Joker e la catarsi oscura di Arthur Fleck

Cerchiamo di comprendere come il povero Arthur Fleck, protagonista di Joker, finisca nell'inferno oscuro della sua stessa essenza.

Joker e la catarsi oscura di Arthur Fleck
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In un'America dai cinema blindati, tremante di fronte alla paura di possibili attentati di qualche folle della prima ora, il Joker di Todd Phillips esce finalmente nelle sale in tutta la sua potenza cinematografica e tematica, secondo grande evento dell'anno dopo Avengers: Endgame. Il cinecomic targato DC Films vive in una strana bolla di percettibilità: c'è chi lo teme seriamente, il suo messaggio, la sua apoteosi involontaria e contorta della follia, e c'è anche chi invece leggendone e poi vedendolo riesce a rintracciare nell'impianto tematico e concettuale del progetto un senso posto-ideologico e acritico relativo alla malattia mentale e alle cause immanenti di una rivoluzione sociale.
Questo rende Joker un titolo profondamente fraintendibile più che pericoloso, soprattutto perché il bilanciamento psicologico, tonale ed emotivo della storia e del protagonista è praticamente inesistente: il solo punto di vista è quello di Arthur Fleck. Ha lui il timone della nave e la conduce (e ci conduce) dove vuole arrivare, l'Itaca di un Ulisse urbano e decadente che si concretizza nella piena consapevolezza e coscienza di se stesso.

Se il film gode nella sua totalità di una visione macabro-fiabesca della vita del povero Arthur, analizzandone psiche e comportamenti, soffermandosi su questa figura-ombra esile e maltrattata incapace di contenere il suo malessere, che esplode paradossalmente in fragorose risate di natura neurologica, è a circa mezz'ora dall'inizio che arriva quella che potrebbe essere considerata la scena madre di Joker, il punto di non ritorno, la catarsi oscura del protagonista. [Se non avete visto il film, attenzione a possibili SPOILER]

Accettazione

Quella di Arthur è una vita tragica in senso aristotelico, cioè mimetica, atta all'imitazione attiva della realtà. Le sue emozioni sono profondamente negative e radicate in depressione, schizofrenia e manie, il che non gli permette di percepire la realtà così come percepita da una persona che vive la sua quotidianità in modo sano. Un chiaro esempio, se vogliamo, ci è dato dalla scena del locale di stand-up comedy: Arthur ha un senso distorto dell'ironia e del comico e ride solo ed esclusivamente in momenti di passaggio della battuta, negli attimi che anticipano l'apice e la conclusione.
Per lui è la normalità a essere divertente, perché non la capisce, non la comprende.
I farmaci aiutano a calmarlo, permettendogli di lavorare e tenendo a freno le sue psicosi, a sanare una situazione al limite. Non lo guariscono e non riescono ad addormentare quel dolore che si porta dentro da tutta una vita, eppure attraverso i medicinali Arthur imita un'esistenza normale, mettendo da parte dignità e problemi e cullandosi nel dolce sogno di sfondare come comico.

Le sue giornate sono alienanti, i suoi pensieri venefici, le persone che lo circondano indifferenti: Arthur ha solo sua madre e il lavoro, e quando perde quest'ultimo, dopo l'ennesimo sopruso ed errore, ormai meditabondo di farla finita, lascia andare senza rifletterci quel freno che teneva a bada il suo vero "Io", passando da vittima a carnefice, ribellandosi in un eccesso di rabbia, orgoglio, istinto di sopravvivenza e follia a nuovi calci, al ritorno dei lividi, a chi pensa di poterlo gettare a terra senza subirne le conseguenze.

Non si tratta però di una reazione di legittime difesa, di protezione della propria vita, perché quello di Arthur è un atto di volontaria liberazione, spaventata anche, titubante. La pistola fa comunque fuoco e uccide tre ragazzi (certamente molesti e violenti, ma perché ubriachi): con freddezza, senza nessuna compassione.

Discesa agli inferi

Prende allora sopravvento quel briciolo di ragione rimastagli e scappa, Arthur, fino a nascondersi in un lurido bagno vicino alla zona metropolitana. Il trucco da clown gli cola in faccia e si appoggia frastornato, tremante e affannato alla porta. Phillips gli resta attaccato ed è qui che decide di inserire il primo e più importante momento catartico del film, lo sfogo costruttivo per il protagonista, l'espressione dei suoi tormenti che sembrano premere contro quelle madide e batteriche pareti per insinuarsi prepotentemente in lui.
E Arthur le accoglie e sembrano spezzarlo dentro fino a farlo esplodere, eppure ci sbagliamo: lui è più vivo che mai, più sano che mai. La violenza ha risvegliato il suo "Io subconscio" e il rimorso non trova spazio nella sua mente, che invece lo invita a festeggiare e a scaricare la sua ansia e la sua follia sulle note di una ballata dalla tonalità fiabesche, fatta di archi e sofferenza, estasi, rabbia e paura.
È la magia oscura e nevrotica della brutalità insita nel cuore dell'uomo che trova pace, eleganza e controllo nei movimenti sinuosi, ipnotici e conturbanti di Arthur, che danza per incanalare e interiorizzare le emozioni, emancipandosi rispetto a una personalità finta che non gli appartiene più. Fino a contemplarsi, riconoscersi e accettarsi in un sudicio specchio nel crescendo imbastito da Hildur Guonadottir, nella sua sublime composizione, che attesta l'esistenza ormai insalvabile di Arthur.

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