Jon Favreau davanti e dietro la macchina da presa: storia del gigante buono

Jon Favreau ama il cinema in ogni sua forma possibile: scoprite in questo articolo perché, sotto sotto, gli volete bene, anche senza saperlo.

Jon Favreau davanti e dietro la macchina da presa: storia del gigante buono
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Ci sono persone che stanno simpatiche a pelle. Senza averle mai conosciute, spesso senza nemmeno averle mai viste di persona. Emanano una sorta di vibrazione positiva che si spande ovunque, tipo il vento rinfrescante del Dr. Cox di Scrubs quando è di buonumore. Tom Hanks è una di queste, tanto per capirci, e tutti vorremmo solo abbracciarlo forte e farci dire che andrà tutto bene. Ma c'è un'altra persona capace di suscitare questo tipo di reazioni, anche se negli anni l'ha fatto più in sordina di tanti altri colleghi: Jon Favreau.
Attore, sceneggiatore, regista, produttore e doppiatore. Jon Favreau ama il cinema in ogni sua forma, riuscendo a ritagliarsi piccoli quadretti cult nell'immaginario collettivo di tantissime persone, che spesso lo amano senza nemmeno sapere chi sia. Perciò facciamo questo piccolo grande elogio a Jon Favreau, scoprendo assieme perché, sotto sotto, gli vogliamo così bene.

Jon, il primo supereroe

Possiamo girarci attorno quanto vogliamo, stendere tappeti rossi a Kevin Feige e tutto il suo entourage, ma il primo regista del film d'esordio del Marvel Cinematic Universe è stato Jon Favreau. Il suo Iron Man è tutt'oggi un grandissimo prodotto, forse il miglior film sulle origini del franchise. Jon ha dato il via a questo vero e proprio miracolo, ed è soprattutto grazie a lui se oggi stiamo aspettando con ansia e trepidazione la Fase 4. Perché fosse andato male il primo film, beh, il MCU sarebbe diventato il colosso che oggi conosciamo? Jon Favreau ha impresso il suo marchio su Iron Man: quel perfetto mix di leggerezza e solennità, dove lo scarto fra i due momenti è spesso minimo ma calibrato con precisione, mentre tutto attorno viene polarizzato dalla magnetica presenza di Robert Downey Jr., sempre sostenuta dalla regia di Favreau che rende divo il suo protagonista, senza mai dimenticare di farlo finire nella polvere. E che villain perfetto è Obadiah Stane? Raramente compare nelle classifiche del MCU, ma in un periodo fin troppo pieno di cattivi bidimensionali - villain solo perché devono esserlo, altrimenti il film non va avanti - il personaggio interpretato da Jeff Bridges svetta su tantissimi suoi "colleghi", aggiungendo gocce di perfezione a un film che solo un uomo squisitamente imperfetto come Jon Favreau poteva regalarci.

Sperimentare, fallire, rialzarsi

Jon Favreau non è un autore. È una persona che trangugia cinema in ogni sua forma, sperimentando qua e là, divertendosi, lavorando con tutti gli aspetti della macchina da presa e del cartaceo. Jon è una banca svizzera quando si tratta di blockbuster mainstream, uno che li porta a casa come si deve. Anche se poi il prodotto finale non è da considerarsi riuscito. La Disney però gli affida due regie di altrettanti live action (Il libro della Giungla e, appunto, Il re leone) e vorrà dire ben qualcosa, a prescindere dalla validità stessa di tutto il gigantesco filone dei remake fatti da Topolino. Non solo, a lui le redini di The Mandalorian, la serie nell'universo di Star Wars pronta a sbarcare su Disney+. Quando si parla di spalle larghe per gestire un'enorme responsabilità, lui c'è sempre. Jon si ingozza di cinema, a volte facendo indigestioni fantawestern decisamente evitabili (Cowboys & Aliens insegna), altre digerendo piccole chicche di commedia demenziale, ammantate sempre di aura disneyana: chi non ha riso di cuore guardando Elf e l'interpretazione di Will Ferrell? Tutti, ovviamente, la domanda era retorica.
Altre volte invece il tentativo di riproporre un successo non funziona benissimo, e un Iron Man 2 verrà ricordato sempre per ultimo quando si pensano alle avventure in pellicola di Tony Stark. E in mezzo a tutto questo turbine di blockbuster Jon Favreau si crea la sua piccola nicchia felice: scrive, interpreta e dirige Chef, un feel-good movie adatto a qualsiasi occasione e qualsiasi compagnia, che mescola il suo amore per il cinema alla passione per la cucina, quella vera, quella che fa sorridere le persone, così come la canzone giusta durante i titoli di coda.

