Il Cliff Booth di Brad Pitt in C'era una volta a Hollywood

Amico, galoppino, muscolare e di grande fascino: lo stuntman ideato da Tarantino e interpretato da Pitt è uno dei suoi personaggi più sexy e complicati.

Il Cliff Booth di Brad Pitt in C'era una volta a Hollywood
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Torniamo a parlare dello splendido C'era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, questa volta soffermandoci sulla figura di Cliff Booth, lo stuntman controfigura del Rick Dalton di Leonardo DiCaprio interpretato da un incisivo e memorabile Brad Pitt. Insieme all'attore in costante fase decadente e a Sharon Tate (Margot Robbie), diva in ascesa in una Hollywood fatata, Booth è uno dei tre protagonisti del nono film dell'autore, un veicolo che serve a Tarantino per soffermarsi soprattutto sulla vita reale.
Non quella delle star raccontate nell'opera, che filtrano comunque il mondo attraverso una visione edulcorata dal disagio economico, ma quella di uomo sostanzialmente comune che ha però "la fortuna" di muoversi e lavorare nel mondo del cinema, scoprendo comunque quanto anche al di fuori di un set la semplice quotidianità - fare un giro in macchina, riparare un'antenna - possa riservare più sorprese della finzione filmica.

Nella sua volontà esplorativa e artistica, così, il regista sceglie di contrapporre alla recitazione di Dalton (che è la mente) la fisicità dell'atto di Booth (che è il braccio), costruendo con questi due personaggi gli estremi di un solo corpo, quello cinematografico. Se con Rick sceglie però di addentrarsi nei meandri della simulazione scenica e interpretativa, portandoci all'interno della lavorazione di una scena, nella dissimulazione propria della rappresentazione filmica, con Cliff tenta la strada più complessa e narrativamente articolata, perché nasconde l'intento di sovrapporre cinema e realtà, inganno e verità, ancora prima di sovvertire il fatto storico in un superlativo finale tarato sul sublime eccesso tarantiniano.
[ATTENZIONE, SPOILER A SEGUIRE]

Strumento di vendetta

Tarantino sceglie ancora una volta la storia come terreno dove piantare il seme di un'idea: quella di riscriverla, la storia. Lo aveva già fatto con Bastardi senza Gloria e Django Unchained, vendicandosi in una sorta di meravigliosa giustizia poetica prima contro i nazisti e poi contro gli schiavisti, e con C'era una volta a Hollywood non è da meno: il suo intento dichiarato è quello di mettere in scena una rivalsa del bene sul male, restando attivamente in equilibrio sulla linea sottile che li separa, non rendendo mai i suoi personaggi dei buoni o dei cattivi a tutto tondo. Pesca nelle sfumature, Tarantino, e da lì comincia a dare senso e costrutto al carattere dei suoi personaggi, alcuni con fini nobili e intenzioni brutali, altri con fini brutali ma nobili intenzioni.
Il suo nono film rispecchia nuovamente questa volontà artistica e autoriale, cambiando però il modus cinematografico e narrativo con cui il regista impalca questa rivincita storica, dedicata nello specifico agli Omicidi della Manson Family. Su tutto, Tarantino sceglie praticamente di accennare appena a Charles Manson (una sola scena) e di parodiare l'intero discorso della Comune, tra droghe, sesso e l'Helter Skelter, su di un piano ideologico davvero povero di intelletto, frutto della mente di alcuni ragazzi che potrebbero (come no) aver frainteso le intenzioni del loro leader, decidendo comunque di mettere in atto un piano contorto attraverso cui sfogare la loro violenza repressa.

A differenza dei fatti realmente accaduti però, all'apice del loro entusiasmo e nel mentre dell'azione si ritrovano davanti prima Rick Dalton, che li caccia via brutalmente in un acceso sfogo contro gli Hippie, e poi - in particolare - il nostro Cliff Booth, che sostituisce nella sua sola figura Rick, Sharon Tate e tutto lo star system hollywoodiano che si è sentito in pericolo in quella notte del 1969, portando finalmente in scena il pesante e violentissimo regolamento di conti che solo il cinema poteva ormai regalare. Per Tarantino non c'è volontà di cambiare la storia o dimostrare la potenza immanente della settima arte, che per lui "non può cambiare la realtà", perché il solo intento lirico e romantico è quello di sovvertire con fare ucronistico un evento che ha segnato un'epoca, divertendosi nel mentre a mischiare generi, finzione e verità.

Un Cliff per domarli tutti

Il personaggio di Booth resta fondamentale perché nasconde proprio questo gioco: uno stuntman che vive praticamente come un hippie; forse assassino o forse santo; galoppino o amico; fallito o messo all'angolo dal settore. Ha in sé innumerevoli contraddizioni con cui l'autore si è molto divertito a giocare, inserendo con astuzia Cliff nel palcoscenico del quotidiano, tirandolo fuori dai set di Hollywood (eccetto per un lungo e fantastico flashback) perché quello, in definitiva, per lui è solo lavoro e non passione o vocazione. Si barcamena all'ombra di Rick senza troppe pretese, tirando su qualche soldo e approfittando (senza doppi fini, in modo candido e dichiarato) della posizione e delle opportunità che possono arrivare grazie alla sua somiglianza con l'attore e alla lunga collaborazione avuta in passato in Bounty Law.
Brad Pitt è davvero al suo meglio nella parte, decisamente più trattenuto rispetto all'esuberante ed entusiasta Aldo Raine di Bastardi senza Gloria ma ugualmente divertito e cosciente del grande ruolo che interpreta, cucitogli praticamente addosso da Tarantino, pensato solo ed esclusivamente per lui. È in scena con molti silenzi e passaggi fisici, Pitt, ed è lui che il regista sceglie come mezzo di confronto con la Manson Family, dandoci prima l'idea di essere interessato alla seducente ed eccentrica Pussy Cat (Margaret Qualley), per poi scoprirsi uomo tutto d'un pezzo, forse il santo che pensavamo e non l'uxoricida che viene costantemente scansato dai set hollywoodiani.

Nella lunga e cinematograficamente ben punteggiata sequenza allo Spahn Ranch, dove Tarantino regala al pubblico un passaggio teso e quasi inquietante quanto un horror psicologico (ci mette anche la musica per dare quell'atmosfera), il regista comincia a far cadere le maschere di Cliff, che si rivela persona interessata e curiosa ma solo e soltanto nei limiti del sicuro, violento quando serve, nervoso mai.

Vive in una roulotte, in condizioni non del tutto ottimali, perché non gli servono sfarzi o eccessi per stare bene ma solo una televisione, del cibo, la sua Brandy e un po' di pace. Non strilla o impreca dietro agli hippie come Rick non perché si avvicini al loro stile di vita, ma perché non gli interessano e sa perfettamente quanto non sia da ricercare in loro la decadenza dei costumi hollywoodiani.

Allo stesso modo, tirando via una sfumatura dopo l'altra la costruzione a strati di Cliff, il regista tenta di rendere più chiara la tridimensionalità del personaggio, che alla fine viene riconosciuto proprio da Rick come "un buon amico" e non galoppino o aiutante, e certamente il suo secondo incontro con Tex e le ragazze della Manson Family, a casa di Dalton per "compiere l'opera del diavolo o una ca***ta del genere" - dice Booth - lo allontanano sensibilmente da quelle assurdità. E mentre l'amico Rick sale infine nel paradiso delle star, a casa della Tate, per lui c'è come sempre l'inferno della vita reale ad attenderlo, in un viaggio in ambulanza completamente strafatto di acidi.

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