Da L'ultimo samurai a The Outsider: lo straniero in terra straniera

Andiamo ad analizzare l'immortale tema dello straniero in terra straniera partendo da una breve analisi del genere western.

Da L'ultimo samurai a The Outsider: lo straniero in terra straniera
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Molto spesso il cinema, così come moltissime altre forme di intrattenimento, si avvale di alcuni temi cardine o ricorrenti per raccontare storie sempre diverse, capaci di seguire una specifica struttura narrativa collaudata rimasta invariata nel corso dei decenni.
Tra i numerosi macrotemi utilizzati come "base" di moltissimi lavori, possiamo annoverare sicuramente quello dello straniero in terra straniera, capace di creare un forte senso di empatia con lo spettatore attraverso alcuni semplici (quanto funzionali) espedienti che approfondiremo qui di seguito, analizzando i temi principali di opere come L'ultimo samurai, Avatar e The Outsider, non prima però di aver fatto una breve digressione sul cinema western.

Alla conquista del (nuovo?) mondo

Il cinema hollywoodiano, nel corso dei decenni, ha letteralmente lanciato delle "mode", sia stilistiche che narrative, con cui il resto del mondo ha dovuto per forza di cose confrontarsi assimilandone passivamente, per così dire, alcuni aspetti.
Il genere western può forse essere preso ad esempio per spiegare nel dettaglio come si è evoluto nel corso del tempo il tema dello straniero, in un primo momento affrontato in maniera superficiale e macchiettistica e solo dopo (anche per via dei cambiamenti socioculturali avvenuti con il passare degli anni) rimodellato secondo canoni maggiormente coerenti e approfonditi.
Per molti decenni, infatti, moltissimi film con protagonisti gli indiani e i cowboy hanno descritto una realtà assolutamente priva di sfumature, mettendo in scena una divisione nettissima tra buoni e cattivi.
La dimensione a tratti epica/mitica di cui sono ammantate molte opere western classiche va ricercata nelle stesse origini degli Stati Uniti d'America; non potendo infatti aggrapparsi a una storia dalle radici millenarie, l'America, attraverso il cinema, ha iniziato una lenta ma costante opera di mitizzazione del proprio passato, arrivando però talvolta a cambiare anche la realtà oggettiva per rendere tutto più appetibile agli occhi del grande pubblico.
Ed è anche per questo motivo che in innumerevoli film è possibile constatare come la figura del cowboy sia presentata come quella dell'eroe senza macchia e senza peccati, che si ritrova spesso a confrontarsi con un nemico spietato, selvaggio e brutale (in questo caso gli indiani) che non fa sconti e non dimostra pietà per nessuno.

Il periodo storico di partenza si è trasformato presto in un semplice pretesto per raccontare macrostorie universali in cui la natura incontaminata è costretta ad arretrare di fronte al sempre crescente progresso tecnologico.
Nel corso dei decenni successivi, numerosi lungometraggi hanno poi cercato di invertire la rotta, complice anche la necessità di attualizzare una visione del passato troppo legata a una dimensione prettamente idealistica priva di oggettività.
I nativi americani hanno così iniziato ad assumere talvolta il ruolo di vittime piuttosto che di carnefici e gli stessi cowboy, prima descritti come dei veri e propri deus ex machina esenti da (quasi) ogni difetto, sono stati spogliati dalla loro natura semi divina.

Il processo, iniziato tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, ha poi portato nel giro di vent'anni al film che, probabilmente più di ogni altro, incarna l'essenza di questo cambiamento: Balla coi lupi.
L'opera, uscita negli anni '90 e vincitrice di sette premi Oscar, pur non discostandosi in realtà da numerosi punti cardine della cinematografia western, ha settato in maniera univoca un nuovo punto d'inizio per il genere, non tanto per essere stato il primo a descrivere in maniera diversa il rapporto tra nativi e non (basti pensare a Corvo rosso non avrai il mio scalpo del 1972), quanto per l'enorme riscontro di pubblico ottenuto.

