Speciale Godzilla: Diario di viaggio dal set (quinta parte)

Il nostro inviato ci racconta la quinta (e ultima) tappa del suo incontro ravvicinato col Godzillasauro

Speciale Godzilla: Diario di viaggio dal set (quinta parte)
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(La prima parte del Diario di viaggio la trovate a quest'indirizzo, la seconda, invece, qui. La terza, qui. Infine, la quarta e penultima parte a questo link.)

Racconto di un ritorno.
Vancouver, Canada, 17 giugno 2013
Era ormai sera inoltrata quando, lasciatoci alle spalle l'art department del Godzilla di Gareth Edwards e l'hangar con la riproduzione 1:1 della cassa toracica del kaiju, ci accomodammo nuovamente sulla navetta che ci avrebbe ricondotto sul set che avevamo già visitato a inizio giornata.
Il tratto di strada era breve e, appena scesi, ci dirigemmo in uno dei grandi capannoni montati all'esterno del set, con grandi tavoli e lunghe panche. Era una location tirata su alla buona, un tendone piantato sul terreno grezzo che conoscevamo bene: era lì che, durante il giorno, avevamo incontrato e intervistato Edwards, Taylor-Johnson e gran parte del cast tecnico e artistico del film, ma ora aveva un aspetto completamente diverso. Se durante il pomeriggio il capannone era vuoto e adibito solo a punto di ritrovo per noi - una manciata di giornalisti - e i vari talent da intervistare di volta in volta, ora era gremito di comparse e tecnici del film seduti a tavola per la cena. Uno dei tavoli era stato lasciato libero per noi, ci riempimmo i piatti dal ricco buffet apparecchiato internamente e ci sedemmo per la nostra cena sul set.

Un pasto inusuale


Era dalla colazione mattutina che non mettevo nulla nello stomaco e ammetto che avevo una gran fame... mi colmai il piatto e mi accomodai con gran piacere. Mentre ero a cena mi guardavo intorno e sorridevo per l'atmosfera surreale che si respirava. Attorno a me vedevo uomini e donne con tute da lavoro che si mescolavano alle comparse, ancora abbigliate come militari e piloti, tutti compostamente a proprio agio a chiacchierare e a consumare il loro meritato pasto serale. Era un clima davvero particolare, per un attimo si poteva avere l'idea di essere quasi ad un rancio in una trincea di guerra, circondati, com'eravamo, da tutti questi soldati, ma al tempo stesso si percepiva un'aria di relax e positività che ci riportava subito nell'ambito dello spettacolo.
Eccolo lì, il cinema, che continuava a fare capolino da sotto l'aura di realtà che comunque cerchiamo di apporre ad ogni cosa che ci circonda. Un soldato (come qualsiasi altra figura) al cinema non è un soldato, ma una sua rappresentazione, ed era ben chiaro osservando con attenzione le comparse a cena: più che veri militari a guardarli bene sembravano dei bambini che, finito di giocare alla guerra, si erano seduti a tavola tutti insieme, chiamati dalla mamma che gli aveva preparato da mangiare.

"Finzione" scenica

Clickate sulla vignetta per leggerla alla grandezza originale!
Finito di consumare il nostro pasto, offerto dal catering del film, l'uomo dal grande cappello ci fece nuovamente strada fin sul set all'aperto che riproduceva la portaerei che avevamo visitato precedentemente.
Attraverso delle alte gru, sopra al green screen - che circondava come le pareti di un' immensa stanza senza soffitto tutto il set - erano stati srotolati lunghi panni neri. Il green screen, ora, era diventato "black screen" come quello usato nei vecchi film in bianco e nero. Tra l'ora tarda e lo schermo nero che ci sovrastava sul set si era istituito un clima davvero suggestivo. Grandi riflettori illuminavano da ogni parte la portaerei ricostruita, il numero "88" sulla parte verticale della nave era illuminato da lucine che ne circondavano il perimetro e numerosi altri fanali colorati lampeggiavano sulle pareti della nave. Il nostro amico elicottero, che tanto ci aveva tenuto compagnia durante la giornata sul set era di nuovo lì, ma stavolta, illuminato com'era da riflettori e luci, sembrava ancor di più un attore pronto per il primo piano.
Davanti alla portaerei era montata la cabina di regia, con vari schermi che inquadravano il set da diverse angolature ovviamente connessi ad altrettante cineprese, alcune delle quali montate molto in alto su dolly.
Gareth Edwards si agitava eccitato e sorridente davanti agli schermi guardandone prima uno, poi un altro, come uno di quegli scienziati pazzi dei B-Movie del cinema classico. Appena ci vide ci invitò ad avvicinarci per osservarlo al lavoro.
La scena che stava girando vedeva il personaggio interpretato da Ken Watanabe aggirarsi sulla nave, con un giubbotto impermeabile addosso e un grande binocolo al collo. L'attore era sul set, completamente incurante della nostra presenza, concentrato com'era sul suo ruolo.
La scena del volo dell'elicottero si ripeté come nel pomeriggio, ma ora era in un'atmosfera del tutto esente dal clima di "prova": ora era "per davvero", beh, no insomma, era comunque nel film... non "davvero"... come dire, era "per davvero nella finzione scenica", ecco!

