Alfred Hitchcock, auguri al maestro: il voyeur ne La Finestra sul cortile

In occasione dell'anniversario della nascita di Alfred Hitchcock, diamo uno sguardo a uno dei grandi classici del regista inglese.

Alfred Hitchcock, auguri al maestro: il voyeur ne La Finestra sul cortile
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Ci siamo mai chiesti perché andiamo al cinema? Cosa ci spinge a lasciare per un attimo la nostra vita in pausa, e immergerci nel buio di una sala? Il desiderio di vivere altre vite, certo. E anche la volontà di dimenticarci per un paio di ore della quotidianità. Il fatto, però, è che noi andiamo al cinema perché siamo dei voyeur. E non è un caso che una delle frasi-manifesto de La finestra sul cortile sia proprio la rivelazione di questa nostra indole vuoyeuristica: "we've become a race of Peeping Toms".
Lo stesso Alfred Hitchcock non aveva remore nel dichiararsi tale, e se lui era un voyeur, la sua cinepresa era l'occhio dello spettatore. Partendo da queste premesse non deve pertanto sorprendere se uno dei capisaldi della sua produzione cinematografica sia allo stesso tempo una profonda e sentita dichiarazione d'amore al mondo della Settima Arte: stiamo parlando ovviamente de La finestra sul cortile.

Tratto dall'omonimo racconto di Cornell Woolrich, Rear Window rappresenta il vettore mediatico attraverso il quale Hitchcock ha avuto modo di dar corpo a una delle grandi debolezze umane, scaturibile dall'insensato e primordiale desiderio dell'uomo di conoscere a fondo tutti gli aspetti, anche quelli più intimi e privati, di coloro che ci circondano per tradurli in qualcosa di perturbante.
Un desiderio da cui molti rifuggono, mentre altri si lasciano plasmare, guidare, arrivando perfino alla sua sfumatura più cupa, a quella curiosità morbosa verso i fatti di cronaca, che un altro grande film come Nightcrawler - Lo sciacallo ha saputo perfettamente raccontare.
Per il regista inglese il testo letterario di partenza non è altro che una superficie da decostruire, l'involucro di una complessa architettura che affonda le proprie fondamenta nel piacere della visione e nell'importanza di un semplice sguardo. Già, perché dietro l'atto del guardare si nasconde molto più che una semplice e fugace registrazione della realtà.

La finestra sul cortile e la pulsione scopica

Ci muoviamo nel mondo osservando le cose ancor prima di capirle. O meglio, osserviamo le cose per poi tentare di comprenderle. Ci affacciamo nell'universo con una pulsione scopica talmente potente che anche per capire noi stessi, il nostro micro-universo personale, guardiamo curiosi quella degli altri.
È dallo scarto dell'esistenza altrui che comprendiamo difetti, pregi, emozioni, punti di forza e debolezze che ci caratterizzano rendendoci unici.

Ed è su quella stessa pulsione che tentiamo di vedere parti di noi sul grande schermo. Apriamo gli occhi in una sala buia lasciandoci divorare da quell'ingordigia bulimica di storie in celluloide per scovare nel buio della nostra anima piccoli frammenti di noi stessi, del nostro io passato e presente.
Un gioco di specchi e riflessi, che il cinema ha saputo sfruttare e rivelare, come un mago che mostra i propri segreti. Con un linguaggio meta-filmico, gli autori hanno dimostrato la potenza dei loro strumenti, spiattellandoci allo stesso tempo una verità ormai assodata: siamo tutti dei guardoni.
E così, in un mondo di inconsapevoli voyeur, Hitchcock con il suo saggio filmico dimostra come il cinema sia la più perfetta realizzazione dei desideri legati all'atto del guardare, eleggendo a soggetto del proprio film - secondo i termini proposti dalla studiosa Laura Mulvay - "la fascinazione di un'immagine tramite un erotismo scopofilo".
Portavoce di questa insensata voglia di far parte della vita degli altri con la potenza di uno sguardo, è Jeffrey (James Stewart), uno di che di mestiere non a caso fa il fotografo.

