Speciale Ralph Spaccatutto, Paperman, John Lasseter e la rinascita Disney

La rinascita Disney parte davvero da John Lasseter?

Speciale Ralph Spaccatutto, Paperman, John Lasseter e la rinascita Disney
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Testi a cura di Riccardo Nuziale

Da salvatore a distruttore. O quantomeno problema da debellare inequivocabilmente. Che gli estremi di un regno siano quasi sempre traumatici se n'è accorto a suo tempo anche Michael Eisner. Un regno lunghissimo, il suo, a capo della Disney (come amministratore delegato), che lo vide principale fautore di una delle resurrezioni artistico-economiche - nonché uno dei momenti più felici della storia della casa in assoluto - più stupefacenti della storia del cinema, il cosiddetto Rinascimento Disney.
Gli anni 90: un'inaspettata oasi edenica, che vide la Disney nella prima metà del decennio tornare al vertice del mondo dell'animazione sia per qualità artistica che per successo di pubblico. La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Aladdin, Il Re Leone... titoli conosciuti da qualsiasi appassionato di cinema, specialmente per gli allora bambini. Eisner sembrava il nuovo Re Mida, colui che risollevò i gravi problemi economici e artistici della Disney e che appariva inarrestabile.
Poi la tragedia: la morte in un incidente d'elicottero del suo braccio destro, il presidente Frank Wells, colui che salì sul trono Disney insieme a lui nel 1984, destabilizzò non poco Eisner, che per di più si rifiutò di dare il posto lasciato libero da Wells al nuovo grande talento dell'azienda, Jeffrey Katzenberg. Il quale, dopo aver vinto una causa legale contro la Disney per 250 milioni di dollari, co-fondò uno studio che avrebbe dato a dir poco filo da torcere negli anni successivi alla casa di Topolino, la DreamWorks.

Così iniziò il declino del regno di Eisner e finì il Rinascimento della Disney. Che col passare degli anni si vedeva sempre meno protagonista in un mondo sempre più competitivo, soprattutto con i nuovi studios specializzati nell'animazione CGI: la Dreamworks, la Blue Sky e, naturalmente, la Pixar, la grande fuoriclasse dell'animazione degli ultimi vent'anni. Eisner riuscì a stipulare un contratto di cinque film con quest'ultima, che vedeva la Disney l'imponente partner produttivo. Ma sul piano creativo l'unica ad avere voce in capitolo sui propri film era la Pixar e a parlare impietosamente era appunto l'abissale differenza di successo critico e di pubblico tra i film delle due case gemellate. La sigla "Disney Pixar", che ancora oggi inganna il pubblico meno preparato (convinto di trovarsi di fronte un film Disney), non era altro che un escamotage tanto furbo quanto evanescente.
In casa Disney non solo mancavano le idee, ma anche quell'identità che, pur negli inevitabili momenti bui di decenni di storia, l'aveva sempre contraddistinta. Per la prima volta forse nella sua storia la Disney era completamente fuori gioco e fuori tempo, una "nonna" guardata con quella riverente compassione riservata ai gloriosi dinosauri: tantissimo rispetto, certo, ma anche la consapevolezza che il gotha dell'animazione era altrove da tempo. Il penoso tentativo di modernizzarsi ripudiando integralmente il 2D per tentare la fortuna col CGI realizzando Chicken Little fu forse la classica goccia che fece traboccare il vaso e fece capire ai piani alti Disney che una mossa andava fatta.

Non fu un caso che nel 2004 la Pixar, consapevole di avere ora lei il coltello dalla parte del manico, al momento di discutere per il nuovo contratto impose condizioni inaccettabili per la Disney ed Eisner, ormai con le spalle al muro, privo dell'appoggio della maggioranza degli azionisti, sentì che era tempo di un rinnovamento: diede le sue dimissioni nel 2005, ponendo fine a un regno di ventun anni, e nel 2006 la Disney, per risolvere il "problema" Pixar, non ebbe altra via che l'onerosissimo assorbimento, per la stratosferica cifra di oltre 7 miliardi di dollari. Assorbimento che portò Steve Jobs nel consiglio d'amministrazione Disney e John Lasseter come direttore creativo.

Lasseter (ricordiamo, studente Disney negli anni '80) che in sei anni ha fatto molto, per la Disney. Moltissimo. Forse addirittura trascurando la sua creatura, la Pixar, ultimamente un po' troppo ammiccante ai sequel d'incasso e/o ad una facile poetica simil-DreamWorks (senza mai cascarci pienamente, sia chiaro, ma dagli autori di capolavori come Toy Story 2, Gli Incredibili e Wall E è ben lecito aspettarsi sempre il massimo).
Ha ridato una forte identità ai prodotti degli Studios, ristabilendone il carattere fiabesco (pienamente consapevole di non dover scivolare nell'anacronistico e anzi dando solidità e tridimensionalità alle icone per eccellenza dei lungometraggi Disney, le principesse) con La Principessa e il Ranocchio e Rapunzel, rispolverando "vecchie glorie" (Winnie the Pooh) dimostrando che sono tutt'altro che datate, ridando lustro alla matita, ricordando come in un'animazione computerizzata sempre più perfetta e realistica, i disegni 2D non sono affatto pronti per la pensione (e non lo saranno mai).
Ed è forse questa la lectio magistralis di Lasseter: padre di una delle più grandi rivoluzioni della storia dell'animazione (con i corti anni '80 prima e Toy Story poi), il genio della Pixar ha sempre insistito nell'affermare come la tecnologia sia solo un mezzo, un tramite per realizzare arte, non è arte essa stessa (che continua a risiedere nella creatività dell'uomo). E non ha mai dimenticato le sue radici, il suo amore per l'animazione tradizionale.

Nel nuovo classico Disney, Ralph Spaccatutto, il rispetto per il passato, il sottolineare una linea storica che ci riporta alla mente come il presente non sia altro che un cammino fatto di "passi passati", è addirittura il fulcro di tutto e per qualsiasi videogiocatore anni '80-'90 il film è una delizia citazionista imperdibile.
Ma forse meraviglia ancora più abbacinante - e ciò che riassume alla perfezione lo slancio proiettato verso il futuro della Disney di Lasseter - è il corto precedente a Ralph (già, perché Lasseter, tra le varie cose, ha voluto esportare da casa Pixar anche la bottega rinascimentale dei cortometraggi da affiancare al film, le Silly Symphonies contemporanee).
Paperman è un corto muto in bianco e nero di disarmante semplicità, una storia d'amore che trascende il realismo classico a favore del fantastico, conditio sine qua non dell'animazione (dove credere viene prima di tutto). Minuti cristallini, forse banali nella costruzione narrativa, ma che non possono lasciare indifferenti, sospesi nella loro atemporalità, in un cinema troppo spesso abulico d'imposizioni di visioni. E non possono lasciare indifferenti per l'innovativa realizzazione tecnica, che unisce le fattezze del disegno 2D con la profondità e la tridimensionalità del 3D con impressionante naturalezza e scioltezza (non è certo la prima volta in cui vi è l'uso del computer in un'opera di animazione bidimensionale e tradizionale - già La Bella e la Bestia fece storia in tal senso - ma mai la fusione era arrivata a un livello tale da non saper dire dove inizia l'uno e finisce l'altro, sfumato leonardesco a base di pixel).
Candidato all'Oscar come miglior corto d'animazione, sta da mesi facendo discutere: la Disney è di nuovo innovativa, avanti coi tempi? Potrà tornare ad essere il nome di riferimento dell'animazione mondiale? John Lasseter è definitivamente - per capacità visionarie e imprenditoriali - il nuovo Walt Disney?

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