Pinocchio, la non-innovazione di Zemeckis è da premiare?

Zemeckis con il primo trailer di Pinocchio ci ha fatto capire di voler seguire pedissequamente la storia Disney. Questa scelta è da premiare?

Pinocchio, la non-innovazione di Zemeckis è da premiare?
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La storia di Pinocchio è probabilmente tra le più conosciute a livello mondiale. Il libro di Collodi, che sia stato letto o meno, rappresenta uno dei capisaldi delle favole, essendo diventata negli anni anche un canovaccio per tante ispirazioni e altrettante derivazioni. Il burattino che desidera diventare un bambino vero e che giunge al suo obiettivo dopo una serie di peripezie, ma soprattutto riscoprendo l'amore e l'affetto per i propri cari e per una vita retta e onesta è la metafora che più è stata utilizzata nel corso della letteratura moderna, rendendo l'opera di Carlo Collodi immortale. Talmente destinata a stagliarsi nel firmamento dell'eternità che Pinocchio, l'unico grande picaro della tradizione italiana, ha visto succedersi un grande numero di opere cinematografiche pronte a regalarci emozioni e sentimenti contrastanti, come anche Zemeckis proverà a fare adesso con il suo live action di Pinocchio annunciato per Disney+.

Quando Disney raccontò Pinocchio

Tra le più significative rappresentazioni non possiamo non citare, in apertura, quella di Walter Elias Disney. Il cineasta di Chicago, che fece di Burbank la sede per il suo miracolo artistico, vide nell'opera di Collodi la possibilità di realizzare un capolavoro animato che lo avrebbe consegnato alla storia tanto quanto fatto da Biancaneve, la sua follia.

Gli intoppi in fase produttiva furono tanti, a partire dal desiderio di voler rendere Fantasia il suo più grande lavoro di sempre, a quello di cambiare il team di produzione più volte perché bramoso di dare la precedenza al suo Concerto animato, ma alla fine il Pinocchio di Walt Disney, distribuito al cinema nel 1940 e da nomenclatura ufficiale il suo secondo Classico, fu un enorme successo di critica. Meno di pubblico, perché lo scoppio della guerra non lo aiutò con gli incassi né con l'attenzione mediatica che avrebbe meritato. Il Pinocchio di Disney permise al cineasta americano di diventare padre putativo di quella storia, che per gli americani non era di matrice italiana, bensì proprio di Disney. Nei suoi colori pastello, nel suo vestire i personaggi alla tirolese (per una semplice scarsa conoscenza dell'Italia da parte dei suoi animatori), nell'edulcorazione di alcuni contenuti, dal pescecane divenuto balena, da Figaro e Cleo, dal Grillo Parlante che non veniva schiacciato da una scarpata, dalle gambe di Pinocchio non bruciate dal fuoco, dalle fughe addolcite e dal desiderio di rendere il Gatto e la Volpe molto più bonari, Walter Elias realizzò la favola che tutti i bambini potevano vedere e ascoltare.

Massificò quella tragica evoluzione di un picaro, finito impiccato nel campo dei miracoli a chiedere perdono al padre, come Gesù Cristo in croce ("Oh babbo mio, se tu fossi qui!" dal Salmo 22), giudicato dinanzi a un tribunale ingiusto e costretto a guardare il suo amico Lucifero morire sotto forma di asino: la rese accessibile a tutti, come tante altre volte gli capitò di fare nel corso della sua vita.

Diversi modi di vedere e di capire Pinocchio

Va da sé che l'interpretazione di Pinocchio da parte di Disney era figlia di una visione del mondo diversa, atipica: Walter non si occupava di cartoni animati, perché per lui quello era solo un mezzo, non un fine.