Un occhio, il suo, costretto a rimanere al di qua di una fotocamera, immortalando sprazzi di vita destinati a svanire ma che adesso grazie a lui vivranno per sempre, sospesi nella descrizione di un attimo.
Costretto su una sedia a rotelle a causa di un incidente che gli ha procurato la rottura di una gamba, Jeff si distrae divenendo parte della vita dei propri vicini, reduplicando la medesima azione che lo spettatore compie seduto su una poltrona del cinema.

Burattinaio di esistenze coniate tra il buio della mente, e la luce del raziocinio umano, Alfred Hitchcock ha saputo trasporre sul grande schermo la nostra essenza, tra paure, fobie, e sprazzi di umanità.
Il regista non solo affonda nel proprio bacino personale fatto di ricordi e traumi, ma seleziona con alacrità dal juke-box dell'essere umano vizi e virtù universalmente condivisi, immettendoli e umanizzandoli sotto forma di personaggi prestati all'eternità.

Sospetti, scambi di persona, rimozioni traumatiche, tradimenti, rapine: sono uno e più aspetti dell'essere umano che Hitchcock assimila e incarna nei suoi protagonisti.
Con La finestra sul cortile il regista inglese va oltre, e non solo denuncia l'istinto curioso che ci attanaglia, ma lo fa sfruttando un poderoso gioco di specchi e riflessi attraverso il quale dimostra la potenza dell'arte del cinema come strumento in grado di soddisfare le nostre pulsioni. La vita di Jeff sullo schermo è pertanto interpretabile come una parodia dell'evento vissuto dallo spettatore in sala.

Jeff come doppio di Alfred Hitchcock

Se Cary Grant incarnava l'uomo che Alfred Hitchcock avrebbe voluto essere, in James Stewart il regista inglese ritrovò l'uomo che invece era. E così, l'immagine dell'eroe di guerra, del buon padre di famiglia, che andò a caratterizzare la star-image dell'attore, venne sovvertita da Hitchcock, insidiando nei ruoli a lui affidati fobie, pensieri e insicurezze che facevano parte della psicologia dello stesso regista.

I personaggi interpretati da Stewart sono pertanto dei simulacri cinematografici in cui proiettare ogni aspetto caratterizzante la persona di Hitchcock.
E così, se il professore Rudolph Cadell, protagonista di Nodo alla gola, è l'ideatore dell'omicidio perfetto, andando a reiterare la capacità di Hitchcock di dar vita ad assassinii quasi perfetti, così ne La finestra sul cortile la figura del regista viene reduplicata dal personaggio di Jeff.
Dalla sua sedia a rotelle egli spia la vita degli altri, proprio come Alfred Hitchcock riprende e controlla, seduto sulla sedia del regista, le vite dei personaggi che animano le sue pellicole.
Perfino a livello fisico i personaggi hitchcockiani dovevano rimandare alla figura del proprio creatore. Lontano dai canoni di bellezza, Hitchcock concepisce i protagonisti interpretati da Stewart con dei deficit fisici, o dalle carenze psicologiche.
Il professore di Nodo alla gola è zoppo; Scottie di Vertigo soffre di acrofobia; Jeff ha una gamba rotta.

Messe insieme le tessere di questo puzzle, quello concepito in fase embrionale dalle pagine di Woolrich si tramuta nel perfetto alter-ego di Alfred Hitchcock. Jeff è un uomo che ama dirigere gli altri, tenere tutto sotto controllo, manipolare e creare nuove storie sulla forza del proprio obiettivo. Un voyeur, proprio come Alfred Hitchcock, e gli spettatori in sala.

Apparentemente sicuro di sè, in lui vige una fragilità che lo porta a trattenersi dal compiere gesti importanti, come chiedere in sposa la sua adorata fidanzata Lisa.
Quella stessa insicurezza, simbolicamente rappresentata dalla gamba rotta, lo condurrà anche a svolgere il ruolo di spettatore più che di attore della scena, lasciando che sia proprio Lisa a farsi protagonista dell'azione, rischiando perfino la vita in nome della verità.