L'opera ha infatti reso mainstream la parabola dell'eroe che si discosta dalle proprie origini socioculturali in favore di una visione del mondo più ampia, rispettosa del prossimo e aperta al cambiamento.
Con il passare del tempo, la figura dei nativi ha quindi subito un vero e proprio cambiamento strutturale, arrivando a rappresentare sempre più spesso concetti come la salvaguardia ambientale e il rispetto reciproco.
Lo stesso Pocahontas, film Disney del 1995, rappresenta un tassello importante per la riabilitazione della figura dei nativi a livello cinematografico; l'opera risulta ancora oggi capace di far riflettere chiunque (sia bambini che adulti) su temi oggi più che mai attuali, tra tutti l'ambientalismo e il razzismo.

Samurai, alieni, yakuza

Nel film L'ultimo samurai, diretto da Edward Zick e uscito nel 2003, Tom Cruise interpreta Nathan Algren, un ex capitano del 7° reggimento di cavalleria comandato dal generale Custer.
Il protagonista si ritrova a dover addestrare i soldati giapponesi al servizio dell'imperatore Meiji così da sconfiggere una volta per tutte alcuni samurai ribelli (che in realtà si professano a loro volta al servizio dell'imperatore).
Durante una missione qualcosa però va storto, Algren viene fatto prigioniero dai samurai e si ritrova costretto a iniziare una nuova (e a tratti spiazzante) fase della sua vita, nella quale è portato a mettere tutto in discussione.
Il film, pur puntando in maniera abbastanza marcata sull'esotismo, riesce comunque a costruire una storia solida capace di sfruttare appieno i punti di forza del tema alla base dell'opera.
L'inserire il protagonista in un mondo a lui sconosciuto lo pone di fatto in una situazione di difficoltà, costringendo in un certo qual modo lo spettatore (che magari non condivide i suoi ideali) a parteggiare comunque per lui.
A molte persone infatti, almeno una volta nella vita, è capitato di sentirsi fuori posto o fuori contesto, a scuola, a lavoro o da qualsiasi altra parte.
Ed è proprio per la facilità di immedesimazione dello spettatore in una situazione di questo tipo che il tema dello straniero in terra straniera è stato adottato in un numero davvero considerevole di opere.

Il contrasto con una cultura diversa dalla nostra (qualunque essa sia) è infatti un qualcosa che atavicamente ci spaventa nel profondo, perché legata a doppio filo con la paura dell'ignoto; il protagonista si ritrova quindi in balia degli eventi, incapace di comprendere appieno la sua sorte.
Oltretutto, i problemi legati alla sua dipendenza dall'alcol (nati per dimenticare gli orrori della guerra vissuti in passato) ribadiscono la sua voglia di fuggire davanti alle difficoltà.
Con l'avanzare dei giorni, però, Algren inizia lentamente a comprendere i valori della nuova cultura che si trova di fronte, cercando poi di assorbirne alcuni degli aspetti salienti e provando, a suo modo, a integrarsi in una società distante anni luce dai suoi usi e costumi.

La sua grande testardaggine, dapprima legata indissolubilmente alla sua arroganza fuori scala, muta progressivamente trasformandosi in una maggiore consapevolezza di sé e di quello che gli sta intorno.
Algren, in modo del tutto inaspettato, riesce in questo modo a ritrovare una serenità considerata perduta per sempre. Lì, in un luogo inaspettato, lontano da casa, dal mondo, da tutti.
Allo stesso modo lo spettatore, che viene catapultato in una realtà del tutto estranea a quella iniziale, si ritrova a riflettere su numerosi temi come la solitudine, il rispetto reciproco e il senso dell'onore.

I samurai ribelli, capitanati da Katsumoto, rappresentano quindi lo spirito ancestrale del Giappone che, volente o nolente, deve scontrarsi con la modernità, andando quindi a ripescare uno dei punti chiave di tutta l'epica western classica.
L'opera mette in scena una storia di caduta e redenzione, di rivalsa e di rispetto, andando a toccare tutta una serie di cliché collaudati senza però eccedere nell'utilizzo della retorica (a parte per il finale), confezionando così un film sicuramente non perfetto ma comunque godibile.
In Avatar, pellicola uscita nel 2009 diretta da James Cameron, pur ritrovandoci in un contesto completamente diverso (le vicende si svolgono infatti su un pianeta alieno) lo sviluppo narrativo ricalca da vicino quello de L'ultimo samurai (e di molti altri film con una struttura simile come il già citato Pocahontas), a testimoniare la grande adattabilità del macrotema preso in esame.

