Lo chiamavano Trinità... e la scorpacciata di fagioli

La leggendaria abbuffata di fagioli con protagonista Terence Hill racchiude in pochi minuti la vera magia del cinema: scopriamo insieme il perché.

Lo chiamavano Trinità... e la scorpacciata di fagioli
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I film con protagonisti Bud Spencer e Terence Hill hanno segnato in maniera indelebile l'infanzia e la giovinezza di moltissimi italiani, che ancora oggi non possono che ricordare con affetto le loro opere, capaci di far sognare a occhi aperti un pubblico di ogni età, unendo in modo originale il genere comico a molte altre influenze stilistiche.
Tra le pellicole di particolare rilievo per il generale comico-western possiamo sicuramente citare il cult Lo chiamavano Trinità..., il film diretto da E.B. Clucher che in breve tempo ha ottenuto un successo tale da diventare un piccolo grande classico del cinema italiano degli anni '70.
L'iconica scena in cui vediamo il protagonista mangiare con foga una smodata quantità di fagioli è forse quella che meglio rappresenta la magia di un modo di fare cinema che ormai, con il passare del tempo, si è sempre più affievolito.

Si beve, si mangia...

L'intramontabile scena cult vede il trasandato protagonista Trinità, interpretato da Terence Hill, entrare in una locanda dopo una faticosa traversata nel deserto.
Il suo gesto di spolverarsi gli abiti, ricambiato dalle occhiatacce del proprietario della locanda e dai loschi individui lì presenti, non può che constatare la sfrontatezza del personaggio principale, incurante di tutto quello che gli sta intorno.
La sequenza in cui Trinità inizia a divorare in modo famelico i fagioli racchiude in maniera funzionale l'essenza di un cinema che potremmo definire a tratti rustico, perché caratterizzato da un modus operandi poco incline alla ricerca di virtuosismi fini a se stessi, puntando prima di tutto sul ricreare situazioni vive e pulsanti, focalizzandosi soprattutto sulla sostanza attraverso la potenza della semplicità.

Per questo, ogni volta che la scena scorre davanti ai nostri occhi, ci sembra davvero di stare lì, quasi come se anche noi dovessimo iniziare a mangiare con foga da un momento all'altro.
La gestualità del protagonista diviene quindi un vero e proprio ponte tra lui e lo spettatore, capace quasi di abbattere la quarta parete in maniera implicita, grazie a un grado di coinvolgimento che ormai pochi film (sia italiani che non) sono in grado di raggiungere.

Basti pensare anche alla grande maestria con cui è stato ricreato l'effetto di sporcizia presente praticamente ovunque; oltre a Trinità, che indossa abiti logori e sudici, anche tutti gli altri personaggi presenti risultano brutti, sporchi e cattivi, andando a incentivare la sensazione di trovarsi davvero in una delle più squallide e decadenti locande del Far West.
Ma di fronte a tutte queste brutture, il cibo assume invece un ruolo a tratti salvifico, incentivato anche dalle stesse espressioni facciali del protagonista, che ogni volta che mastica sembra quasi andare in estasi.
L'atto del mangiare di gusto diventa quindi un momento a tratti catartico, illuminante, metafisico: per un attimo infatti è come se Trinità si trovasse da solo all'interno della locanda, impegnato a mangiare fagioli da un'enorme padella, versandosi da bere in un bicchiere che sembra addirittura non avere fondo.
Il cibo diviene quindi per lui un qualcosa di sacro, seppur a un certo punto il suo spazio vitale venga in realtà invaso da un tipo poco raccomandabile, rompendo di fatto la magia del momento.

...e si spara

L'animo sfrontato e ribelle di Trinità viene portato sempre più in superficie dai rocamboleschi avvenimenti in cui viene coinvolto via via che la scena avanza; seppur infatti intenzionato a finire il suo pasto senza infastidire nessuno (emblematica la scena in cui il cacciatore di taglie gli tiene il viso per osservarlo meglio), in cuor suo è consapevole del fatto che tutto potrebbe cambiare in maniera repentina da un momento all'altro.

Il protagonista così, dopo aver fatto addirittura la scarpetta, decide di liberare il prigioniero dai due cacciatori di taglie, rivelando al contempo la sua identità.
La sua incredibile fama da duro, infatti, lo precede, particolare che porta tutte le persone nella stanza a cambiare di fatto atteggiamento nei suoi confronti, in un certo senso intimoriti dalle voci che girano sul suo conto.
Il protagonista, forte della sua personalità istrionica e ribelle, ascrivibile all'archetipo della simpatica canaglia, non può che osservare tutti con fare divertito, consapevole di trovarsi di fronte a banditi di poco conto.
La ormai celeberrima frase "i fagioli comunque erano uno schifo", detta all'oste prima di uscire, non fa altro che incentivare il lato squisitamente guascone del protagonista, capace di prendere alla leggera qualsiasi situazione pericolosa ma anche di dimostrare le sue incredibili abilità di pistolero ogniqualvolta la situazione lo richiede, proprio come nel momento finale della scena, in cui fredda senza pensarci i suoi avversari pistoleri.

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