Non è una missione facile raccontare la guerra, la mafia e la crisi non sociale, ma antropologica della nostra epoca senza mai diventare banali e, soprattutto, mantenendo la stessa sagacia che è tipica di chi nasce come documentarista d'assalto. Pierfrancesco Diliberto, figlio d'arte e dal 1998 attivo prima come autore televisivo e poi come conduttore, nel 2007 passa all'attenzione del grande pubblico con Il testimone, un programma su MTV che racconta storie ed eventi con l'ausilio di una piccola telecamera, da documentarista che insegue la realtà concreta, per rintracciare un messaggio sociale a ogni puntata; scopo che nella filmografia di PIF si è ripetuto sempre di più.
E sebbene E Noi Come Stronzi Rimanemmo a Guardare, sua ultima fatica, non abbia osato abbastanza (come potete leggere nella nostra recensione di E Noi Come Stronzi Rimanemmo a Guardare) è indubbio che PIF abbia finora confezionato prodotti che hanno dimostrato la grande capacità narrativa dell'autore palermitano.
Da Jacque Tati a Spike Jonze, con un passo in più
La terza opera di PIF, arrivata sul grande schermo dopo un percorso di crescita che gli ha permesso di approfondire le tematiche topiche della sua Sicilia, è un melting pot di grandi citazioni e di derivazioni che spingono, però, verso un'altra dimensione.
In E Noi Come Stronzi Rimanemmo a Guardare c'è Her di Spike Jonze, nel rapporto che Fabio De Luigi intraprende con Ilenia Pastorello, ma senza essere ripetitivi, perché quella relazione compie uno step ulteriore; c'è I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller nella spasmodica rincorsa di quell'anima gemella trovata online, che permette a un uomo solitario, ma non necessariamente misantropo - come era l'impiegato di Ben Stiller -, di trovare una nuova spinta nella vita. C'è Playtime di Jacque Tati, che nel 1967 aveva esasperato il tragico approccio dell'uomo alle moderne tecnologie industriali, tanto necessarie quanto pronte a interferire con le interazioni umane: quello che fu un capolavoro sfortunato del cinema degli anni Sessanta, viene amplificato e proiettato in quella faccia stanca e disgraziata di Arturo Giammarresi, il feticcio di PIF qui interpretato da Fabio De Luigi. Maschera perfetta dei nostri tempi, in grado di raccontare il disagio generazionale che abbiamo vissuto negli ultimi vent'anni, lo stesso attore vive da qualche anno la sua definitiva maturità attoriale, riuscito a distaccarsi dalla parentesi infelice dei cinepanettoni: Arturo diventa una macchietta, costretto a indossare uno zaino da rider che lo costringe a vivere in una gag infinita che riavvicina di molto Giammarresi al ragionier Fantozzi, schiavo di un sistema che lo ingabbiava in un contesto a lui inadatto.
Il cinema racconta la realtà: PIF vive il quotidiano
Ma la narrazione di PIF non è solo questo, non è solo rileggere i capolavori della cinematografia in chiave moderna, ma saper raccontare la realtà: se Alfred Hitchcock ci ha ripetuto allo sfinimento che il cinema non dev'essere documentaristico, Ettore Scola gli ha risposto, tacitamente, che il cinema è bello se riesce a leggere la realtà.
Ed è quello che fa Pierfrancesco Diliberto, che nel suo costeggiare una velata critica anche alla vita dei rider, vittime di un processo tecnologico che ha agevolato chi quel lavoro non lo fa, riesce a fornire uno specchio perfetto di una società che si è evoluta nella direzione sbagliata. Ci riesce con quella vena romantica di chi romantico lo è stato, a Milano però: Luciano Bianciardi, per Francesco Bianconi l'ultimo romantico nella città meneghina, con il suo La vita agra questo aveva raccontato, nell'anelare quella vendetta per tutti i suoi concittadini morti nella miniera di Ribolla nel '54. Giammarresi non persegue nessuna vendetta sociale, non rivendica nessun diritto universale, ma è schiavo delle conseguenze del boom economico che ha colpito quel futuro distopico messo in piedi da PIF. Come Bianciardi, Arturo osserva con occhio disincantato l'appassimento dei rapporti interpersonali, portati all'apogeo dallo scambio tra De Luigi e lo stesso PIF quando c'è da gestire l'offerta di affitto per un appartamento dinanzi al quale si trovano entrambi.
