Il Gigante d'Argilla, il canto del cigno di Humphrey Bogart

Compie 65 anni un grande film sulla boxe, ispirato all'epopea di Primo Carnera: l'ultimo grande ruolo del divo americano.

Il Gigante d'Argilla, il canto del cigno di Humphrey Bogart
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Era il 16 maggio del 1956 quando veniva rilasciato in wide release Il Gigante d'Argilla di Mark Robson, con un cast che comprendeva divi del calibro di Humphrey Bogart e Rod Steiger, a oggi uno dei più belli e dimenticati film sul pugilato.
Erano anni in cui la nobile arte era tornata a essere il grande rito di massa per un incredibile numero di spettatori, grazie a pugili le cui gesta sono vive e ricordate come quelle di alcuni tra i più grandi protagonisti del ring di sempre. Era l'epoca del mitico Rocky Marciano, di Sugar Ray Robinson, Jake LaMotta, Willie Pep, Carmen Basilio, Ezzard Charles o Cleveland Williams.
La boxe era l'attività più seguita del mondo a quel tempo, di certo era lo sport americano per eccellenza, anche più del baseball o del football, in virtù di un'inclusività che sul ring azzerava i confini presenti nella società.
Neri, bianchi, nativi, cubani, latinos, europei... tutti erano uguali, tutti erano seguiti e tutti cercavano di diventare i migliori. In tale panorama, il film di Robson arrivò a sferzare il mito dei Re del ring, ricordò a tutti il volto oscuro dietro uno sport violentissimo e ingrato.

L'ultimo grande film di "Bogey"

Protagonista del film era un magnetico e dolente Humphrey Bogart, nei panni del disilluso e malconcio ex cronista sportivo Eddie Willis, che rimasto senza lavoro finiva per farsi coinvolgere da un oscuro manager sportivo di nome Nick Benko (Rod Steiger) per favorire l'ascesa del roccioso pugile argentino Toro Moreno (Mike Lane).
Naturalmente Willis avrebbe scoperto che era molto meno cinico e spietato di quanto credesse, soprattutto di fronte ai pericoli e ai danni a cui sarebbe andato incontro Moreno, uomo dalla colossale forza fisica ma ben poco dotato di tecnica e soprattutto della spietatezza che sul ring faceva la differenza.
Deluso e irato, avrebbe aiutato il ragazzo a tornarsene in Argentina, a dispetto delle minacce di Benko, riabbracciando con ancor maggior passione la carriera di giornalista.
Film diretto magnificamente, valorizzato da una fotografia di Burnett Guffey che fece epoca, Il Colosso d'Argilla fu l'ultimo film girato da Bogart, che già sul set cominciò a mostrare i primi sintomi di quel tumore all'esofago che lo avrebbe strappato alla sua vita terrena solo l'anno dopo.
Tuttavia, a dispetto delle precarie condizioni di salute, fu capace come sempre di usare il suo grande carisma per dipingere un personaggio soprattutto passivo nell'iter narrativo delineato da Philip Yordan, che si era basato sull'omonimo romanzo di Budd Schulberg.
In tutto e per tutto, il romanzo era connesso a un uomo che ancora oggi è vivo nei ricordi del popolo italiano e soprattutto degli amanti della nobile arte: Primo Carnera, la Montagna che Cammina.

Il pugile di Sequals usato dalla mafia

Carnera, nato a Sequals, era stato uno dei primi, veri, titani della boxe dei Pesi Massimi, in un'epoca in cui esseri alti 185 cm era considerato davvero significativo, lui si presentò forte di ben 198 cm per più di 105 kg di peso: una sorta di carro armato.
Come il protagonista del film (interpretato da l'ex wrestler Mike Lane) Carnera era un uomo mite e generoso, per nulla aggressivo o imprevedibile. Era venuto su dal circo, dove si esibiva come lottatore, sfuggendo così alla miseria.
Notato dall'ex pugile francese Journeé, Carnera fu convinto ad abbracciare la nobile arte, incontrando il manager Leon See, che lo guidò verso diversi incontri in giro per l'Europa.
Diventato in breve un simbolo della propaganda fascista, Carnera fu portato ne La Mecca della boxe: gli Stati Uniti. Qui finì senza accorgersene sotto il controllo di uno dei più feroci gangster dell'epoca: Owney Madden, che proprio come il Nick Benko de Il Gigante d'Argilla lo guidò verso numerose vittorie contro una marea di pugili prezzolati o ben poco consistenti.
Carnera, come il Toro Moreno del film, era un combattente non particolarmente tecnico ma dotato di coraggio, orgoglio ed enorme forza fisica. Per quanto condizionato da fortune alterne, il suo percorso di pugile lo vide infine diventare Campione del Mondo nel giugno del 1933.
Diventato il simbolo del fascismo nel mondo, Carnera avrebbe perso il titolo l'anno dopo, contro il pugile americano Max Baer, il villain di Cinderella Man di Ron Howard.
E ne Il Gigante d'Argilla, a interpretare Buddy Brannen, il Campione contro cui veniva messo Toro Moreno, c'era proprio lui, Max Baer, l'uomo che sottopose uno sfortunato Carnera (slogatosi la caviglia già nel primo round) a un autentico supplizio.

Un film troppo anti-americano per il grande pubblico

Baer non era l'unico "big" della boxe presente nel film. Nel cast infatti vi era anche uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, uno dei primi divi afroamericani del pugilato: Jersey Jay Walcott. Insomma, Il Gigante d'Argilla era un film che aveva una grande coerenza.
I fan e gli aficionados del generoso Carnera già all'epoca si infuriarono per i chiari riferimenti alle voci e accuse che ancora oggi vedono il pugile italiano ritratto come una sorta di "White Hope" spremuta dalla mafia.
In realtà, quasi tutti i pugili dovevano soggiacere ai comandi dei boss mafiosi, dare gran parte delle loro borse, perdere incontri a comando. Carnera però combatté contro avversari come Sharkey, Joe Louis, Uzcudun, Levinsky, Young Stribling, Gains, dando sempre prova di coraggio e umiltà.

Se si considera che poi era anche affetto da acromegalia (comunemente detta gigantismo) e che mai ebbe allenatori all'altezza, non si può che vederlo nel ruolo di vittima, una delle tante generate da un ambiente che questo film descrisse in modo molto diverso dall'epica di Rocky Balboa, per certi versi anticipando quel dramma esistenziale che poi Scorsese avrebbe reso mito in Toro Scatenato.
Il Gigante d'Argilla anche per questo fu oggetto di una causa per diffamazione da parte di Carnera, che però non andò a buon fine. Di certo, non si può negare che fosse stato un film duro, crudo, spietato e in totale antitesi all'epica americana, alla retorica dell'eroe sportivo venuto dal niente che conquistava il mondo.
Forse per questo il film fu messo nel dimenticatoio da molti, a dispetto dell'incredibile chimica tra Bogart e Steiner, dei dialoghi mai banali e del finale pieno di dignità: era troppo anti-americano, troppo reale per essere accettato da un popolo che ha sempre mitizzato le proprie bugie sul grande schermo.

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