Ingmar Bergman, una vita dietro la macchina da presa

L'estremo saluto di Everyeye al maestro Ingmar Bergman, dopo una vita passata dal lato più oscuro della macchina da presa.

Ingmar Bergman, una vita dietro la macchina da presa
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Un grande artista

Se oggi si è certi che la poesia può esistere anche su celluloide lo dobbiamo a una manciata di artisti che hanno espresso i loro tormenti interiori, causati quando dal desiderio d'idillici amori quando da tremende paure e nevrosi, attraverso il grande schermo preferendolo, ma talvolta affiancandolo, alla pittura, alla letteratura, al teatro e ad altre forme d'arte che rispetto al giovane cinema erano già ampiamente sperimentate.
Bergman, sebbene sia noto che ritenesse il cinema una forma d'arte nettamente inferiore al teatro, è uno di questi; prova ne è il forte senso di drammaticità che seppe sempre infondere alle proprie opere, impeccabili nell'esprimere il rammarico per la giovinezza, con tutta la sua briosità e fiducia nella vita e negli ideali, perduta, come l'orrore dinanzi alla vecchiaia, preludio di morte colma d'incertezze e null'altro, che incalza sempre inesorabile e inevitabile, in maniera certamente non inferiore a quella dei più grandi poeti di tutti i tempi.
È morto qualche giorno fa e ciò, sebbene la sua ultima pellicola, Fanny e Alexander, sia del 1983, ha portato sconforto e dolore in tutti i suoi ammiratori, soprattutto perché non si vedono ad oggi suoi degni eredi, e la speranza che ci regalasse un'ultima grande perla cinematografica, magari alla luce delle esperienze vissute negli ultimi venti anni, era, nonostante la scarsa possibilità che ciò accadesse, sempre vivissima nei nostri animi.
Per ricordarlo nel modo migliore è parso opportuno offrire una breve critica di alcuni suoi film, prededuta da una concisa biografia/filmografia che ripercorra le tappe fondamentali della sua vita.

