Il Padrino: 50 anni dopo è ancora un grande capolavoro

A cinque decenni dal suo inizio, la saga di Francis Ford Coppola è destinata a sopravvivere in eterno tra i pilastri della Settima Arte.

Il Padrino: 50 anni dopo è ancora un grande capolavoro
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Nell'estate del 1972 una limousine sfreccia sul Sunset Boulevard spruzzando champagne dai finestrini. Ad un semaforo incrocia una Volvo; i passeggeri si scambiano sguardi, tirano giù i finestrini e iniziano a sbandierare i propri successi in barba alla vecchia Hollywood degli studios, quel golem che sono riusciti a domare uscendone vincitori. Sulla station wagon c'è Peter Bogdanovich che esulta per le recensioni positive del suo L'Ultimo Spettacolo, mentre sulla limo ci sono William Friedkin, fresco di Oscar per Il Braccio Violento della Legge e Francis Ford Coppola, proprietario della macchina, vinta in una scommessa con la Paramount sugli incassi del suo ultimo film: Il Padrino.

Cinquant'anni dopo, quei ragazzi che volevano sovvertire le regole del cinema americano sono diventate delle vere e proprie icone e l'opera di Coppola è divenuta non solo un manifesto della New Hollywood, ma ha imposto i suoi stilemi produttivi e culturali, dimostrando il genio del cineasta di Detroit che, pur abdicando all'intento di produrre solo opere scritte e ideate da lui, alla fine dall'opera di Mario Puzo trarrà una saga leggendaria. Il nuovo box celebrativo de Il Padrino, che racchiude i restauri in 4K delle tre pellicole e molti succosi extra, è uno degli strumenti che abbiamo oggi per celebrare uno dei pilastri della Settima Arte (oltre al ritorno de Il Padrino al cinema), il cui successo allora non era del tutto scontato.

Un'offerta che non si può rifiutare

"Io credo nell'America. L'America fece la mia fortuna." È questo l'indimenticabile prologo pronunciato da Amerigo Bonasera nello studio di Don Vito Corleone nel giorno del matrimonio della figlia di quest'ultimo. La parabola criminale della più importante tra le cinque famiglie mafiose italoamericane di New York ha inizio con questa celeberrima scena, ma con essa ha inizio anche il declino dell'immortale personaggio interpretato da Marlon Brando, ripreso in migliaia di citazioni e parodie. Famiglia, onore e rispetto sono valori che hanno sostenuto l'etica malavitosa e personale di Don Vito, il cui futuro è incerto; i capi mafia sono assetati di potere e non coglieranno occasione per prenderlo con la forza. Il Don cade e il primogenito Sonny ha la stoffa del gangster, ma non quella di padrino, per questo ne pagherà presto le conseguenze.

Le speranze ricadono così su Michael, il figlio che non ha mai avuto nulla a che fare con quel mondo, finché non si troverà in dovere di vendicare i torti subiti e riportare la sua famiglia in cima alla catena alimentare del crimine organizzato di New York, pronto ad espandersi verso nuovi lidi. Ogni scena di questo capolavoro è un quadro indimenticabile, sia per la sceneggiatura a prova di bomba di Puzo e Coppola (con un piccolo aiuto da parte di Robert Towne), sia per la meravigliosa fotografia di Gordon Willis che concepisce veri e propri tableau d'autore all'interno dei quali il Coppola giostra il suo meraviglioso cast che, oltre a Brando, vanta tra gli altri un giovanissimo Al Pacino nel ruolo di Michael, Diane Keaton in quello di Kay, moglie di quest'ultimo, James Caan nei panni di Sonny e Robert Duvall come il fidato consigliere Tom Hagen.

La sontuosa regia inanella così una sequenza dietro l'altra, ognuna a suo modo emblematica (l'uccisione di Sollozzo, lo sterminio dei capi mafia in montaggio alternato con il battesimo del nipote di Michael e il finale che consacra agli occhi nostri e di Kay il nuovo padrino - anche se non indovinerete mai la scena preferita di Coppola in Il Padrino), giocando a livello valoriale con i chiaroscuri e le tinte terrose, in una resa quasi materica, palpabile, delle vicende stesse. Un risultato da Oscar, come testimoniano le statuette al Miglior Film, Miglior Attore Protagonista e Miglior Sceneggiatura Non Originale.

L'eccezione che conferma la regola

I sequel sono sempre un'incognita. Migliorare un buon film è di per sé difficile, ma eguagliare un capolavoro e spingersi oltre è cosa per pochi eletti. Ed è esattamente ciò che fa Coppola con Il Padrino - Parte II, quando imbastisce un seguito che è allo stesso modo prequel del precedente, narrando la giovinezza di Don Vito, interpretato da uno straordinario Robert De Niro, e continuando a delineare la parabola di Michael, minacciato su più fronti, che sembra avere nemici anche all'interno della sua stessa famiglia, minando così il rapporto con Kay e con il fratello Fredo (l'indimenticato John Cazale).

Il viaggio del piccolo Vito dalla Sicilia di inizio Novecento ad Ellis Island, alla conquista del potere che lo renderà un giorno padrino e gli permetterà di vendicare l'omicidio dei genitori, si sposa con in un'opera dai toni elegiaci che spinge sempre più avanti l'ubris di Michael in un'ascesa che è allo stesso tempo vertiginosa caduta. Ancora una volta sorretto da un cast fenomenale (questa volta sarà De Niro a portarsi a casa la statuetta) il secondo capitolo della saga affina ulteriormente il lavoro di regia e il connubio con la fotografia, in un risultato che è la summa di tutti gli sforzi congiunti dei vari reparti e che rappresenterà di fatto l'apice della trilogia, sia in termini di riconoscimenti che di drammaturgia.

Il crepuscolo degli dei

Il Padrino - Parte III arriva quasi un ventennio dopo il precedente (il primo film è del 1972, il successivo del 1974). Siamo agli albori degli anni Novanta e quella che Coppola ci sottopone è l'inevitabile tramonto della dinastia Corleone e del suo Don, un Michael che, invecchiando, sta cercando di portare la famiglia fuori dai loschi affari della criminalità organizzata, investendo in attività legali in Città del Vaticano. Ad affiancarlo il figlio illegittimo di Sonny, Vincent Mancini (Andy Garcia), testa calda come il padre. Ovviamente le cose non andranno come desiderato da Michael e, tra corruzione e vendetta, il sangue continuerà a scorrere tra i Corleone.

Forse il capitolo meno apprezzato della trilogia, pur essendo l'ennesimo grande esempio del talento di Coppola che qui cerca di dare una degna conclusione alla saga e una redenzione che per Michael non arriverà mai, dopo i decenni passati alla guida del crimine newyorkese e non solo. La Sicilia e l'Italia assumono un ruolo ancor più predominante nelle vicende, con sempre più riferimenti alla contemporaneità (Andreotti, Licio Gelli, il Papa, Calvi) e l'inarrestabile reazione a catena costerà cara al Padrino, al quale non resterà che attendere la fine con in bocca l'amaro sapore del rimorso.

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