L'obiettivo era raccontare storie che potessero colpire, che potessero affascinare, soprattutto in quegli anni in cui si lasciò convincere da Leopold Stokowski nel trasformare un semplice cortometraggio di nove minuti musicato da Paul Dukas nel più visionario e incompreso dei lungometraggi. I più integralisti della storia di Pinocchio, però, non avrebbero mai potuto trovare soddisfazione in quanto fatto a Burbank, ed è per questo che l'Italia, al di là del lavoro svolto da Roberto Benigni che non ha mai trovato i favori di pubblico e critica, ha trovato in Matteo Garrone la soddisfazione massima nella storia recente del cinema. Tre anni fa, nel pieno del Natale, il regista romano aveva deciso di presentarsi al cinema con quello che a oggi, per linearità e per esaltazione delle metafore, è il Pinocchio più completo e fedele alla storia raccontata da Collodi (recupera qui recensione di Pinocchio). Sì pronto ad affidarsi a scelte atipiche in fase di effetti speciali, soprattutto nella riproduzione del Grillo Parlante e del Tonno, entrambi figli di una cultura cinematografica che è propria di Garrone e del surreale, il suo Pinocchio rispondeva al sano principio della fedeltà storica.

C'era tutto il romanzo di Collodi, dalle gambe bruciate all'impiccagione, dal processo al tentativo di essere affogato quando in forma di asino, passando per i becchini che si presentano alla porta della Fata Turchina quando il burattino si rifiuta di prendere la medicina. In tutte le sue brutture, nella serie di scene macabre che Collodi aveva inanellato, Garrone era entrato con solennità e con dovizia, riproducendo tutto con estrema cura.

La non-idea di Zemeckis

A Robert Zemeckis, adesso, è stato affidato il compito di non scegliere la strada da percorrere. Al regista che ha avuto modo di donare al cinema perle e pietre miliari come Forrest Gump, Chi ha incastrato Roger Rabbit?, Ritorno al Futuro e quant'altro, Disney ha indicato la strada: l'America non è pronta - o semplicemente potrebbe non essere interessata - ad ascoltare la vera storia di Carlo Collodi. Gli Stati Uniti vogliono la storia di Walter Elias Disney. Per questo Zemeckis, nel trailer che ci è stato presentato, ha seguito pedissequamente la storia del 1940: Geppetto che prega guardando la stella che brilla su nel ciel (canzone che, tra l'altro, fece la fortuna di Leigh Harline, bruscamente estromesso dal progetto Fantasia per potersi concentrare solo su Pinoccchio, al quale portò due Oscar), il burattino vestito alla tirolese col suo cappello giallo, Figaro che sonnecchia sereno e Jiminy, la cui CGI qualche naso l'ha fatto storcere.

Non ci sarà spazio in questa sede per analizzare la polemica riguardante la Fata Turchina: di analogie bibliche abbiamo già parlato, è facile pertanto capire quanto Collodi abbia provato a fare in modo che Geppetto rappresentasse Giuseppe e che la Fata, soprattutto nelle sue fattezze cromatiche, potesse essere Maria. Qui, però, siamo in un ambiente diverso, siamo a casa di Disney, che della storia originale ha preso solo l'edulcorazione di cui aveva bisogno e ora, la sua azienda, si prende la libertà di continuare a professare quell'uguaglianza e quella inclusività della quale si è sempre fatta portatrice negli ultimi anni. Ci sarà spazio, piuttosto, per domandarsi se da Zemeckis potevamo aspettarci di più, di meglio. Proprio dalla sua autorialità era possibile immaginarsi una spinta verso una direzione leggermente diversa, che potesse dare a Pinocchio qualcosa del suo tocco, senza dover per forza replicare con la carta copiativa quanto già fatto 80 anni fa.

Quella stella su nel ciel continua a brillare aspettando che Geppetto esprima il proprio desiderio, ma anche noi avremmo desiderato il Pinocchio di Zemeckis, che per quanto costretto a seguire i binari di Disney avrebbe, ribadiamo, potuto conferire all'intera produzione qualcosa di più del suo tocco. La storia la conosciamo già, sappiamo già come andrà a finire e quali saranno gli snodi narrativi: avremmo desiderato vederla raccontata in un modo diverso, con un Mangiafuoco moderno, con una verve più alternativa. A sensazione ci toccherà aspettare Del Toro, pronto a raccontarci la storia dagli occhi di Cricket: bastava poco, d'altronde.

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