Arrivederci, Oz

"Action on background" gridò un uomo alle nostre spalle, ed ecco le comparse abbigliate da militari - quelle che poco fa erano a cena - correre avanti e indietro sul set. Le cineprese seguivano Watanabe che, guardando lontano, con volto sconvolto portava il binocolo agli occhi per poi allontanarlo ancor più sconvolto. L'elicottero si alzava in volo dietro di lui. Ecco: quella era una scena.
Mi fece sorridere pensare che Watanabe nelle sua mente stava vedendo Godzilla sorgere dalle acque o chissà quale altro disastro o mostruosità, mentre davanti a lui e il suo binocolo c'era Edwards che lo osservava dai suoi schermi da scienziato pazzo e noi, un manipolo di giornalisti con tracolle e block notes.
Eravamo davvero così spaventosi da atterrire quel severo signore orientale che, ai miei occhi, portava ancora con se il rigoroso personaggio interpretato ne L'ultimo samurai, con il quale lo conobbi da spettatore?
Forse si, forse lo eravamo davvero, sfatti da una giornata sballottati qua e là sul set e, molti di noi (tra i quali io) con ancora un jet lag a due cifre da smaltire dal giorno prima, ma il Sig. Watanabe non sembrava curarsene. Era lì che guardava "oltre", verso il nulla. Con sguardo costipato, portava agli occhi il binocolo, quindi lo allontanava dal volto. E dietro di lui, ogni volta che compiva la medesima azione, l'elicottero prendeva il volo, per poi riatterrare tra un ciak e l'altro. Edwards, ogni tanto, si staccava dai suoi schermi e raggiungeva Watanabe per concordare e aggiustare alcune cose.
Mentre l'attore continuava a ripetere all'infinito la sua scena - sguardo costipato, binocolo, via il binocolo - e l'elicottero seguitava a decollare e atterrare con movimenti circolari tra miltari/comparse che facevano footing sulla portaerei per digerire la cena mi distaccai, un attimo, con la mente dal tutto. "Fare cinema è davvero una cosa assurda" pensai "è tutto così costoso, complicato, coreografato, ripetuto, meccanico... tutto così incredibilmente artefatto, eppure quando lo osserviamo seduti sulle poltrone della sala, ci sembra tutto così fluido, tutto così semplice, naturale e, soprattutto, così vero."
Non avevo idea - dalla posizione in cui ero - di come qualcosa di semplice, fluido e vero potesse mai uscire fuori da quel paradossale, enorme e multimilionario gioco del Lego che avevo intorno ma tornai subito in me: di certo fare cinema non era il mio mestiere, lo era dello scienziato pazzo agli schermi, del signore asiatico col binocolo, delle centinaia di comparse, dell'elicottero, degli attrezzisti, dei tecnici delle luci, dei tipi del dipartimento artistico, ma non certo il mio.
Lo ripeto, io ero Dorothy a cui era stato offerto un viaggio a Oz e, ora, avevo scorso dietro le tende il Mago mentre tirava le leve e spingeva i bottoni per compiere i prodigi che avrei visto, un anno dopo, sullo schermo. Quando salii sulla navetta per tornare all'hotel, accompagnato dall'uomo dal grande cappello, era mezzanotte. Mi presi un attimo per guardarmi indietro, vidi il set da lontano, le luci che lo illuminavano iniziavano ad essere più piccole, l'aria frizzante delle notti canadesi mi teneva sveglio per pensare ancora una volta a quanto fosse assurdo fare il cinema.
Battei i tacchi per tre volte e salii sulla navetta per il ritorno.


Godzilla e Piccion

Mauro Antonini, giornalista crossmediale, scrittore ed autore, nonché nostro inviato sul set di Godzilla, è anche autore di PiccionCinema, la popolare webseries che oggi, in esclusiva per Everyeye, presenta le prime inedite e richiestissime vignette dedicate al film di Gareth Edwards.

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