George A. Romero: il maestro dell'horror che ha parlato al mondo con gli zombie

Con Romero il cinema perde uno dei padri fondatori dell'horror moderno, un cineasta che ha saputo parlare al popolo attraverso, ma non solo, i suoi zombie.

George A. Romero: il maestro dell'horror che ha parlato al mondo con gli zombie
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Definire Romero semplicemente "il regista che ha inventato gli zombie" è molto riduttivo per la carriera di un uomo che ha saputo dare un punto di vista diverso sul genere horror. Gli zombie esistevano già prima di Romero. Affondano le loro radici nel folclore e nelle tradizioni del popolo haitiano, portate in occidente da William Buehler Seabrook e dal suo racconto "The magic island", prima di essere sdoganati al cinema dal grande classico "I walked with a zombie" del 1943. Seguirono anni piuttosto bui per il cinema zombesco, con curiosi esperimenti nello spazio e un generale tentativo di distacco dagli albori delle pellicole di genere. Poi, nel 1968, tutto cambiò con l'arrivo nelle sale del film d'esordio di un giovane regista di Pittsburgh: il suo nome era ovviamente George Andrew Romero e il film era "La notte dei morti viventi".

Un mostro senza uno scopo preciso

"Eravamo noi nel '68. E ora siamo morti, no? I nostri ideali sono morti, io sono uno zombi."

Il primo boom del cinema zombesco terminò intorno alla metà degli anni '40, a cui seguirono una serie di pellicole minori e che hanno portato i morti viventi addirittura nello spazio. Erano gli anni della guerra fredda e la corsa allo spazio, e il genere fantascientifico, erano sulla bocca di tutti. Si svilupparono così una serie di pellicole a tema, come Zombies of the stratosphere del 1952 o Plan 9 From outer space, a cui va dato il merito di aver preso le distanze dalla classica figura dello zombie vista fino a quel momento. Di contro, queste creature non avevano più un'anima, più alcuno scopo, plasmate in base al volere di registi e sceneggiatori in film marginali. A differenza di personaggi come Dracula o Frankenstein, che possiedono caratteristiche ben specifiche e che affondano le loro radici nella letteratura classica, gli zombie non hanno un background tale da potergli garantire tratti ben definiti e riconoscibili, almeno fino al 1968. Anno di rivoluzioni, sia al cinema che nel mondo, con i movimenti di protesta sul piede di guerra e una guerra vera, il Vietnam, nel pieno della sua furia omicida.

Un anno che vide però arrivare nelle sale americane il capolavoro di Romero, La notte dei morti viventi. La scrittura del film fu travagliata, anche a causa del budget ristretto a disposizione, e dopo le prime stesure, che strizzavano l'occhio alla fantascienza, il regista, insieme a John Russo, co-sceneggiatore, decise di puntare invece sull'Horror, prendendo ispirazione dal classico di Richard Matheson "Io sono leggenda" e realizzando così il film che consegnò alla storia il regista di Pittsburgh.

Un cambio radicale

"La gente che si è costruita un ambiente sicuro è piena di merda. Ma tutti ci credono e vogliono farne parte. Proprio come facciamo noi oggi. Intanto, gli zombi sono dappertutto."

L'ispirazione data dal racconto di Matheson aiuta i due giovani sceneggiatori a partire con la scrittura del copione, ma le creature descritte da Matheson sono troppo forti e devastanti e non si adattano al genere di racconto che Romero aveva in mente. Ecco perché decide di puntare sugli zombie, o meglio sui Ghoul dei fumetti della EC Comics tanto cari al regista nella sua infanzia, donando al mondo un barlume di speranza. I mostri di Matheson avrebbero chiuso fin da subito la questione, portando l'uomo all'estinzione, ma il lento incedere degli zombie, la loro disorganizzazione, l'impossibilità di comunicare avrebbe dato agli uomini la possibilità di uscirne vivi, di sopravvivere e di cambiare il mondo. A patto però di collaborare, cosa che nel film, come evidenziato in più punti, non avviene, portando a conseguenze tragiche per il gruppo. La mancanza di collaborazione, le tensioni razziali tra il protagonista Ben e l'odiato Cooper, che rappresenta per altro la classe borghese americana dell'epoca, sono solo alcuni dei temi portanti del film, che passa dal razzismo al femminismo, alle divisioni di un gruppo specchio della società dell'epoca e delle sue tensioni.

