Dahmer: il film con Jeremy Renner è migliore della serie Netflix?

La serie su Dahmer è il prodotto Netflix del momento, ma già nel 2002 il cinema raccontò la storia del serial killer. Analizziamone il risultato.

Dahmer: il film con Jeremy Renner è migliore della serie Netflix?
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Il serial killer Jeffrey Dahmer è il personaggio televisivo del momento. La serie Netflix Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer (mostruosa e affascinante, vi invitiamo a leggere la nostra recensione di Dahmer) ha fatto sì che anche le generazioni più giovani non ancora nate tra gli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta - periodo in cui commise 17 omicidi - venissero a conoscenza della sua storia. Prodotta e creata da Ryan Murphy, la mente dietro American Horror Story, vede nei panni del protagonista un eccezionale Evan Peters. In sole due settimane Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è diventata un caso internazionale. Diverse polemiche ne hanno circondato il rilascio tra cui la discussione attorno al marchio LGBT che Netflix le aveva affibbiato e le lamentele da parte dei famigliari delle vittime che hanno visto ancora una volta sfruttata per fini commerciali la propria tragedia personale.

Infatti, non è la prima volta che Jeffrey Dahmer è protagonista nella cultura di massa. Il suo nome ricorre spesso in diverse serie televisive ed è al centro di molte canzoni metal per via dell'efferatezza dei suoi omicidi. Per quanto riguarda il cinema, nel corso degli anni, documentari e film ne hanno raccontato la storia. Su Amazon Prime Video (avete visto i film di ottobre 2022 su Amazon Prime Video?) è presente Dahmer - Il cannibale di Milwaukee, titolo diretto nel 2002 da David Jacobson con protagonista un giovane e semisconosciuto Jeremy Renner. Essendo questo il prodotto che più si avvicina alla serie di Ryan Murphy, andiamo a scoprirne pregi e difetti e perché, nonostante la sua esistenza, il fenomeno è esploso proprio con la serie tv.

Evan Peters e Jeremy Renner a confronto

L'interpretazione e la performance attoriale del protagonista non può non essere il primo punto su cui riflettere. Al momento siamo inebriati da Evan Peters e dal suo talento nel rendere alla perfezione una mente controversa ma allo stesso tempo fragile come quella di Jeffrey Dahmer. A suo tempo, però, Jeremy Renner non se la cavò così male.

Il suo viso si rivelò quello giusto, perché esattamente come Peters riuscì ad alternare momenti di ambiguità espressiva in cui è davvero difficile leggerne le intenzioni ad altri in cui la maschera dell'impassibilità cade lasciando il posto alle fragilità di un ragazzo disturbato e solo. Inoltre, in alcune scene sembra essere ancora più "cattivo" e viscido solo grazie al suo sguardo di ghiaccio. Ciò che ha penalizzato Renner nella resa di Jeffrey Dahmer sul grande schermo è la sceneggiatura del film, decisamente sottotono e piatta rispetto a quella che è la storia. Si fatica a concludere il film di Jacobson, perché non sembra avere ben chiaro il focus sul personaggio e i suoi crimini. Questo porta a un ritmo molto altalenante e a poca tensione e la scelta dei flashback per indagare sul passato del ragazzo confondono lo spettatore, perché nell'armonia della narrazione sembrano essere collocati casualmente tra una scena e l'altra.

Tutto appare troppo abbozzato e lasciato in superficie. Diverso invece è il discorso per quanto riguarda Evan Peters e la sceneggiatura della serie. Ben scritta, la storia assolutamente ben gestita e probabilmente ha giocato a suo favore anche la conoscenza pregressa con Murphy che ha saputo tirar fuori il suo meglio fino ad ora.

Linguaggi diversi per uno stesso soggetto

Un'altra differenza fondamentale fra i due prodotti è che il medium finale per il quale sono stati concepiti è diverso: uno per il piccolo schermo e lo streaming, mentre l'altro per il cinema. Questo ha comportato anche l'utilizzo di un linguaggio differente. Fra il titolo di Jacobson e lo show di Murphy, inoltre, vi sono vent'anni di differenza e quante cose sono cambiate in questo lasso di tempo nell'ambito della comunicazione e nella fruizione di un prodotto audiovisivo.

David Jacobson, a suo tempo, ha avuto lo svantaggio di dover "comprimere" all'interno di un tempo cinematografico ridotto una storia che Murphy, oggi, ha diluito in circa dieci ore. L'onere del regista del film è, in questo senso, più gravoso rispetto a quello dello showrunner di una serie. Il punto di vista scelto in Dahmer - Il cannibale di Milwaukee si rivela insufficiente ad offrire un quadro d'insieme sulla vicenda. L'impressione finale è che Jacobson volesse introdursi nella psiche di Jeffrey navigando su due piani narrativi diversi, ma per il breve tempo che il cinema concede - sempre rispetto ad una serie tv - ci vuole maestria nel sapersi muovere in più direzioni, cosa che il regista in questo caso non ha avuto. Il lungometraggio, oltre a ciò, non è particolarmente aderente ai fatti reali, ma questo è un aspetto sul quale si può tranquillamente sorvolare senza soffermarsi più di tanto. Il finale è "poetico", per quanto possa esserlo una tragica storia di cannibalismo e necrofilia.

Nessun processo, nessuna spettacolarizzazione degli atti riprovevoli compiuti dal ragazzo; invece vi è un allontanamento volontario tra i boschi in un'atmosfera nebbiosa e solitaria, quasi a preannunciare la vita che l'attendeva una volta arrestato. Una sola scena e forse poche altre, però, non salvano un film dall'aver fallito il racconto di un protagonista complesso, ambiguo e riconosciuto ancora oggi come uno dei serial killer più violenti che l'America ricordi.

Il successo delle serie tv crime

Il film su Jeffrey Dahmer è anche arrivato nel periodo sbagliato. Erano trascorsi pochi anni dalla morte del serial killer, avvenuta in carcere ad opera di un altro detenuto, e forse era ancora presto per rivangare una storia così cruda ampliandone la portata emotiva sul grande schermo. Oggi invece il genere crime ha un seguito fortissimo sia al cinema che, soprattutto, tra i fan delle serie televisive e Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer si colloca perfettamente nella scia di questo successo inarrestabile.

Perché questa "morbosità" nei confronti dei crimini e delle indagini che si susseguono? La scrittrice Agatha Christie diceva che non è tanto il delitto in sé a suscitare curiosità, quanto ciò che si nasconde dietro. Proprio il volerne sapere di più porta alla fidelizzazione dello spettatore nei confronti del prodotto seriale. Spezzare e, soprattutto, sapere dove apporre un punto per poter poi andare a capo e ricominciare, è il maggior talento che chi sta dietro un serial deve possedere. Ryan Murphy indubbiamente ha avuto l'accortezza di trainare lo spettatore episodio per episodio, accompagnandolo per mano tra gli orrori compiuti da Jeffrey Dahmer, ma soprattutto all'interno della sua mente perversa. La storia di questo serial killer, per complessità, meritava un medium che desse la possibilità di non tralasciare nulla degli aspetti fondamentali che più hanno influenzato la sua vita e il suo operato criminale, e il racconto ad episodi si è rivelato il più esaustivo. Se il cinema vorrà ancora una volta raccontare la storia di Dahmer dovrà certamente tenere conto del risultato ottenuto da Murphy, record di visualizzazioni in sole due settimane.

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