Le vite dei personaggi di PIF si riducono a essere dei vuoti a rendere, contenitori che sono stati spogliati della loro essenza e vengono resi al fornitore, in questo caso la società: il professore di filologia romanza si ricicla hater, Arturo si ritrova a fare il rider dopo esser stato manager in azienda, ricevendo consigli da Maurizio Nichetti, che nel suo cammeo da collega rider sembra voler dire che non può spiegare tutto, lui che con Rataplan nel 1979 elaborò un altrettanto illuminata versione moderna di Playtime di Tati, anticipando i temi che oggi PIF si ritrova a raccontare. Ironico, sagace, senza mai scadere nella sterile e morbosa lamentela nei confronti della società che viviamo, raccontandoci in maniera scontata quello che già sappiamo, Diliberto ricuce sul temuto volto di Maurizio Lombardi la più triste e potente delle lezioni: noi dell'algoritmo non sappiamo niente, ma lui sa tutto di noi perché glielo abbiamo concesso.
L'amore che muove PIF e le sue stelle
A tenere in piedi questo possente insieme di elementi disgraziati, che nella bocca di un Jep Gambardella sarebbero stati tutti topoi utili per rinchiudersi in quella Roma che adesso fa da scenario a PIF e non uscirne più, c'è la linea dell'amore.
Diliberto l'ha approfondito in Momenti di trascurabile felicità di Daniele Luchetti (qui la nostra recensione di Momenti di trascurabile felicità) ma l'aveva già sviscerato nella sua seconda opera, In Guerra per Amore (che potete approfondire nella recensione di In Guerra per Amore): c'era tanto della derivata necessità di continuare a esacerbare il tema della criminalità organizzata del nostro Paese, ma con il modo unico e velatamente ironico di quella maschera che PIF ha indossato per tutta la vita, dell'uomo che l'affronta con dabbenaggine, ma che in realtà non gli appartiene per niente. Piefrancesco Diliberto non è mai rimasto a guardare, come invece fa la società che lui attacca: nel 2020, a pochi giorni dal lockdown, andò a Cambridge a recuperare la bicicletta di Giulio Regeni, riportandola a Fiumicello. Lei è tornata, ma Giulio no, come commentò la madre del ragazzo ucciso cinque anni fa e per il quale ancora viene chiesta verità: tornata grazie a PIF, che invece di restare a guardare, come uno stronzo, ha deciso di partire per un'avventura documentata.
Così era successo anche nel 2017, quando Diliberto aveva partecipato a una manifestazione a favore dei disabili siciliani, con l'obiettivo di ottenere un incremento dei fondi regionali per l'assistenza a queste persone: un evento che ha visto PIF in prima fila a pretendere scadenze e certezze, ancora una volta per fare. Se, quindi, volessimo trovare una persona che non è rimasta a guardare, in questi anni, quella è Pierfrancesco Diliberto, che con il suo film ha trovato un mezzo per raccontare le sue storie, per dirci che va fatto qualcosa.
È la sua capacità di raccontare la quotidianità con strumenti a noi vicini, con sentimenti con i quali possiamo empatizzare, che ci permette di riscontrare nella sua fin qui trilogia di denuncia una capacità narrativa che al giorno d'oggi appartiene a pochi in Italia. Perché rimanere impassibili dinanzi a ciò che ci ha narrato, a partire dal suo cruccio più grande rappresentato dall'omicidio a Falcone e Borsellino, è impossibile.
La mafia Uccide Solo d'Estate è solo uno dei modi che PIF ha trovato nel tempo per provare ad alleggerire la problematica viscerale della criminalità organizzata nel nostro Paese, come in Sarà stata una fuga di gas, titolo del suo racconto del 2012, a vent'anni dalla strage di Capaci. È nel suo rendere a noi prossime queste vicende che la narrazione di Diliberto diventa più vera e digeribile, scevra di ben altri contenuti d'intrattenimento che hanno esasperato la mafia, quasi a ergerla a modello nostrano. Perché di stronzi che restano a guardare ne abbiamo già abbastanza.