Un gruppo che, guarda caso, viene alle fine sopraffatto dagli zombie che, per quanto lenti, goffi e senza intelletto, riescono ad avere la meglio facendo l'unica cosa che i protagonisti del film non sono stati in gradi di fare: cooperare. Unendosi in gran numero e lottando all'unisono per un solo scopo, gli zombie hanno prevalso sugli umani. La componente collaborativa dei morti viventi è chiara nel film, lanciando un messaggio alla società ancora oggi inascoltato.

Martin

"Gli zombi sono il cambiamento, qualunque esso sia. Qualche volta il cambiamento è buono e qualche volta no."

Per descrivere tutte le tematiche contenute ne "La notte dei morti viventi" e nei suoi seguiti ci vorrebbero decine di articoli, ecco perché abbiamo deciso di ricordare il regista non solo attraverso le creature che lo hanno reso famoso, ma anche attraverso un pellicola meno celebre ma anche questa dal forte impatto sociale, Martin, conosciuta anche con il titolo di Wampyr, uscita nel 1978. Qui Romero si cimenta con una creatura classica del genere horror, il vampiro, ribaltando però tutti i concetti alla base di questo personaggio. (SPOILER)Questo film è da sempre uno dei preferiti del regista di Pittsburgh e racconta la storia di Martin, un ragazzo appena trasferitosi a Pittsbourgh nella casa dell'anziano cugino, Tata Cuda, che lo crede un vampiro a causa di un'antica maledizione di famiglia. Ospite della casa è anche Christina, la nipote di Cuda, che non crede alle superstizioni e al vampirismo di Martin. Il ragazzo, infatti, non è certo di essere un vampiro, nonostante uccida e beva il sangue delle sue vittime. Durante la settimana, Martin lavora nella bottega dello zio, nel week end invece viaggia nelle città vicine per mietere le sue vittime. Abbandonato da Christina, stanca di una vita umile e disagiata, Martin rimane in balia di Cuda. L'incontro con Emily, una donna sposata e insoddisfatta, sembra portare nella vita di Martin un po' di sollievo, fino a quando lei non decide di suicidarsi. Cuda allora, convinto che sia stato Martin a uccidere la donna, pone fine alla vita del ragazzo, conficcandogli un paletto nel cuore. (FINE SPOILER)
Il film usa il vampirismo come semplice specchietto per le allodole, un espediente narrativo scelto per inserire nel film molti dei temi ricorrenti nella filmografia di Romero. Martin infatti non ha nulla del vampiro (questione del sangue a parte): non è affascinante, non ha canini affilati e non brucia alla luce del sole, ma nonostante questo è convinto di aver bisogno del sangue per vivere. Il vampirismo gli è stato inculcato nelle mente dalla la sua famiglia, colpevole di non averlo capito e di non averlo aiutato. Proprio la famiglia viene spesso sviscerata - è proprio il caso di dire - e analizzata in altre pellicole di Romero, come Jaks's Wife del '72. Il tutto sollo sfondo di una città ormai allo sfascio, con le fabbriche chiuse, inquadrate a più riprese nel film, a rappresentare la decadenza dell'impero e del sogno americano.

Ci sarebbe da parlare di George A. Romero abbastanza da riempire interi libri, libri che sono già stati scritti e che ancora verranno scritti sul grande maestro dell'horror. Un maestro che ha saputo creare un mostro immortale e amato ancora oggi da pubblico, lo zombie, ma la cui filmografia, dall'appena citato Martin passando per La città verrà distrutta all'alba e per l'eccentrico Knightriders, merita di essere rivista e riscoperta. Perché il papà degli zombie non ha solamente dato il via a un genere di successo, ma ha lasciato il segno nel cinema contemporaneo grazie a film molto più profondi di quanto possa sembrare a un primo sguardo, che aspettano solo di essere visti e riscoperti.


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