Osservando scorrere la vita davanti a lui, Jeff elegge i propri vicini a protagonisti della propria fantasia. E se è vero che tutto il mondo è teatro, quello allestito nella mente di Jeff è della stessa sostanza di cui sono fatte le opere nate dalla fucina di Alfred Hitchcock.
Intrufolandosi nelle loro esistenze per mezzo di un obiettivo, Jeff prende questi uomini e queste donne e li tramuta in attori; dà loro nomi fittizi (Mrs. Lonelyhearts, Miss Torso), affida loro una storia da lui stesso inventata, per poi osservarli interpretare in maniera del tutto improvvisata, come un happening allestito senza preavviso, questa performance chiamata "vita".

James Stewart e la quintessenza dell'eroe ironico

A giocare un ruolo predominante nell'immedesimazione spettatoriale è la performance di James Stewart.
Forte dell'immagine divistica a lui affibbiata nel corso degli anni, la figura di Stewart andò a combaciare con quella dell'uomo ordinario, senza tanti fronzoli; un uomo in cui anche una personalità, come quella di Alfred Hitchcock, poteva rispecchiarsi.

Proprio alla stregua di questo senso di familiarità che lo caratterizzava, Stewart si presta perfettamente al tipico eroe hitchcockiano. Un eroe ironico perché, nella sua posizione di personaggio positivo, non riesce comunque a entrare nel cuore dell'azione.
Una caratteristica, questa, che va del tutto a cozzare con i ruoli solitamente associati a Stewart, divenuto nel tempo un simbolo del genere western.
Qui l'attore si limita a farsi presta-corpo di un uomo qualunque, finito in una situazione più grande di lui.
A differenza degli eroi portati in scena da Cary Grant, che si immergono senza paura al centro dell'azione, Jeff è un uomo limitato, ingabbiato nel suo ruolo di osservatore.
E nel momento in cui tenta di sovvertirlo, questo ruolo, ecco che il destino lo punisce con una seconda rottura della gamba, quasi a voler ricordare quanto pericoloso possa essere il diretto confronto con i mostri generati dalla nostra fantasia.

L'uso della soggettiva

In termini tecnici, si parla di soggettiva al cinema quando lo sguardo di un personaggio combacia perfettamente con quello della macchina da presa e, di conseguenza, con quello dello spettatore.
Così si enfatizza il rapporto di immedesimazione, facendo vivere allo spettatore le stesse emozioni del protagonista cinematografico.

Apoteosi della soggettiva, qui elaborata in numerose versioni (panoramica della finestra, effetto cannocchiale, raccordo sull'asse) ne La finestra sul cortile questo gioco di sostituzione viene elevato a un'ulteriore potenza.
Hitchcock non solo sfrutta appieno il potere insito nell'impiego della soggettiva, ma la affianca all'utilizzo di innumerevoli protesi meccaniche di cui si avvale il suo protagonista, redigendo un saggio sull'atto dello spiare e dell'osservare.

Obiettivi, teleobiettivi, binocoli si fanno dunque strumenti ipertrofici di un personaggio nato sulla scia del guardare intento non solo a conoscere la verità dietro la follia omicida, ma a farsi portabandiera della nostra curiosità di scrutare al di là della serratura (non a caso Stella definisce il teleobiettivo "un buco della serratura portatile").
Se le protesi ottiche diventano nel film un mezzo per soddisfare le pulsioni di Jeff, l'impiego della soggettiva in tutte le sue declinazioni e varianti permette allo spettatore di dominare la scena e condividere con il protagonista esperienze ed emozioni.
Un'identificazione tra spettatore e personaggio facilitata anche dalla medesima posizione in cui entrambe le realtà si trovano.
Immobili, su una sedia, tanto Jeff quanto il pubblico in sala sono costretti ad assistere passivamente alle azioni che scorrono dinanzi ai loro occhi. L'unica cosa che possono perciò fare è limitarsi a guardare, osservare, magari sobbalzare per la paura.

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