Biografia e filmografia essenziale

Ingmar nacque a Uppsala, capitale della Svezia, nel 1918 da Erik Bergman, un pastore luterano dal carattere molto rigido, e Karin Akerblom. Nella dura infanzia gli sono instillati i concetti luterani di "peccato, confessione, punizione, perdono e grazia", temi che si presenteranno in molte delle sue opere; inoltre gli vengono impartite dal padre punizioni corporali o comunque sempre molto dure, quali ad esempio esser rinchiuso dentro uno sgabuzzino, esperienza peraltro descritta in L'ora del Lupo per bocca del protagonista principale Johan.
Diplomatosi, si iscrive all'università di Stoccolma a Storia della Letteratura (la sua tesi di laurea sarà su Strindberg), e qui trascorre un periodo abbastanza inquieto: in ansia per la non florida condizione economica della sua famiglia e per le sempre vive problematiche esistenziali, non s'inserisce al meglio nel nuovo ambiente, studia confusamente, ma approfondendo le materie che gli stanno a cuore. Conclusi gli studi inizia a collaborare ad alcune produzioni teatrali e nel 1944 lavora per la FilmIndustry ad Hets (Spasimo) di Sjoberg.
Intanto si è sposato con Else Fischer (1943) , ballerina ed attrice che è la prima delle sue cinque mogli.
Continua a lavorare nel cinema, anche se con scarso successo di critica e soprattutto di pubblico, dirigendo altri due film, Crisi e Piove sul Nostro Amore, usciti entrambi nel 1946, anno nel quale si trasferisce a Goteborg ove lavora per il principale teatro locale.
Lorens Marmsted, che finanziò già Piove sul Nostro Amore, continua a credere in lui e a finanziare altri suoi film: nascono così La Terra del Desiderio (1947), Musica nel Buio (1947) e Prigione (1949). Nel 1950 consegue un discreto successo con Un'Estate d'Amore e tre anni dopo suscita scandalo nei "puritani" con Monica e il Desiderio, per la conturbanza della protagonista Harriet Anderson, tra l'altro una tra le attrici più presenti nei suoi film. Nel 1953, lavorando nel principale teatro di Malmo conosce Gunnel Lindblom, Max von Sydow, Ingrid Thulin e Bibi Andersson, i quali, molto stimati dal regista, saranno volti ricorrenti nella sua opera.
La sua carriera cinematografica continua nel 1955 tra alti, la commedia Sorrisi di una Notte d'Estate, successo europeo e vincitore a Cannes, e bassi, il poco apprezzato Sogni di Donna; finché nel 1956 dà alla luce il primo tra quelli che vengono considerati i suoi capolavori assoluti: Il Settimo Sigillo, riflessione, ambientata nel Medioevo, sull'incertezza che segue la morte, conseguenza, almeno in parte, della decadenza religiosa che contraddistingue il Ventesimo Secolo.
A Il Settimo Sigillo segue, l'anno successivo, Il Posto delle Fragole, forse la sua migliore pellicola, che alla riflessione sulla morte ne affianca un'altra, sulla giovinezza, per alcuni versi simile a quella del Leopardi, che gli farà vincere l'Orso d'Oro a Berlino; a questo premio segue quello addirittura più significativo dell'Oscar, vinto nel 1961 con Come in uno Specchio, il primo capitolo della contestataria trilogia riguardante la religione.
Continuano i successi, perlomeno di critica con Luci d'Inverno (1962) e Il Silenzio (1963), una delle opere, quest'ultima, che destò più clamore. L'anno successivo, colpito da una grave depressione, scrive il copione di Persona e inizia una relazione con Liv Ullman, che terminerà dieci anni dopo. La carriera di Bergman vivrà nel decennio seguente la sua fase più complicata ed introversa nonché uno dei momenti più fulgidi. Nella seconda parte dei sessanta dirige Persona (1966), L'Ora del Lupo (1968), pellicola davvero sottovalutata, La Vergogna (1968) e Passione (1969), tutti con la presenza di Liv Ullman e Max von Sydow.
Nei '70 inizia il rosseggiante tramonto del regista di Uppsala, che in questo decennio produce pochi film ma di sempre grande qualità: Sussurri e Grida, girato nel '72 sempre con la Ullman, Scene da un Matrimonio, nato come serie TV e poi ridotto in un film di quasi tre ore, L'Immagine allo Specchio (1976) e Sinfonia d'Autunno (1978), pellicola in cui lavora per la prima e unica volta con Ingrid Bergman, ma che sarà bocciata prima dalla critica e poi da lui stesso ( "Un critico francese scrisse con acutezza che Bergman ha fatto un film alla Bergman. È ben formulato, ma seccante. E penso che corrisponda al vero").
Nel 1982 stupisce ed addolora il mondo cinematografico annunciando la propria decisione di lasciare il cinema; prima di andarsene ci consegna però la sua ultima opera, Fanny e Alexander, affresco ritraente Uppsala ad inizio novecento dalla durata di ben 5 ore (3 per la versione cinematografica ridotta).
In seguito continua a fare il regista, ma solo in ambito televisivo, e talvolta scrive sceneggiature; tra i lavori portati a termine dal 1983 ad oggi vanno certamente segnalati, tra i film per la tv, Vanità e Affanni (1997), The Image Maker (2000) e Sarabanda (2003), quest'ultimo il seguito di Scene da un Matrimonio, mentre è obbligatorio menzionare L'Infedele dell'ex moglie Liv Ullman per quanto riguarda l'attività da sceneggiatore.
Il 20 gennaio 2005 vince il premio Federico Fellini, da molti è considerato l'equivalente cinematografico del Nobel. Ieri, 30 luglio 2007, è morto sull'isola di Faro, luogo in cui aveva ambientato il terrorizzante L'Ora del Lupo, all'età di 89 anni. In molti si saranno chiesti se abbia affrontato la fatal fine arresosi alla disperazione in preda all'allucinante incertezza del dopo o se l'abbia fatto con lo sguardo fiero e l'animo intrepido di Jons, lo scudiero di Antonius Bloch nel Settimo sigillo; certo è che, se è vero che il migliore modo per eternarsi è lasciare un imperituro ricordo di sé, Bergman è ancora vivo.

Il Settimo Sigillo

È il 1956 quando Bergman realizza quello che è considerato il suo primo capolavoro, incentrato su uno dei temi che gli sono più cari, il forte ed inesaudito desiderio di credere in un Dio, inteso come qualsiasi entità superiore, che dia almeno una risposta, anche crudele, poiché è l’incertezza che più di tutto ci tormenta, riguardo ciò che sarà dopo la morte.
Il cavaliere Antonius Bloch, spinto a partire come crociato dalla speranza di rafforzare la sua fede in Dio, torna dalla sua Guerra Santa disorientato, sperduto e in bilico tra due opposte visioni del mondo: l’esistenza di Dio (a cui vuole credere fermamente, ma basandosi non solo sulla fede bensì anche su un, seppur piccolissimo, segno ) e il nulla successivo alla vita, teoria che sempre gli propone il suo scudiero, di ciò fermamente convinto.
E quest’ansia di una risposta si esprime molto bene in questo dialogo con la Morte, quasi una riflessione interiore, che il cavaliere tiene nella prima parte del film e che è opportuno trascrivere almeno in parte: "- Non credi che sarebbe meglio morire, perché non smetti di lottare ? - - E' l’ignoto che mi atterrisce ... Che sia impossibile sapere. Ma perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi ? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei aver fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro i quali non sono capaci ne vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso ? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? ... Io vorrei sapere senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza, voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli. - - E il suo silenzio non ti parla ? - - Lo chiamo e lo invoco e se egli non risponde io penso che non esiste ... -."
Bloch, successivamente, incontra una famiglia di saltimbanchi, e nella loro esistenza semplice e spensierata intravede l’unico vivere felice, peraltro da lui stesso praticato fino alla partenza per la Crociata, un decennio prima. E poco dopo perde quasi volutamente la sua partita a scacchi con la Morte per distrarla e permettere ai saltimbanchi di allontanarsi. Questo è il momento più glorioso di tutto il film per il crociato, infatti sebbene abbia perso la partita, se si ammette che l’unica possibile vittoria con la morte sia quella di non temerla, egli qui sembra aver vinto. Ma è una vittoria solo momentanea, infatti poco dopo la Morte farà visita al suo castello a riscuotere la vincita e qui Bloch, terrorizzato dall’incertezza sul futuro, si dispererà mentre si manterrà fiero il suo scudiero che, convinto che nulla verrà dopo, sembrerà ancora una volta non provare alcun timore.

