Mank, Gone Girl e The Social Network: la post-verità di David Fincher

Analizziamo una saga tematica che compone la filmografia di David Fincher: quella che unisce Mank, Gone Girl e The Social Network.

Mank, Gone Girl e The Social Network: la post-verità di David Fincher
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Dopo aver ripercorso la carriera di David Fincher attraverso i suoi migliori film e aver parlato approfonditamente del nuovo capolavoro Mank nella nostra recensione, oggi ci concentriamo su uno speciale dedicato alle due trilogie tematiche che caratterizzano la filmografia dell'autore.
Stiamo parlando delle "saghe" composte da The Social Network, Gone Girl e Mank e da Seven, Zodiac e Millennium, che abbiamo chiamato la Trilogia della Biblioteca, due filoni che con la nuova opera arrivata sul servizio di streaming Netflix sembrano entrambi definitivamente giunti a compimento.
Quella di cui parleremo oggi potrebbe essere definita come Trilogia della Post-Verità ed esamina, attraverso lo sguardo cinico della camera di Fincher, la relazione che lega i protagonisti dei suoi film a fatti che il pubblico, sbagliando, dà per assodati quando in realtà nascondono tutt'altro. Dunque, senza ulteriori indugi, tuffiamoci nella post-verità.

Post-verità, social e opinione pubblica

Col termine di "post-verità", relativamente nuovo (il termine Post-Truth fa il suo esordio nel dizionario di Oxford nel 1992), si intende un'argomentazione basata non tanto su una verità quanto su una forte emozione, qualcosa che urlato a gran voce riesca a influenzare l'opinione pubblica ribaltando la concezione di una falsa verità fino a farla accettare come effettiva.
Qualcosa di simile alla demagogia, una realtà fittizia fatta di eufemismi che abbelliscono i fatti e data in pasto alle masse.
Un grande esempio contemporaneo di post-verità che il cinema popolare ha visto è senza dubbio quello che caratterizza Spider-Man: Far From Home, con il villain Mysterio che sfrutta la malleabilità dell'opinione pubblica per farsi eleggere a eroe e addirittura rovinare la reputazione del protagonista.
Guardando indietro, però, David Fincher sembra riflettere su questo aspetto della società moderna da (ormai) un decennio: con The Social Network l'autore ha iniziato quello che pare un vero e proprio intervento di vivisezione sulla contemporaneità, corpo esanime alla mercé di tutti.
Mascherandosi da biopic su Mark Zuckerberg e cronaca della nascita di Facebook, il film in realtà diventa una disamina dell'intera società che in generale vive nei social, bloccata in un'apatia da eterna attesa intervallata da un refresh e l'altro, tra un post programmato e un like in più.

Scavando nelle origini di Facebook Fincher risale alla nascita dell'era digitale e delle sue storture, dei suoi paradossi.
Il film ci dice chiaramente che "su internet si scrive con l'inchiostro", che un milione di amici sui social non possono equivalere a un'esistenza colma di gioie (anzi) e che screditare la reputazione di una ragazza (come accade al personaggio di Rooney Mara nelle primissime scene del film) è un gioco da ragazzi perché i social impongono una post-verità indelebile, che una volta pubblicata rimane per sempre.

Quarto potere e amori bugiardi

Le riflessioni sull'argomento per Fincher sarebbero continuate in Gone Girl, arrivato a quattro anni di distanza da The Social Network.
Con ancor più cinismo del film del 2010, il regista nel thriller con Ben Affleck e Rosamund Pike ci racconta quanto qualsiasi cosa, perfino l'amore, possa facilmente venire piegato dalle manipolazioni della post-verità.
Sebbene il film sia apertamente schierato dalla parte del protagonista Nick Dunne, si diverte a metterlo in continua difficoltà usando tutte le facce dell'opinione pubblica come avversario, un nemico impossibile da battere.
Il modo in cui i media dipingono Nick diventa fonte di risentimento e avversione e modifica il giudizio su di lui da parte dei vicini, degli amici, perfino della sorella di Nick (interpretata da Carrie Coon), che per un momento sospetta di lui.
Ovviamente anche le istituzioni (i detective assegnati alle indagini) vengono fomentati dalle verità che arrivano dalle tv e dai social (Nick ha ucciso sua moglie, Nick ha una relazione incestuosa con sua sorella, Nick mente).
Sebbene Amy sia viva, a piede libero, totalmente sociopatica e machiavellica nei suoi piani (il film non ce lo nasconde, anzi), l'unico modo che il protagonista ha per discolparsi è stringere un'alleanza con i media, scendere a patti per ribaltare l'opinione che il pubblico si è fatto di lui.

In questo senso Gone Girl è la dimostrazione di quanto la verità non abbia alcuna speranza se rapportata alla post-verità: le bugie non hanno più le gambe corte e, se costruite a prova di media, possono andare lontanissimo, questo grazie al rapporto di sudditanza del quale la verità effettiva soffre nei confronti dell'opinione pubblica.
In Mank gli stessi concetti vengono applicati al mondo del cinema: un film che spiega quale impresa impossibile, sofferta e sudata sia per una pellicola diventare incredibile e ciò che si frappone fra il cinema - ovvero l'industria che costruisce dietro le quinte - e il prodotto vero e proprio, cioè l'opera che arriva sullo schermo.

Con Mank Fincher si dimostra consapevole che il cinema stesso è post-verità, i film sono macchine inarrestabili in grado di raccontare al pubblico le proprie realtà e influenzare l'opinione di chi li guarda.
Il regista risale la catena della creazione della settima arte, si sposta oltre i set, oltre le post-verità che il cinema allestisce e arriva fin dentro il mondo disincantato che si cela all'ombra dell'insegna bianca di Hollywood.
Il terzo e ultimo capitolo della trilogia della post-verità svela e abbatte le finzioni che si nascondono dietro ai film, dichiarando che le verità celate da Quarto Potere, gli uomini che hanno contribuito a crearlo e le vere personalità che ne hanno ispirato i personaggi potrebbero essere più interessanti da raccontare di quelli che il pubblico ha osannato per decenni, a loro volta frutto della creazione di qualcun altro.

Questa è la personale verità di David Fincher, quella che il film prende in esame ma non necessariamente l'unica vera.
Nella società della post-verità, del resto, non esiste più un solo punto di vista dal quale guardare: è un paradosso affascinante che proprio Herman J. Mankiewicz abbia introdotto i "punti di vista" nel racconto cinematografico, ma assolutamente non casuale.

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