Il cinema italiano e i millennials: perché raccontare i giovani è difficile

Il mondo giovanile, soprattutto negli ultimi anni, non è stato sviscerato in maniera ottimale dal nostro cinema. Perché?

Il cinema italiano e i millennials: perché raccontare i giovani è difficile
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In questo articolo ci concentreremo sui millennials, specialmente della generazione anni '90, spesso lasciata nel dimenticatoio per il fatto di essere una via mediana tra il mondo delle persone di mezza età e i nativi digitali, troppo giovani per essere presi davvero sul serio dal nostro sistema-Paese ma al tempo stesso considerati troppo vecchi per interagire in maniera ottimale con la generazione immediatamente successiva.
Nel corso degli ultimi anni, comunque, il nostro cinema non è più riuscito a raccontare il presente in maniera esaustiva, andando talvolta a mitizzare - ma purtroppo anche a ignorare sistematicamente - l'intero contesto giovanile nato agli inizi degli anni '90, dimenticando di fatto la stessa crisi economica del 2008-2010, che proprio gli under 30 di oggi hanno vissuto sulla loro pelle nella quasi totale indifferenza generale. Ma quali sono i motivi alla base di una scelta tanto drastica?

La generazione fantasma

Il primo, semplicissimo concetto per capire le ragioni che hanno portato il nostro cinema a intraprendere una scelta così tassativa nel non trattare determinate questioni etiche, morali e socioculturali in maniera netta risponde a poche semplici parole: analizzare il presente senza filtri né censure è difficilissimo quanto talvolta destabilizzante.
Proprio per questo, come già ampiamente sviscerato nello speciale dedicato alla fantascienza sociologica, numerosi creativi hanno usato la cornice del futuro per trattare i problemi del presente, cercando in qualche modo di bypassare il più possibile numerosi problemi tra cui quello della censura.
Il fulcro del dibattito però deve andare a ricercarsi da altre parti, cioè nella disamina del presente semplicemente non attuata dal nostro cinema.
Toccare determinati temi spinosi, come quello della già citata crisi economica del 2008 in rapporto al mondo giovanile che l'ha vissuta in pieno (rimanendone di fatto travolto), risulta fin da subito capace di farci comprendere la complessità degli argomenti trattati, soprattutto se gestiti in chiave seriosa.
Seppur infatti il nostro cinema abbia tentato di toccare alcune tematiche come la fuga di cervelli o il precariato attraverso la satira e la commedia tramite alcune opere molto riuscite e altre un po' meno, è prima di tutto doveroso constatare quanto, a livello di concept, trattare un qualcosa del genere in chiave profondamente drammatica e reale possa risultare non molto appetibile per una qualsiasi casa di produzione.

Nello specifico, se qualcuno volesse oggi cimentarsi in un racconto neorealista del presente, con magari un protagonista nato negli anni '90, dovrebbe tenere in conto gli enormi danni strutturali causati dalla suddetta crisi economica che, di fatto, ha annientato la possibilità di un'intera generazione di costruirsi un futuro quantomeno vivibile.
L'assenza di una vera e propria voce rappresentativa di carattere politico, culturale, morale, capace di andare a toccare davvero i problemi della generazione degli under 30 odierni, su tutti la desertificazione legata al mercato del lavoro, ha portato a un silenzioso quanto apocalittico disastro su praticamente ogni fronte sociale.
La generazione anni '90 è così stata costretta a provare con ogni modo possibile a reinventarsi per trovare il proprio posto nel mondo, sola contro tutto e tutti, semplicemente abbandonata da una società fortementente gerontocratica che ha visto nei giovani il nemico da sconfiggere e non l'alleato da supportare.

Il mondo giovanile ha dovuto così tentare di sopravvivere in una società ipercompetitiva spesso incapace di valorizzare tutta una serie di competenze specifiche così come di persone altamente qualificate nei loro campi di studio, costrette in molti casi a dirigersi in fretta e furia all'estero nella speranza di costruirsi un futuro che nel nostro Paese, purtroppo, è stato negato.
Se ci pensiamo, questo è uno scenario molto difficile da mostrare attraverso un contesto reale ma, forse, doveroso da trattare anche con il mezzo espressivo del cinema, provando a mettere in luce, non per forza tramite un registro comico, solare e scanzonato ma anche realistico, tragico e brutale, la semplice realtà dei fatti, presente in Italia da più di dieci anni e non da pochi mesi.

