Don't Look Up è la satira di cui abbiamo davvero bisogno?

Il nuovo film di Adam McKay è riuscito a conquistare gran parte del pubblico, indispettendo però chi non ha trovato in esso un capolavoro.

Don't Look Up è la satira di cui abbiamo davvero bisogno?
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Passiamo più tempo a immaginare quale sarà la catastrofe che metterà fine all'umanità piuttosto che a pensare a come migliorare i nostri tempi. Adam McKay, dopo averci raccontato una crisi finanziaria pronta a mettere in ginocchio gli Stati Uniti (vale la pena recuperare la nostra recensione de La Grande Scommessa), e di conseguenza gran parte del globo, ha pensato bene di farci vedere come si può esasperare la fine del mondo, come è possibile distruggere i nostri sogni di speranza. Attaccare i soldi non andava bene: bisognava distruggere il nostro futuro.

Ecco, quindi, che un'enorme cometa, pronta a schiantarsi sulla Terra, potrebbe trasformare i prossimi sei mesi nei nostri ultimi giorni di vita, chiamandoci a scegliere come comportarci e come gestirli. McKay usa la satira, ci fa affrontare la problematica con ironia e con cattiveria nei confronti dell'umanità stessa, tanto da finire per essere esaltato forse dagli stessi uomini che si comporterebbero come i suoi personaggi: eppure Don't Look Up divide (alzate lo sguardo verso la nostra recensione di Don't Look Up), tra chi lo ritiene una critica scontata, a chi lo considera uno squarcio nel velo di Maya dei nostri tempi.

Conosciamo la nostra catastrofe

Sono quasi due anni che ci stiamo confrontando con un'epidemia e lo stiamo facendo in bilico tra il miglior modo possibile e il peggiore a nostra disposizione: saltelliamo da una presa di coscienza a un errore madornale, trasformandoci quotidianamente in virologi e infettivologi come se bastasse leggere una pagina di Wikipedia per conseguire un titolo di studio.

Sebbene McKay di Covid-19 non ne parli, sembra volersi avvicinare a una metafora: la cometa che Jennifer Lawrence scopre, tanto da darle il proprio nome, potrebbe essere una pandemia che di diverso ha solo l'accortezza di averci avvisato, di averci dato un vantaggio per architettare una sorta di prevenzione: possibile o meno è tutto da vedere, è tutto nelle nostre mani.

Non si parla di climate change, non ci si preoccupa di altre problematiche che nell'ultimo decennio stanno provando a sensibilizzarci per farci affrontare meglio il nostro futuro, ma semplicemente si affronta un disastro incombente: un modo per offrirci un ritratto del nostro pianeta, chiaramente disgraziato e spesso figlio di iperbole impietose, e provare a raccontarci come il coronavirus, trasposto nella fantascienza di una cometa distruttiva, non ci ha migliorato. Perché non ne siamo usciti migliori. E McKay, in un certo modo, ce lo sta dicendo.

Giudicate i giudici

La prima grande stangata sui denti McKay ce la fornisce al contatto con la Casa Bianca: Meryl Streep è una caricatura nemmeno troppo forzata di come immaginiamo avrebbe potuto essere una riunione nella sala ovale insieme a Donald Trump negli ultimi anni, con una buona aggiunta di elementi femminili presi in prestito da Hillary Clinton.

Nell'incontro tra il Presidente degli Stati Uniti - rigorosamente donna e necessariamente sexy quando fuma - e il tandem di scienziati capitanato da DiCaprio e Lawrence, scopriamo che la politica ha sempre qualcosa di più importante da gestire rispetto alle emergenze per l'umanità. Una prima grande critica alle istituzioni, a chi governa dall'alto la stanza dei bottoni. La campagna elettorale, il sex gate, delle foto sconce inviate alla persona sbagliata tramite WhatsApp, il compleanno di qualcuno, sono argomenti di maggior priorità rispetto al noioso snocciolare concetti fisici e formule matematiche. La critica per niente velata a chi è stato scelto per giudicare i giudici e per custodire i custodi, riprende la Satira di Giovenale del 130, per applicarla al panorama odierno. Duemila anni dopo possiamo dire che questo concetto sia già stato declinato e ampiamente superato? Forse, ma ciò nulla toglie alla sagacia dell'opera di McKay.

Lo specchio dei nostri tempi

DiCaprio interpreta il dottor Randall Mindy, un uomo schiavo delle sue paranoie e delle sue ansie, costretto a un uso quotidiano di Xanax, anche questo centellinato e figlio forse di un'altra ansia. Protagonista e mattatore dell'intera vicenda, DiCaprio è il fiore all'occhiello della pellicola di McKay, personaggio in grado di compiere un vero percorso di crescita e di attraversare delle fasi di consapevolezza che lo portano a mettere in vista un altro importante difetto che il regista vuole farci notare: la vanità.

Un ricercatore timorato di Dio, spaventato dal colloquio con il presidente degli Stati Uniti, afflitto dal suo essere un topo da biblioteca, con i suoi occhialetti, una barba incolta e una modesta famiglia all'improvviso si ritrova catapultato sotto i riflettori, alla ribalta, a tu per tu con le vere star del momento e a contenere la sua ansia. La prima volta è incerto, la seconda appare più a suo agio, la terza è stato a letto con la conduttrice che lo intervista.

DiCaprio è l'esatto specchio di tutti i virologi dei nostri tempi, partiti come normali ricercatori e appassionati della loro materia e arrivati adesso a essere riconosciuti come influencer, desiderosi, nel loro piccolo, di avere un momento di gloria, quei quindici minuti che Andy Wharol aveva prescritto a tutti nemmeno fosse una medicina da buttar giù. Ed ecco, quindi, che si finisce a dare più spazio alla propria visibilità che al vero e unico apporto che dovremmo dare a questo mondo con la nostra ricerca, con la nostra applicazione.

Non smettiamo di guardare in alto

Il terzo e forse più tragico elemento che McKay porta alla nostra attenzione è un discorso capitalistico, che conduce fino alla tragica privatizzazione dell'universo: se la missione proposta da DiCaprio era quella di bombardare la cometa e spostarne la traiettoria, quella di Mark Rylance, nel film una ansiogena miscela di Elon Musk e Jeff Bezos, è un'invocazione alla ricchezza.

La missione SpaceX potrebbe essere lo spunto per la critica di McKay, che sottolinea come i miliardari di oggi si preoccupino di creare degli enormi giocattoli spaziali sfruttando le proprie risorse, finendo, però, per ricercare un proprio fine. Ecco, quindi, che il Peter Isherwell di Don't Look Up, finanziatore platino della campagna del presidente Orlean, e per questo fondamentale consulente di tutte le operazioni della Casa Bianca, blocca i razzi di DiCaprio per andare a minare la cometa e recuperare materiali che gli saranno utili per continuare a produrre smartphone. Morire è una possibilità, ma prima premuriamoci di farlo con sfarzo e con ricchezza. Una contestazione all'aspetto capitalistico del sistema umano, che oramai quasi sempre mette davanti alla salute e alla vita la spasmodica ricerca del denaro e della ricchezza. Don't Look Up finisce così per creare un cocktail di realismo e farsa che, pur non raccontandoci niente di nuovo, rappresenta un potente richiamo alla realtà che ci circonda che, nelle sue più disparate derive, appare quanto mai sottovalutata.

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