Il cinema di Guillermo del Toro: come si diventa geni visionari?

Con La Forma dell'Acqua torna finalmente in sala l'immaginario fantastico e poetico del regista messicano candidato all'Oscar.

Il cinema di Guillermo del Toro: come si diventa geni visionari?
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Forse c'era davvero bisogno di Venezia e del clamoroso Leone d'oro assegnato a La Forma dell'Acqua - The Shape of Water perché il genio debordante di un autore troppo spesso relegato alla sola nicchia del cinema di genere come Guillermo del Toro trovasse, finalmente, la sua definitiva consacrazione. Un genio poco incline a qualsiasi etichetta, del tutto imprevedibile, capace di fare delle proprie ossessioni ai limiti del feticismo virtù, mischiando, nel suo immaginario eclettico e stratificato, creature orribili e antropomorfe a suggestioni steampunk, coniugando inoltre nuove, incredibili mitologie alla fascinazione per un mostruoso estremamente permeabile al tempo e alla storia. Con l'ultimo esempio di questo cinema denso e suggestivo, riscopriamo il senso stesso di una poetica - tra letteratura gotica e b-movies, fumetti e romanticismo - pronta a tornare con tutta la forza e l'empatia dei suoi incubi ricorrenti, portando con sé il segreto di un talento unico e visionario.

Tra realismo magico e cinema di genere

In fondo, è il senso di un fantastico legato a doppio filo con il reale e con il proprio tempo, l'essenza stessa del cinema di Guillermo del Toro. Un realismo magico dove il sovrannaturale irrompe senza preavviso nella quotidianità del racconto, colorando ora coi toni della favola, ora con quelli dell'orrore mondi destinati a non essere più gli stessi. In questi termini Cronos (1993) - primo lungo dell'allora ventinovenne regista messicano e punto di arrivo di una breve carriera fatta di cortometraggi e di esperienze come disegnatore di make up - è senz'altro il principio di un'ossessione e, insieme, la prova generale di un universo di senso che diverrà, mano a mano, sempre più elaborato, curato e rigoroso. Sarà proprio questa storia macabra messicana di immortalità e dannazione, infatti, ad aprire al regista, quattro anni dopo, le porte di Hollywood e a impegnarlo con un film che gli permetterà di dare libero sfogo a tutta la sua passione per l'horror di serie b e per un bestiario destinato a influenzarne l'estetica e l'immaginario a venire. Mimic, con Mira Sorvino e Giancarlo Giannini, non sarà solo la prima, grande produzione del giovane regista emergente, anche il primo, lampante esempio del suo essere eclettico, di quella capacità di padroneggiare generi e toni differenti che gli sarà congeniale soprattutto nei grandi blockbuster statunitensi cui si dedicherà lungo tutto il corso del decennio, da Blade II al dittico di Hellboy, fino alle recenti, anomale ed eccessive derive sci-fi di Pacific Rim.

Un incubo a misura di bambino

Eppure il cinema di del Toro nei primi anni duemila non è fatto soltanto di rutilanti e adrenalinici action dalle sfumature fantasy, horror o fantascientifiche. Senza grandi produzioni alle spalle né effetti speciali mirabolanti a disposizione è infatti La spina del diavolo - anomala ghost story ambientata nella Spagna della Guerra Civile - a rappresentare appieno uno dei punti più alti nella carriera del regista, che porta così avanti temi e motivi (dal senso di un orrore non convenzionale alla dialettica tra diversi livelli di realtà, passando per la fotografia calda, ambrata e inconfondibile di Guillermo Navarro) che, da qui in poi, ne arricchiranno la poetica, divenendo ricorrenti nella sua filmografia. Mettendo la macchina da presa all'altezza del suo giovane protagonista, condividendone solitudine, vessazioni e terrore, il mondo fantastico e orrorifico di del Toro si fa così a misura di bambino, proiezione di paure, incubi e fantasmi capaci di sovrapporsi e offuscare un orrore ben più tangibile e quotidiano, quello, non meno spaventoso, dell'uomo e della sua nefasta azione nella Storia; un orrore destinato a sfociare, cinque anni dopo, nel trionfo visivo e struggente di quello che sarà il maggior successo del regista e il suo film più iconico e rappresentativo: Il labirinto del fauno.

L'orrore nella Storia

È proprio nella vicenda di Ofelia, ragazzina vittima, ancora una volta, dell'abbrutimento e dell'autoritarismo della Spagna degli anni Quaranta - questa volta incarnato con drammatico sadismo dalla figura del patrigno, capitano dell'esercito franchista - che la contaminazione tra fantastico e reale, tra sogno e memoria storica diviene esplicita, in un rimando continuo e senza soluzione di continuità tra due piani di realtà che si confondono e mischiano tra loro senza mai prevalere l'uno sull'altro. Sarà proprio questa contaminazione tra orrore e tempo storico lo snodo focale della poetica di Guillermo del Toro, un aspetto ricorrente destinato a segnare le vette della sua produzione. E se, nel mezzo, il cinema del regista messicano pare tornare a vecchi amori e suggestioni mai sopite (i vampiri della serie The Strain, le atmosfere gotiche e lovecraftiane di Crimson Peak, il fantasy puro di un Lo Hobbit che mai vedrà la luce), poco importa. Il mostro (vero o presunto che sia) si nasconde ancora, in agguato, tra le pieghe della Storia in La Forma dell'Acqua - The Shape of Water - parabola d'amore interspecie con, sullo sfondo, le paure e le paranoie di un'altra guerra, quella fredda - dimostrandoci, ancora una volta, come per l'autore il fantastico non sia un semplice specchio per raccontare, tra passato e presente, la realtà, ma un mondo "altro", una speranza concreta e una tangibile, inevitabile via di fuga. Spesso e volentieri l'unica possibile.

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