto, persino gli ineluttabili segni del tempo: spingersi oltre i limiti dell'allenamento è segno di una divina dedizione a se stessi e a una causa più grande, un sfida da vincere. Che poi si vada KO sul ring non ha importanza, perché la conquista più importante è quella di esserci arrivati, con tutti i possibili acciacchi, contro ogni previsione negativa. Contro Drago bisognava per forza di cose dimostrare la supremazia capitalista contro l'avanzata rossa e il regime sovietico, caricare all'eccesso il sogno americano del "posso farcela contro tutto e tutti e guadagnarmi il mio meritato posto nel mondo". Era il fulcro tematico dell'opera, insieme al primo Rocky forse il titolo più inquadrato e sicuramente foriero di tante sensibilità cinematografiche stalloniane, poi radicatesi infatti nella sua filmografia e nel suo stile. Anche in John Rambo ha composto lo stesso mosaico: riproporsi in sana forma muscolare per tornare in azione, più invecchiato ma ugualmente combattivo, anche brutale, mai misericordioso.
Invecchiando però, pensando a perdite personali improvvise e a una vita trascorsa guardando a concept profondamente politico-culturali, Stallone ha compreso dopo Escape Plan , Il Grande Match e Jimmy Bobo che esplosioni, azione dinamica, scazzottate, nasi rotti, gengive sanguinati e quant'altro sono giochi da giovani, mentre lui - volente o nolente - ha ormai superato da un bel pezzo la soglia di sopportabilità e immedesimazione in ruoli attivi. Forse la conferma definitiva gli è arrivata con Mercenari 3, non a caso la stesura di Creed - Nato per combattere è successiva all'uscita del terzo capitolo del franchise degli Expandables, punto di non ritorno dal pensionamento "fisico" dei suoi personaggi più importanti, resi entrambi curiosamente zii.
Uncle badass
Stallone non ha mai negato sensibilità e dignità umana né a Rocky né a Rambo, ma nel corso delle rispettive saghe ha sempre tentato di arginare le loro fragilità attraverso l'atto fisico, il combattimento, la volontà di non arrendersi mai. Nei due Creed e nell'ultimo Rambo: Last Blood il discorso cambia, invece, perché lo sceneggiatore (e non più regista) lascia campo libero all'emotività dei suoi eroi, al dominio della mente sul corpo, alla riflessione prima dell'azione. Non li sfrutta più come eroi stalloniani tout court, cercando di adempiere a un dovere muscolare correlato all'eredità cinematografica di questi due simboli d'azione e dedizione, percorrendo invece la strada dell'introspezione psicologica a tutto tondo, scavando in profondità tra i solchi delle loro anime, preferendo mostrarne in modo diretto le debolezze e la maturità, piuttosto che sfruttarne in modo continuativo e unico la fisicità. In sostanza compie un percorso di revisione e drammatizzazione del Pugile e del Reduce, traslando ancora una volta se stesso nei suoi personaggi e dimostrando una sensibilità diversa e più consapevole della loro età, che li rende più dei saggi mentori che dei combattenti inarrestabili. Degli zii per i loro pupilli, con una sacrosanta storia di lotte e vittorie alle spalle che ha però lasciato ora il posto alla vita privata, da ristoratore Rocky e da ranchero Rambo, con una disponibilità per giunta limitata dalla ragione a tornare "in azione".
Non è infatti immediato il loro assenso, uno da allenatore e l'altro da guerrigliero, perché non c'è più la stessa forza e la stessa sostanza muscolare di un tempo: non li vediamo allenarsi e non assistiamo a nessuna imposizione della volontà sul corpo, semmai del raziocinio sull'impulsività. È questo che fa Stallone: lascia sbocciare i suoi personaggi, impollinandoli con giudizio e assennatezza fino a veder fiorire i risultati del suo quarantennale lavoro, connotandoli entrambi con un'aura da "maestri di vita", guadagnata grazie a dolori e sacrifici mai rinnegati, gli stessi che sia Rocky che Rambo sono pronti a compiere nuovamente pur di proteggere quella che considerano la loro eredità positiva. E anche questo significa combattere.
Rocky e Rambo a confronto: due icone affrontano il tempo che passa
Sylvester Stallone destruttura e ricalibra la destinazione emotivo-utilitaristica dei suoi "eroi", rendendoli più fragili, sentimentali, anziani e umani.
Anche i più irriducibili devono fare i conti con la vecchiaia. Lo sa bene Sylvester Stallone, indiscussa icona muscolare cinematografica che con i suoi personaggi badass ha fatto la storia dell'action anni '80, con la sua cifra stilistica e quelle tematiche profondamente politco-culturali deviate su di un quadrilatero o nel bel mezzo della guerriglia vietnamita.
È stato d'ispirazione per molti e ha dato cornice, ombreggiatura e senso all'eroe esteticamente tutto d'un pezzo, facendolo a pezzi internamente, quando a causa di un Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD), quando invece in lotta con se stesso per superare i propri limiti, rimediare a quelli considerati degli sbagli personali.
Li ha costruiti e modellati all'apice della loro forma fisica, Rocky e Rambo, scrivendoli come un amanuense in opera di ricalco di un testo, nel caso di Stallone della propria vita. Ci si è sempre nascosto dentro, Sly, come fosse la matrioska più piccola, il cuore dell'opera, protetto da una serie di strati di finzione cinematografica così da mescolarsi nel racconto e nelle dinamiche da lui imbastite; esserci per poi scomparire nell'amalgama totale, rendendo comunque chiara la sua presenza.