Il Posto delle Fragole

Solo un anno dopo aver toccato vette altissime con Il Settimo Sigillo, Bergman ci regala un altro capolavoro, forse addirittura superando il precedente, avente anch’esso come tema principale la morte, stavolta trattata da un punto di vista completamente differente da quello del Settimo Sigillo. Nell’opera del '56 la morte è vista, addirittura personificata, come preludio ad "altro", e il grande dolore di cui è foriera è proprio dell’ignoranza di quell’ "altro": sicché la questione principale va configurata nella ricerca di un Dio, di un qualcosa di ulteriore, di trascendentale. Completamente differente è la tematica de Il posto delle fragole: in questo caso la morte è interiore e coglie "pur essendo vivi" col passare degli anni portandoci verso "l’indifferenza, l’egoismo, l’incomprensione". Si potrebbe infatti dire che nel film le accezioni dei termini "morte" (dell’animo) e "vecchiaia" siano simili, se non addirittura uguali. Il tutto si svolge durante un viaggio nel quale si avrà occasione di vedere a confronto i tre stadi della vita (gioventù, maturità e vecchiaia), corrispondenti ad altrettanti modi di essere. Isaak Borg, il vecchio e insensibile dottore protagonista, dinanzi a un così ravvicinato confronto non può fare a meno di notare alcuni tratti caratterizzanti delle tre età. Nella giovinezza, e i flashback narranti quella dell’anziano medico che trascorre le vacanze nella sua casa in riva al lago (il posto delle fragole, per l'appunto) sono molti, si è spensierati, altruisti e gentili con il prossimo (non per convenienza o educazione, bensì per pulsione dell’animo), si crede negli ideali e per questi si è pronti a battersi (la scena in cui i due giovani, uno ateo, l’altro fervente cristiano, arrivano a fare a pugni per sostenere l’esistenza o no di Dio è pienamente esplicativa di quetso). Alla giovinezza segue la maturità, rappresentata dalla coppia incontrata nel viaggio e dalla famiglia del figlio del professore: a questo punto della vita il carattere inizia ad inasprirsi, si guarda tutto con disillusione e senza più alcun slancio, ogni bel sentimento è morto; tuttavia si è ancora liberi dalla fredda indifferenza. Quest’ultima invece sarà, insieme con un astio ed un'asprezza di carattere ai limiti della disumanità, l’altro segno della vecchiaia, simboleggiata da Isaak e da sua madre, e nella vecchiaia l’animo è colmo d’un totale silenzio, si è "morti pur essendo vivi" e la punizione per ciò "è la solita ... la solitudine".
Al termine dell’esperienza il professore odia lo stato in cui è, vuole quindi tornare alla liberalità e gioia d’animo che contraddistinguono la gioventù, e per far ciò prova ad intrecciare un rapporto più personale con la sua domestica, che oramai lo serve da ben quarant’anni, e con suo figlio, dal quale adesso non vuol più farsi restituire i soldi che in precedenza gli aveva prestato. Ma è troppo tardi: la domestica continua, nonostante le sue insistenze, a dargli del lei, e il figlio, anche lui arido d’animo, si ostina a non voler accettar nulla dal padre. In questo inferno, che è la "chiara punizione" per una vita egoista, l’unica gioia deriva dalla ricordanza (impossible qui non pensare al poeta di Recanati), che è ricordanza della giovinezza, unica età felice, passata in quel posto delle fragole evocatore della più dolce spensieratezza e dei piccoli affanni giovanili che, ora, appaiono quasi piaceri.

Ingmar Bergman Si è deciso di terminare con una breve analisi di questi due film, incentrati entrambi sul tema della morte, sebbene ne indaghino aspetti molto diversi, lo speciale commemorativo su Ingmar Bergman non perché siano stati giudicati da noi i migliori in assoluto, bensì perché dicono la loro su un argomento che ci è parso il più sentito in questo momento. Con Bergman se ne va un altro di quei grandi registi che iniziarono la loro carriera nella prima metà del ventesimo secolo per proseguirla splendidamente nella seconda, ed inevitabilmente con loro se ne va un certo tipo di cinema, molto simile al miglior teatro, che probabilmente non vedremo più; perché se è vero che la poesia avrà sempre i suoi poeti è anche vero che lirismo come quello romantico non si è più visto. Non resta quindi che riguardare le sue pellicole, e, nel caso ce ne fosse sfuggita qualcuna, procurarcela al più presto.

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