Il feeling "felice" con la macchina da presa

Jon Favreau adora anche giocare con l'altro lato della macchina da presa, spaziando come attore su più ruoli, dal piccolo al grande schermo. Per i fan di Friends sarà sempre Pete, uno dei (pochi) storici fidanzati di Monica, genio dell'informatica, miliardario, filantropo... forse non playboy come Tony, ma ci siamo vicini. Peccato non abbia vinto la cintura di campione del mondo di MMA. E che dire del cameo in quel capolavoro assoluto de I Soprano, in cui interpretava sé stesso (prendendosi anche in giro) e tirava fuori a Christopher Moltisanti quel termine così perfetto nella sua oscenità: "pucchiacca". Jon Favreau si è sempre divertito ad apparire sul grande schermo, recitando in ruoli soprattutto minori, ma sempre magnetici per la sua presenza scenica e la sua innata capacità di avvicinare le simpatie del pubblico, pure in un film come Daredevil.

Nerd nell'anima, attratto come un bambino sotto Natale dai supereroi, entra di diritto nel Marvel Cinematic Universe con un ruolo piccolo ma gigante: Happy Hogan. La guardia del corpo tuttofare di Tony si ritaglia il suo spazio al cinema e nel cuore dei fan, soprattutto grazie all'interpretazione scanzonata di Favreau, pronto a ridere di sé per far ridere gli altri, creando un vero e proprio feel-good character che fa sentire a casa ogni Marvel fan. Un ruolo che piace talmente tanto da diventare sempre più presente nella storyline di Iron Man, aumentando il suo minutaggio film dopo film, fino alla vera e propria consacrazione in Far From Home. Nella seconda pellicola dedicata a Spider-Man vediamo un nuovo Happy, più maturo (anche sentimentalmente), mentore non per scelta ma per necessità, papà adottivo e compagno fedele, pronto a tutto per il bene degli altri. E quello sguardo che Jon Favreau ci regala nella scena dentro il jet privato, beh, vale già il prezzo del biglietto per innamorarsi di lui.

Swingers: tutto il Jon Favreau di cui si può avere bisogno

Bisogna tirare le somme, e non esiste film migliore per far capire quanto Favreau ami il cinema, e quanto uno spettatore (cinefilo o no) si possa innamorare di lui. Swingers è un gioiello puro, piccolo e splendente nella sua amatorialità. Diretto da un Doug Liman in stato di grazia, il film è stato scritto da Favreau, che si è ritagliato il suo personaggio (praticamente interpretandosi) e ha concentrato in novanta minuti un amore smisurato per il cinema, fatto di gloria e polvere (soprattutto polvere), di botte sentimentali e di fallimenti lavorativi (il protagonista è un attorucolo che tenta di sfondare a Los Angeles), e di citazioni che fanno saltare un cinefilo di gioia: da Quei bravi ragazzi e il suo splendido piano-sequenza a Mean Streets, passando per una splendida stilettata al cuore di Tarantino (salvo poi dargli cinematograficamente ragione). Jon Favreau è sé stesso, e noi siamo con lui (e un po' siamo proprio lui), dall'inizio alla fine, in un film capace di far diventare frasi cult - come "Vegas, baby!" - e di consegnarci forse il miglior Vince Vaughn mai visto al cinema. O, almeno, il più bello.

Insomma, inutile fare finta: voler bene a Jon Favreau è fisiologico, perché a prescindere dalla questione dell'autorialità, dell'impronta registica e dell'importanza nella storia del cinema, beh, persone come lui fanno bene all'ambiente, perché cadono e si rialzano stringendo forte il bracciolo della poltrona, con quegli occhi grandi, spalancati, mentre la tela bianca prende vita e tutto diventa davvero più bello. Anche solo per novanta minuti.