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PIF, da iena a regista: perché i suoi film lasciano il segno
La carriera di PIF non ci dice niente di nuovo: Pierfrancesco Diliberto è uno dei migliori storyteller a disposizione del panorama italiano.
Non è una missione facile raccontare la guerra, la mafia e la crisi non sociale, ma antropologica della nostra epoca senza mai diventare banali e, soprattutto, mantenendo la stessa sagacia che è tipica di chi nasce come documentarista d'assalto. Pierfrancesco Diliberto, figlio d'arte e dal 1998 attivo prima come autore televisivo e poi come conduttore, nel 2007 passa all'attenzione del grande pubblico con Il testimone, un programma su MTV che racconta storie ed eventi con l'ausilio di una piccola telecamera, da documentarista che insegue la realtà concreta, per rintracciare un messaggio sociale a ogni puntata; scopo che nella filmografia di PIF si è ripetuto sempre di più.
E sebbene E Noi Come Stronzi Rimanemmo a Guardare, sua ultima fatica, non abbia osato abbastanza (come potete leggere nella nostra recensione di E Noi Come Stronzi Rimanemmo a Guardare) è indubbio che PIF abbia finora confezionato prodotti che hanno dimostrato la grande capacità narrativa dell'autore palermitano.
Da Jacque Tati a Spike Jonze, con un passo in più
La terza opera di PIF, arrivata sul grande schermo dopo un percorso di crescita che gli ha permesso di approfondire le tematiche topiche della sua Sicilia, è un melting pot di grandi citazioni e di derivazioni che spingono, però, verso un'altra dimensione.
In E Noi Come Stronzi Rimanemmo a Guardare c'è Her di Spike Jonze, nel rapporto che Fabio De Luigi intraprende con Ilenia Pastorello, ma senza essere ripetitivi, perché quella relazione compie uno step ulteriore; c'è I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller nella spasmodica rincorsa di quell'anima gemella trovata online, che permette a un uomo solitario, ma non necessariamente misantropo - come era l'impiegato di Ben Stiller -, di trovare una nuova spinta nella vita. C'è Playtime di Jacque Tati, che nel 1967 aveva esasperato il tragico approccio dell'uomo alle moderne tecnologie industriali, tanto necessarie quanto pronte a interferire con le interazioni umane: quello che fu un capolavoro sfortunato del cinema degli anni Sessanta, viene amplificato e proiettato in quella faccia stanca e disgraziata di Arturo Giammarresi, il feticcio di PIF qui interpretato da Fabio De Luigi. Maschera perfetta dei nostri tempi, in grado di raccontare il disagio generazionale che abbiamo vissuto negli ultimi vent'anni, lo stesso attore vive da qualche anno la sua definitiva maturità attoriale, riuscito a distaccarsi dalla parentesi infelice dei cinepanettoni: Arturo diventa una macchietta, costretto a indossare uno zaino da rider che lo costringe a vivere in una gag infinita che riavvicina di molto Giammarresi al ragionier Fantozzi, schiavo di un sistema che lo ingabbiava in un contesto a lui inadatto.
Il cinema racconta la realtà: PIF vive il quotidiano
Ma la narrazione di PIF non è solo questo, non è solo rileggere i capolavori della cinematografia in chiave moderna, ma saper raccontare la realtà: se Alfred Hitchcock ci ha ripetuto allo sfinimento che il cinema non dev'essere documentaristico, Ettore Scola gli ha risposto, tacitamente, che il cinema è bello se riesce a leggere la realtà.
Ed è quello che fa Pierfrancesco Diliberto, che nel suo costeggiare una velata critica anche alla vita dei rider, vittime di un processo tecnologico che ha agevolato chi quel lavoro non lo fa, riesce a fornire uno specchio perfetto di una società che si è evoluta nella direzione sbagliata. Ci riesce con quella vena romantica di chi romantico lo è stato, a Milano però: Luciano Bianciardi, per Francesco Bianconi l'ultimo romantico nella città meneghina, con il suo La vita agra questo aveva raccontato, nell'anelare quella vendetta per tutti i suoi concittadini morti nella miniera di Ribolla nel '54. Giammarresi non persegue nessuna vendetta sociale, non rivendica nessun diritto universale, ma è schiavo delle conseguenze del boom economico che ha colpito quel futuro distopico messo in piedi da PIF. Come Bianciardi, Arturo osserva con occhio disincantato l'appassimento dei rapporti interpersonali, portati all'apogeo dallo scambio tra De Luigi e lo stesso PIF quando c'è da gestire l'offerta di affitto per un appartamento dinanzi al quale si trovano entrambi.