Va tutto bene

Vista la difficoltà nel trattare determinati temi assolutamente spinosi, difficili e molto stratificati, non solo in ambito cinematografico ma in praticamente qualsiasi contesto multimediale, per forza di cose la narrazione di alcune problematiche è stata in qualche modo edulcorata, cancellata, ignorata, provando a vendere al pubblico un mondo giovanile cristallizzato nel tempo, idealizzato anche in maniera stucchevole, capace di esistere solo quando si parla di dinamiche sentimentali (di matrice adolescenziale) o di argomenti analoghi esageratamente scontati.
Da questo punto di vista, Sotto il sole di Riccione, film del 2020 diretto da Younuts! su soggetto di Enrico Vanzina, nonostante un comparto tecnico in realtà soddisfacente, risulta una storia giovanile esageratamente legata all'abusato tema dell'amore adolescenziale.
Il problema non risiede nello specifico genere, indirizzato a una fascia di pubblico che magari potrebbe trovarlo anche interessante, quanto al modus operandi di molte delle produzioni nostrane nel voler ritrarre il mondo giovanile (anni '90 ma anche 2000) allo stesso identico modo stereotipato, eliminando sistematicamente dal calderone qualsiasi cosa sia successa dall'inizio del terzo millennio in poi, presentandoci una serie di personaggi tutti uguali immersi in una realtà alternativa dove il precariato non esiste.

Lo stesso Fuga di cervelli di Paolo Ruffini, film uscito nel 2013, si è rivelato in realtà un'immensa occasione sprecata, dando vita a un'opera ancora una volta vittima dei soliti cliché oltretutto senza neanche una dimensione comica/satirica sapientemente sfruttata.
Precariato che invece l'illuminato Sydney Sibilia ha deciso di mettere sotto i riflettori attraverso una trilogia, quella di Smetto quando voglio, ben scritta e girata, capace talvolta di sorprendere lo spettatore anche con tocchi action amalgamati alle vicende principali.
L'opera risulta ben realizzata anche per il modo in cui lo stesso mondo dei giovani (o forse dei diversamente vecchi) è stato trattato, mostrando tutta una serie di brillanti ricercatori universitari e accademici costretti a trasformarsi in spacciatori di smart drugs per cercare di arrivare a fine mese.
Numerose le sequenze spassose ma al tempo stesso capaci di fare riflettere su determinati aspetti legati al contesto lavorativo tutt'altro che esaltanti, come nella scena in cui vediamo l'antropologo Andrea De Sanctis fare un colloquio per farsi assumere in uno sfasciacarrozze cercando in tutti i modi di non far capire al potenziale datore di lavoro di essere laureato, in realtà una vera e propria nota d'infamia e non di merito.

Eppure, nonostante esempi anche virtuosi, l'impressione generale è quella che il nostro cinema abbia, almeno fino a questo momento, provato sistematicamente a ignorare anche solo la possibilità di dare voce alla generazione anni '90.
Le problematiche socioculturali a essa collegate servono da sfondo per parlare poi di un qualche altro tipo di vicenda, ma bisognerebbe puntare anche sul dramma, sulle ingiustizie sociali, sullo svilimento degli individui e sul fatto che troppo spesso il mondo giovanile risulta semplicemente un agglomerato di individui incapaci di ragionare, di produrre, di creare, di vivere se non in funzione del disimpegno, del futile, del giubilo.

Il nostro cinema, in primis, dovrebbe quindi provare a fare un immenso sforzo per uscire dalla retorica del racconto giovanile improntato sul mood dell'andrà tutto bene (perché le cose in realtà sono andate malissimo per tutti da parecchi anni), mettendo per un attimo da parte l'immagine stereotipata e patinata che continuiamo a vedere da troppo tempo per tentare di calcare la mano (anche talvolta in modo brutale) sulla semplice attualità, tutt'altro che idilliaca.

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