Lo ha fatto con il primo Rocky, quando non c'era fiducia ma la sola necessità di mettere nero su bianco la sfida per emergere; lo ha ripetuto in Rambo, raccontando l'emarginazione dei reduci e il difficile connubio tra malattia mentale e società "pacifica", per quanto la composta rigidità del male riesca ad attecchire anche al di fuori dei conflitti armati.
Quarant'anni dopo, Stallone è tornato a rifarlo scambiando in definitiva l'amore per l'atto fisico dei giovani con la saggezza derivativa della vecchiaia, senza tradire le linee guida etiche e morali dei suoi personaggi ma inquadrandoli in un contesto fedele alla loro storia e alla loro evoluzione umana.
Giochi da giovani
Già con il Rocky Balboa del 2006 - arrivato dopo una sequela di fallimenti - Sylvester Stallone aveva tentato un'opera di invecchiamento-svecchiamento di una delle sue due grandi icone, cambiando sì qualche carta in tavola ma mettendo forse con troppa prepotenza il suo personaggio al centro della scena, nel quadrilatero. Lì c'era come sempre una parte dell'autore, quella che gridava rivalsa e voleva dimostrare al suo pubblico di poter essere ancora quel Rocky, solo in un fisico più "decadente". Naturale e umano, in fondo, eppure nella poetica stalloniana la forza di volontà supera tutto, persino gli ineluttabili segni del tempo: spingersi oltre i limiti dell'allenamento è segno di una divina dedizione a se stessi e a una causa più grande, un sfida da vincere. Che poi si vada KO sul ring non ha importanza, perché la conquista più importante è quella di esserci arrivati, con tutti i possibili acciacchi, contro ogni previsione negativa.
Contro Drago bisognava per forza di cose dimostrare la supremazia capitalista contro l'avanzata rossa e il regime sovietico, caricare all'eccesso il sogno americano del "posso farcela contro tutto e tutti e guadagnarmi il mio meritato posto nel mondo".
Era il fulcro tematico dell'opera, insieme al primo Rocky forse il titolo più inquadrato e sicuramente foriero di tante sensibilità cinematografiche stalloniane, poi radicatesi infatti nella sua filmografia e nel suo stile. Anche in John Rambo ha composto lo stesso mosaico: riproporsi in sana forma muscolare per tornare in azione, più invecchiato ma ugualmente combattivo, anche brutale, mai misericordioso.
Invecchiando però, pensando a perdite personali improvvise e a una vita trascorsa guardando a concept profondamente politico-culturali, Stallone ha compreso dopo Escape Plan , Il Grande Match e Jimmy Bobo che esplosioni, azione dinamica, scazzottate, nasi rotti, gengive sanguinati e quant'altro sono giochi da giovani, mentre lui - volente o nolente - ha ormai superato da un bel pezzo la soglia di sopportabilità e immedesimazione in ruoli attivi. Forse la conferma definitiva gli è arrivata con Mercenari 3, non a caso la stesura di Creed - Nato per combattere è successiva all'uscita del terzo capitolo del franchise degli Expandables, punto di non ritorno dal pensionamento "fisico" dei suoi personaggi più importanti, resi entrambi curiosamente zii.
Uncle badass
Stallone non ha mai negato sensibilità e dignità umana né a Rocky né a Rambo, ma nel corso delle rispettive saghe ha sempre tentato di arginare le loro fragilità attraverso l'atto fisico, il combattimento, la volontà di non arrendersi mai. Nei due Creed e nell'ultimo Rambo: Last Blood il discorso cambia, invece, perché lo sceneggiatore (e non più regista) lascia campo libero all'emotività dei suoi eroi, al dominio della mente sul corpo, alla riflessione prima dell'azione. Non li sfrutta più come eroi stalloniani tout court, cercando di adempiere a un dovere muscolare correlato all'eredità cinematografica di questi due simboli d'azione e dedizione, percorrendo invece la strada dell'introspezione psicologica a tutto tondo, scavando in profondità tra i solchi delle loro anime, preferendo mostrarne in modo diretto le debolezze e la maturità, piuttosto che sfruttarne in modo continuativo e unico la fisicità. In sostanza compie un percorso di revisione e drammatizzazione del Pugile e del Reduce, traslando ancora una volta se stesso nei suoi personaggi e dimostrando una sensibilità diversa e più consapevole della loro età, che li rende più dei saggi mentori che dei combattenti inarrestabili. Degli zii per i loro pupilli, con una sacrosanta storia di lotte e vittorie alle spalle che ha però lasciato ora il posto alla vita privata, da ristoratore Rocky e da ranchero Rambo, con una disponibilità per giunta limitata dalla ragione a tornare "in azione".
Non è infatti immediato il loro assenso, uno da allenatore e l'altro da guerrigliero, perché non c'è più la stessa forza e la stessa sostanza muscolare di un tempo: non li vediamo allenarsi e non assistiamo a nessuna imposizione della volontà sul corpo, semmai del raziocinio sull'impulsività.
È questo che fa Stallone: lascia sbocciare i suoi personaggi, impollinandoli con giudizio e assennatezza fino a veder fiorire i risultati del suo quarantennale lavoro, connotandoli entrambi con un'aura da "maestri di vita", guadagnata grazie a dolori e sacrifici mai rinnegati, gli stessi che sia Rocky che Rambo sono pronti a compiere nuovamente pur di proteggere quella che considerano la loro eredità positiva. E anche questo significa combattere.
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