Le vite dei personaggi di PIF si riducono a essere dei vuoti a rendere, contenitori che sono stati spogliati della loro essenza e vengono resi al fornitore, in questo caso la società: il professore di filologia romanza si ricicla hater, Arturo si ritrova a fare il rider dopo esser stato manager in azienda, ricevendo consigli da Maurizio Nichetti, che nel suo cammeo da collega rider sembra voler dire che non può spiegare tutto, lui che con Rataplan nel 1979 elaborò un altrettanto illuminata versione moderna di Playtime di Tati, anticipando i temi che oggi PIF si ritrova a raccontare. Ironico, sagace, senza mai scadere nella sterile e morbosa lamentela nei confronti della società che viviamo, raccontandoci in maniera scontata quello che già sappiamo, Diliberto ricuce sul temuto volto di Maurizio Lombardi la più triste e potente delle lezioni: noi dell'algoritmo non sappiamo niente, ma lui sa tutto di noi perché glielo abbiamo concesso.
L'amore che muove PIF e le sue stelle
A tenere in piedi questo possente insieme di elementi disgraziati, che nella bocca di un Jep Gambardella sarebbero stati tutti topoi utili per rinchiudersi in quella Roma che adesso fa da scenario a PIF e non uscirne più, c'è la linea dell'amore.
Diliberto l'ha approfondito in Momenti di trascurabile felicità di Daniele Luchetti (qui la nostra recensione di Momenti di trascurabile felicità) ma l'aveva già sviscerato nella sua seconda opera, In Guerra per Amore (che potete approfondire nella recensione di In Guerra per Amore): c'era tanto della derivata necessità di continuare a esacerbare il tema della criminalità organizzata del nostro Paese, ma con il modo unico e velatamente ironico di quella maschera che PIF ha indossato per tutta la vita, dell'uomo che l'affronta con dabbenaggine, ma che in realtà non gli appartiene per niente. Piefrancesco Diliberto non è mai rimasto a guardare, come invece fa la società che lui attacca: nel 2020, a pochi giorni dal lockdown, andò a Cambridge a recuperare la bicicletta di Giulio Regeni, riportandola a Fiumicello. Lei è tornata, ma Giulio no, come commentò la madre del ragazzo ucciso cinque anni fa e per il quale ancora viene chiesta verità: tornata grazie a PIF, che invece di restare a guardare, come uno stronzo, ha deciso di partire per un'avventura documentata.
Così era successo anche nel 2017, quando Diliberto aveva partecipato a una manifestazione a favore dei disabili siciliani, con l'obiettivo di ottenere un incremento dei fondi regionali per l'assistenza a queste persone: un evento che ha visto PIF in prima fila a pretendere scadenze e certezze, ancora una volta per fare. Se, quindi, volessimo trovare una persona che non è rimasta a guardare, in questi anni, quella è Pierfrancesco Diliberto, che con il suo film ha trovato un mezzo per raccontare le sue storie, per dirci che va fatto qualcosa.
È la sua capacità di raccontare la quotidianità con strumenti a noi vicini, con sentimenti con i quali possiamo empatizzare, che ci permette di riscontrare nella sua fin qui trilogia di denuncia una capacità narrativa che al giorno d'oggi appartiene a pochi in Italia. Perché rimanere impassibili dinanzi a ciò che ci ha narrato, a partire dal suo cruccio più grande rappresentato dall'omicidio a Falcone e Borsellino, è impossibile.
La mafia Uccide Solo d'Estate è solo uno dei modi che PIF ha trovato nel tempo per provare ad alleggerire la problematica viscerale della criminalità organizzata nel nostro Paese, come in Sarà stata una fuga di gas, titolo del suo racconto del 2012, a vent'anni dalla strage di Capaci. È nel suo rendere a noi prossime queste vicende che la narrazione di Diliberto diventa più vera e digeribile, scevra di ben altri contenuti d'intrattenimento che hanno esasperato la mafia, quasi a ergerla a modello nostrano. Perché di stronzi che restano a guardare ne abbiamo già abbastanza.
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