Speciale Il ritorno di Independence Day

Lo rivediamo sempre con piacere quando passa in tv, ma ora il cult di Roland Emmerich sta per tornare al cinema con due sequel nuovi di zecca: vediamo quali sono le premesse e le aspettative.

Speciale Il ritorno di Independence Day
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Grande successo al botteghino all'epoca della sua uscita, "americanata" per alcuni ma Cult per tanti altri, Independence Day è sicuramente uno dei più iconici, rappresentativi e indimenticabili blockbuster degli anni ‘90. A distanza di vent'anni, in un'era di remake, reboot e franchise, sta per avere ben due sequel. Eppure, il film simbolo del trionfalismo made in USA, uno dei più grandi successi al botteghino del suo tempo, se fosse confezionato oggi sarebbe forse un colossale flop. Affinché i due sequel funzionino e aggancino vecchi fan e nuovo pubblico, occorre considerare sia i motivi che decretarono il successo del primo film sia i fattori che lo rendono, oggi, superato.
Oltre a una mirabile fattura, il trionfo di pubblico del '96 si deve a tre cause principali. Scopriamole insieme in questo speciale che vuole scavare alle radici di una storia che è ben più di quello che appare in superficie...

Il Giorno dell'Indipendenza

In primo luogo, Independence Day è un atto di gratitudine. E' proprio un regista straniero emigrato a Hollywood a regalare agli Stati Uniti uno dei film più patriottici di sempre. Fresco del successo di Stargate, e con un budget mai avuto prima, Roland Emmerich ha dato vita a ciò che i limiti di spesa gli avevano sempre impedito: una grande epopea, uno spettacolo pirotecnico nel quale incasellare un grande gioco di emozioni umane, un incrocio di storie sullo sfondo della possibile fine di tutto, un riscatto sociale globale catalizzato dai valori a stelle e strisce.
In secondo luogo, Independence Day è figlio del suo tempo. Storico, socio-economico e inevitabilmente culturale. L'America del film è figlia dell'eredità di Reagan e dell'attualità di Clinton. E' un Paese che è il leader indiscusso del pianeta, il simulacro del mondo unipolare, non più poliziotto del globo ma golden boy che ha sbaragliato tutto e tutti ponendo se stesso come modello di riferimento post-ideologico. La liberaldemocrazia a stelle e strisce è la fine della Storia, e il presidente Whitmore è l'ultimo uomo. Bill Pullman è il leader che abbraccia il mondo, che striglia la nazione ad uno scatto di orgoglio e che festeggia il 4 luglio come una rinnovata occasione di riprendersi ciò che è proprio di diritto. E' lui, in tempi non sospetti, Capitan America: pronto a dare speranza a una nazione in ginocchio, a tentare una mediazione col nemico, e a rispondere con forza esponendosi in prima persona montando su un caccia bombardiere da buon comandante in capo.

In terzo luogo la salvezza arriva, rigorosamente ad un passo dal baratro, da un lavoro di squadra che è una rappresentazione dell'armonia nazionale. A trovare una soluzione è un nerd di prim'ordine. Quel Jeff Goldblum che nei panni di Ian Malcolm teorizzava la fine del Jurassic Park è rivisitato in chiave costruttiva: scoprirà sia il problema che la tanto agognata soluzione. A renderla possibile è invece un soldato solitario, audace e senza paura. E a salvare il mondo è invece l'uomo della strada, che sacrifica se stesso sull'altare della rettitudine, immolando la sua scriteriata vita per il bene della sua famiglia e, per estensione, di tutti noi. Dal Vangelo a Independence Day, la salvezza collettiva dal sacrificio di un uomo regala al mondo una catarsi salvifica che ci concede, finalmente, una seconda occasione. E anche l'America è, in sostanza, una fede.
Il presidente, lo scienziato, il soldato, l'uomo della strada. E' il quartetto che plasma il mondo della supremazia made in Usa: la guida illuminata, il cervellone, l'eroe e il buon cittadino. Non è solo una squadra vincente, ma è il format al quale, secondo gli States, l'intero mondo dovrebbe aspirare per raggiungere quella felicità che nella costituzione americana è un diritto di ogni rappresentante del suo popolo eletto. Dopo vent'anni le cose sono molto cambiate. Gli studios e i colletti bianchi della nuova Hollywood degli MBA fanno molta più attenzione a proporre il genere di retorica di cui Independence Day era intriso. Anche in questo caso, le ragioni sono tre:
In primo luogo, gli Stati Uniti non sono più soli. E non parliamo di minacce aliene, ma di un mondo multipolare dalla coperta stretta, nel quale per primeggiare occorre sgomitare con un coacervo di superpotenze. Molte di queste, inoltre, sono diventate mercati grandi ed appetibili: pronti a far lievitare gli incassi o, all'occorrenza, a salvare i film in caso di accoglienza fredda in patria. La retorica della nazione eletta ha progressivamente ceduto il posto ad un cosmopolitismo compassionevole e politicamente corretto. Piace al pubblico e fa bene al botteghino.

