Prey VS Predator: il film Disney+ è degno del classico con Schwarzenegger?

Con Prey il franchise di Predator è tornato ai fasti di un tempo: andiamo a scoprire analogie e differenze con il film originale del 1987.

Prey VS Predator: il film Disney+ è degno del classico con Schwarzenegger?
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Non c'è dubbio che l'arrivo di Prey nel catalogo di Disney+ abbia scatenato un bel putiferio e diviso i fan, tra chi ha apprezzato questa nuova versione ambientata al tempo dei nativi e chi invece ha etichettato il tutto come mera operazione commerciale figlia del cinema contemporaneo. Per tagliare subito la testa al toro, chi scrive rientra nella prima categoria e promuove a pieni termini quest'evoluzione del franchise di Predator, che torna agli albori della storia per distaccarsi dalle ultime operazioni che avevano ridotto la saga ad una sorta di involontaria parodia di se stessa. La nostra recensione di Prey è a portata di clic.

La critica posta principalmente da chi non ha apprezzato è invece relativa al fatto che l'originale rimanga su un altro pianeta e che la coraggiosa guerriera nativa di Amber Midthunder non possa competere con i muscoli sudati di un Arnold Schwarzenegger al top della forma. In quest'articolo andremo ad analizzare alcuni punti di contatto ed elementi di divergenza che legano le due pellicole, diverse e simili al contempo.

Il teatro della battaglia

In Prey le Grandi Pianure del 1719, in Predator il Centro America - a far le parti di un Vietnam mancato - di fine anni Ottanta. Entrambi palcoscenici in grado di esporsi quali perfetti teatri delle rese dei conti tra i protagonisti umani e gli Yautja, evoluti alieni dalle sembianze mostruose con una predilezione per la caccia. Una caccia aperta nel quale il gioco tra prede e predatori diventa ogni volta sempre più arduo e la lotta per la sopravvivenza si affida a soluzioni spesso disperate, laddove l'astuzia deve vincere sulla forza bruta.

Questo è soprattutto il caso di Prey, dove la giovane e determinata comanche Naru assiste impotente al massacro dei suoi coetanei, i guerrieri della sua tribù, per mano del feroce e implacabile extraterrestre. A farne le spese sarà anche il fratello, in una delle sequenze più intense del film prima della definitiva resa dei conti, parzialmente forzata ma non priva di un sano spettacolo di genere. In Predator invece il berretto verde Alan "Dutch" Schaefer, unico superstite - insieme alla sola donna del gruppo - della mattanza che è costata la vita ai suoi compagni, si affida anche alla forza bruta, combinata in ogni modo ad una certa dose di ingegno nei trucchetti usati per eliminare la minaccia.

Un pizzico di magia

In tutti e due i film i personaggi si ritrovano a utilizzare unguenti o rimedi miracolosi per nascondersi alla presenza del nemico. Se in Prey Naru si affida, per abbassare la temperatura corporea, ad un fiore locale, in Predator è il fango a coprire quasi interamente il corpo scultoreo di Schwarzy, permettendogli di camuffarsi davanti al visore termico dell'alieno. Nessuna delle due soluzioni può dirsi effettivamente più realistica dell'altra ma come spesso accade in produzioni di questo tipo bisogna scendere a patti con certe dinamiche e si si accetta una bisogna accettare anche l'altra, senza porsi troppi problemi a livello di logica.

Grande fascino è dato ovviamente dal contorno e in questo caso l'approccio utilizzato è ben diverso per quanto affascinante in entrambi i contesti. Nel 1987 John McTiernan sfruttò al meglio il fascino rude e selvaggio della giungla messicana nei pressi di Puerto Vallarta, cogliendo al meglio le insidie che potevano nascondersi dietro ogni angolo. Lezione ampiamente imparata ed evoluta dal collega Dan Trachtenberg che, sia tramite un approccio registico maggiormente autoriale che grazie alla splendida fotografia di Jeff Cutter, ha dato vita a paesaggi evocativi, con cieli immensi che si stagliano all'orizzonte memoria quasi di certo cinema fordiano.

Rimandi e continuazioni

Tra citazioni marcate di Prey al capostipite, come la presenza del serpente che permette di sottolineare ancora una volta l'ambiguità del ruolo tra vittima e cacciatore o ancora quella battuta simbolo "if it bleeds, we can kill it", tradotta in italiano in un meno incisivo "se può essere ferito, può essere ucciso" che il fratello di Naru pronuncia in uno dei passaggi chiave, questo ultimo episodio della saga richiama ai prototipi, con tanto di epilogo che si ricollega apertamente al finale di Predator 2 (1990), aprendo la strada a nuove contorsioni narrative che possono ulteriormente espanderne la mitologia.

Tanto che la realizzazione di un ulteriore tassello della saga, suggerito da quella possibile invasione di massa suggerita durante i titoli di coda, non sarebbe per niente fuori luogo: la stessa Amber Midthunder ha risposto sul sequel in una intervista. Nella speranza che si smetta finalmente di fare confronti tra film appartenenti a diverse epoche e mo(n)di di mettere in scena il cinema di intrattenimento e ci si concentri o meno sull'effettiva qualità di essi. Che sia Arnold Schwarzenegger o una giovane attrice poco più che ventenne ad affrontare il letale cacciatore alieno poco importa, a contare è il risultato, centrato ora come allora.

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