Il protagonista, un ex marine costretto sulla sedia a rotelle di nome Jake Sully, si ritrova in breve tempo a pilotare un avatar (una sorta di corpo artificiale creato in laboratorio) per entrare in contatto con il popolo alieno dei Na'vi, gli abitanti del pianeta Pandora, fulcro di tutta la vicenda.
Jake, in questo caso, oltre a entrare in contatto con una civiltà a lui sconosciuta, riconoscendone con il tempo l'indiscusso valore morale, migliora letteralmente anche la propria condizione di vita.
Il marine, infatti, controllando il corpo dell'ibrido, riesce nuovamente a camminare, particolare in grado di rimarcare l'intenzione del regista di voler conferire agli alieni una valenza a tratti messianica e/o salvifica, in netta controtendenza rispetto alla fazione degli umani (di cui lo stesso Jake fa parte), intenzionati a invadere il pianeta per appropriarsi delle risorse presenti.

In Avatar, quindi, torniamo in un certo senso a una visione maggiormente didascalica dei due schieramenti, in cui non esistono sfaccettature complesse e dove il finale risulta scontato.
Il protagonista rappresenta ancora una volta l'archetipo dello straniero in terra straniera, seppur la sua apertura mentale verso la nuova cultura che ha di fronte avvenga in modo abbastanza rapido e privo di ostacoli degni di nota.
A chiudere il cerchio ci pensa The Outsider, film diretto da Martin Zandvliet uscito nel 2018 su Netflix, in cui il protagonista delle vicende, anche in questo caso, è costretto a fare i conti con una realtà a lui sconosciuta.

La trama, molto semplice e per buona parte della pellicola solo abbozzata, vede Nick Lowell, un soldato americano dal passato misterioso, entrare tra le fila della Yakuza (la celeberrima organizzazione criminale giapponese) dopo aver aiutato a evadere dal carcere un esponente di un clan importante.
Il film, pur non presentando una progressione narrativa armonica, risultando quasi più un collage serrato di numerosi momenti diversi, ha comunque il merito di focalizzarsi su tematiche quali il razzismo e il rispetto reciproco senza scivolare nel perbenismo.
Nick Lowell, interpretato da Jared Leto, è infatti un personaggio negativo, che non esita a compiere i più efferati delitti (tra cui l'omicidio) pur di guadagnare il rispetto degli altri affiliati.

Durante il film, da subito, è posta grande enfasi sulla potenza del linguaggio e di come esso possa realmente rappresentare un vero e proprio muro invalicabile in determinate situazioni.
Lowell ribadisce infatti con forza di non capire la lingua dei suoi interlocutori; allo stesso modo, i vari esponenti della Yakuza non perdono occasione di schernirlo rivolgendosi a lui in modo dispregiativo con il termine gaijin (cioè colui che non è del luogo), un estraneo appunto.
La tematica del razzismo è presente (e palpabile) per tutta la durata del film; gli occidentali infatti si rivolgono ai giapponesi con termini dispregiativi, ribadendo la loro supremazia in seguito alla vittoria ottenuta durante la seconda guerra mondiale (gli eventi si svolgono a metà degli anni '50), allo stesso modo i giapponesi si rivolgono agli occidentali con astio e sdegno.

Nick Lowell si ritrova così all'interno di un contesto che non è il suo, intenzionato a carpirne i segreti in primis per necessità ma anche per la lealtà che prova nei confronti di Kiyoshi, membro della Yakuza a cui deve praticamente tutto.
Il protagonista affronta così ogni situazione con fare apatico e a tratti disinteressato, salvo poi esplodere in alcuni momenti di lucida follia capaci di descrivere molto bene la psiche disturbata del personaggio, tormentato anch'esso da demoni interiori con cui però non vuole confrontarsi in alcun modo.
The Outsider riesce quindi nel difficile compito di raccontare una storia sulla paura del diverso focalizzandosi sulle numerose sfumature dietro la dicotomia bene/male, riuscendo al contempo a farci riflettere sull'insensatezza del razzismo e su paure (estremamente radicate nella nostra cultura e nella nostra società) che, se alimentate, non possono far altro che sfociare nella violenza.

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