In secondo luogo, l'impossibile è diventato possibile. Gli americani hanno subito una seconda Pearl Harbor nel cuore del loro territorio, visto un Presidente di guerra perdere sul campo contro un nemico non identificato, emergere altre superpotenze economiche, demografiche e militari, conosciuto la disoccupazione a due cifre, spazzato via la fiducia di un'era con un nuovo '29, affrontato una crisi finanziaria e scoperto di essere stati più temuti che amati, anche da molti amici storici. Un quadro che nel 1996 non era pensabile neanche in potenza nei toni trionfalistici della Hollywood post guerra fredda. La riuscitissima campagna di marketing di Independence Day mostrava, non a caso, i simboli dell'America distrutti sotto l'attacco nemico. Ed era, per l'appunto, un film di fantascienza. Ciò che sarebbe accaduto nel 2001 non era neanche sospettabile nella coscienza collettiva. Vedere davvero i simboli di un Paese collassare nel cuore del centro finanziario del globo, portandosi via migliaia di vite nell'incredulità generale, ha fatto conoscere ad un'intera nazione un'opzione mai contemplata prima: l'essere possibilisti. Le bare dei soldati morti in una guerra iniziata con una scusa inattendibile hanno fatto il resto.
In terzo luogo, non è cambiata solo l'America, ma lo sono anche gli americani. E, di conseguenza, i gusti del pubblico. Gli statunitensi hanno sperimentato, e spesso accettato, una limitazione della loro libertà in nome della sicurezza; il paese portabandiera del capitalismo ha salvato Wall Street attraverso una massiccia iniezione di denaro pubblico; la nazione del Piano Marshall ha venduto parte del suo enorme debito pubblico alle banche cinesi; la patria degli Yuppies ha visto i dirigenti della sua più iconica banca liberare i loro uffici con ingombranti scatoloni; la terra delle opportunità ha visto file di disoccupati davanti ai centri per l'impiego di New York. Eppure, nello stesso ventennio in cui è accaduto l'impossibile, un afroamericano è alla Casa Bianca, una donna corre per la presidenza, una coppia omosessuale può sposarsi anche in Alabama, e una nuova generazione di nerd ha cambiato i rapporti sociali su scala globale. Il Mac, attraverso il quale nel film passava il salvifico virus che rendeva vulnerabili i nostri nemici, da oggetto di nicchia è divenuto la nuova Coca Cola, lo status symbol di un paese che si fregia del suo pensiero che da differente si fa dominante.
Il ventennio post Independence Day ci consegna un mondo più mutato di quanto il ‘96 non lo fosse rispetto al dopoguerra. Pochi anni dopo la fine dell'URSS, solo una razza aliena poteva sfidare il mondo e il suo angelo custode. Passano due decenni e i nuovi nemici non sono più Paesi, non hanno necessariamente un nome e un cognome, né una sede legale, né dei costosi biglietti da visita. Le stesse sigle con cui cerchiamo di identificarli sfuggono tanto a chi li impersona che a chi tenta di interpretarli.
Il nemico è un brand, e come tutti i brand è innanzitutto un'idea di se stesso. Le nuove frontiere del terrorismo internazionale, dello spionaggio globale, della sensibilità dei dati, del controllo capillare delle nostre vite ed abitudini non sono più fattori bidimensionali incasellabili in una sceneggiatura anni novanta. Se ne sono accorti gli autori di Jurassic World, che nel riesumare un mostro sacro di quel decennio hanno sapientemente ammesso, per bocca della protagonista, che "i ragazzi guardano oggi i dinosauri come se fossero elefanti". Similmente, c'è da pensare che guardino gli alieni come se fossero terroristi. Provenire da altri mondi non è più cool come una volta, e non essere di questo pianeta non è più sufficiente a stuzzicare la fantasia dello spettatore medio. Quello che serve è il "fattore wow", l'elemento super, il colpo di scena permanente imposto dagli standard della serialità televisiva. E come per i nuovi dinosauri ibridi, i sequel di Independence Day hanno la possibilità di fare perno su due piani: l'effetto nostalgia, leggasi colonna sonora e vecchie glorie del cast, e il fattore wow, leggasi novità nel reparto alieni. Chi salverà il mondo stavolta? La formula del quartetto magico non si può limitare a ripetersi. Non solo perché il mondo è cambiato, ma anche perché il pubblico non è più uguale a se stesso. Il dubbio è che la soluzione possa non venire più (soltanto) dagli Stati Uniti, ma da un elemento che travalichi i confini nazionali in nome di un globalismo dal volto umano, magari con la faccia pulita e il cuore geek della meglio gioventù.
La realtà dei sequel di Independence Day sarà un mondo che, dopo la prima grande invasione e la distruzione generale, si è evoluto in maniera diversa, recuperando parte della tecnologia aliena e creando un sistema di protezione globale grazie agli sforzi delle varie nazioni. Gli invasori, ovviamente, torneranno più cattivi che mai. Nel primo film, al loro arrivo, mettevano in crisi i nostri sistemi di comunicazione per evitare che potessimo coordinarci in vista dell'attacco. La soluzione, quasi un rimedio della nonna, era rispolverare il vecchio codice morse. Non è un caso che, per sedare una rivolta, qualunque dittatura che si rispetti si preoccupi tanto di oscurare Twitter quanto di avere un esercito ancora leale. Che soluzione troveremmo oggi se internet andasse in crash?

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