Quanti altri film dovrà fare Paul Thomas Anderson per vincere un Oscar?

Uno dei registi più apprezzati della storia del medium non ha mai ricevuto il premio dell'Academy, riuscirà mai a portarsi a casa una statuetta?

Quanti altri film dovrà fare Paul Thomas Anderson per vincere un Oscar?
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PTA sono tre lettere con il potere magico di riecheggiare ossessivamente all'interno della sala cinematografica, quando, al termine dei titoli iniziali, compare la frase sognante che anticipa il regista. Diretto da Paul Thomas Anderson. Da lì in avanti può esserci solo perfezione e amore profondo per la Settima Arte, non c'è spazio per sbavature né temi abbozzati. Il regista nato in quella Los Angeles che è culla del nuovo cinema contemporaneo ha raggiunto uno status quasi mistico, contornato da un'aura che sa di leggenda, tanto da essersi guadagnato un acronimo che vale come garanzia di qualità assoluta.

Autore di veri e propri classici del grande schermo, Anderson è riuscito a guadagnarsi tanto l'affetto del pubblico quanto quello della critica, all'interno di un'ambivalenza che continua a sfuggire a tanti suoi colleghi cineasti. Le sue opere non si limitano ad essere grandiosi lavori artistici che vengono analizzati e studiati dagli esperti del settore, ma si tolgono anche lo sfizio di sbancare al botteghino. Eppure quest'uomo cresciuto a pane e pellicola non si è mai portato a casa una statuetta dorata, neanche al termine di un'edizione parecchio sottotono come quella appena trascorsa (nella quale lo schiaffo di Will Smith è il simbolo di un evento disastroso), nonostante le 11 candidature ottenute nel corso della sua carriera, che lo rendono il regista vivente con più nominations a non aver mai vinto l'Oscar.

Partenza in quarta

L'esordio alla regia di Anderson si intitola Sydney, è datato 1996 e viene presentato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Il film è un thriller atipico, che utilizza il gioco d'azzardo come critica non molto velata al sogno americano, e vale al suo giovane autore il premio come miglior regista esordiente dell'anno. Ciò che avviene successivamente lo possiamo ritrovare nei libri di storia del cinema.

Il secondo lungometraggio è quella perla di Boogie Nights - apprezzato anche da un gigante della letteratura come David Foster Wallace - la storia allucinata e dal sapore agrodolce ispirata alla vita dell'attore pornografico John Holmes, che può vantare un cast di primissimo ordine nel quale spicca il compianto Philip Seymour Hoffman. Se Mark Wahlberg si è pentito di aver accettato il ruolo di protagonista in Boogie Nights, definendola una pessima scelta per la sua carriera, l'attore scomparso nel 2014 ha invece continuato a collaborare con Anderson rivestendo ruoli di primo rilievo all'interno di altri tre grandissimi film: Magnolia, Ubriaco d'Amore e The Master. L'apprezzamento della critica arriva in un attimo, senza lesinare parole altisonanti e paragoni illustri, mentre anche il pubblico dimostra il suo amore per il giovane astro nascente del cinema riempiendo con costanza tutte le sale del mondo.

La nascita di una leggenda

Le prime candidature agli Oscar arrivano per le sceneggiature di Boogie Nights e Magnolia (battute da quelle di Will Hunting e American Beauty), mentre bisogna aspettare il 2008 prima di vedere la prima nominations che certifica il suo lavoro strepitoso dietro la camera.

La pellicola è una di quelle che non si dimenticano facilmente: Il Petroliere è uno dei film più importanti del cinema contemporaneo, sia sul piano delle tematiche - con la sua critica rabbiosa al capitalismo americano, portata avanti da personaggi profondi ed impossibili da inquadrare - che su quello della tecnica vera e propria, gli vale 3 candidature ma viene sconfitto dai fratelli Coen e dal loro Non è un Paese per Vecchi. Al netto di una voce "Oscar vinti" che continua a segnare lo zero, Paul Thomas Anderson è ormai universalmente riconosciuto come uno dei cineasti più importanti del suo periodo e, dieci anni dopo averci regalato la sua visione della corsa all'oro, torna alla serata di gala con l'ennesimo capolavoro senza tempo.

Il Filo Nascosto ci permette di apprezzare non solo il genio del regista, ma anche l'ultima leggendaria interpretazione di Daniel Day-Lewis, prima che l'attore 3 volte premio Oscar decida di abbandonare le scene. La pellicola ottiene 6 nominations ma vince solo il premio per i migliori costumi - eventualità molto curiosa per un film che racconta la vita di uno stilista - e Paul Thomas Anderson rimane ancora a bocca asciutta.

Autorialità e nostalgia

Abbiamo atteso il suo ritorno per 4 anni, ma il suo ultimo titolo è riuscito a superare anche le nostre più rosee aspettative (non a caso era in cima alla lista dei film più attesi del 2022). La nostra recensione di Licorice Pizza non lascia spazio ad alcun dubbio: questa cartolina della San Fernando Valley è una lettera d'amore indirizzata ad un periodo (e ad un'America) che ormai non c'è più, carica di un'amara ed esilarante nostalgia che lascia lo spettatore con il cuore pieno di gioia.

Il film gli vale altre tre candidature e altrettante sconfitte, ma quest'anno risultano particolarmente dolorose perché la categoria Miglior Film premia I Segni del Cuore, che - come vi abbiamo raccontato nella recensione de I Segni del Cuore - non esattamente il migliore della lista. L'ultima cocente debacle sembra suggerire che Anderson non vincerà mai una statuetta, perché se in passato è stato superato (con merito o meno, a seconda dei gusti) da altri grandi autori, quest'anno si è scelto di premiare una pellicola molto popolare e generalista, agli antipodi rispetto all'autorialità alla quale ci ha abituato il cineasta americano.

Le diverse categorie del cinema

Al regista, nato e cresciuto in quella Los Angeles che ci ha voluto raccontare con la sua ultima opera, rimane l'onore di calamitare le attenzioni e gli amori di due mondi diversi, quelli degli spettatori impegnati e di quelli meno esigenti, ma - purtroppo per lui - il suo cinema non è abbastanza "accessibile" per meritare un premio Oscar che sta virando sempre più verso i lidi della popolarità di massa. Altri suoi illustri colleghi nemmeno rientrano nella short list delle candidature, proprio a causa di una firma cinematografica polarizzante che sembra repellere l'Academy.

Se ormai ci siamo rassegnati a non sentir nominare autori del calibro di Leos Carax, Lars von Trier e Sean Baker quando si parla dei presunti migliori film e migliori registi dell'anno, dovremmo far pace con l'evidenza che anche un artista universalmente apprezzato come Paul Thomas Anderson non è abbastanza "cool" da vincere un premio Oscar. La sua impronta stilistica è troppo forte, la sua critica alla società moderna non abbastanza edulcorata: le peculiarità che ci fanno catapultare al cinema per vedere immediatamente il suo ultimo lungometraggio sono gli stessi limiti che lo separano da un riconoscimento sempre più pigro e poco attento, che sembra - ora più che mai - scollegato dalla realtà dell'anno cinematografico appena trascorso.

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