Da Gomorra a Ultras, il marketing del male ci fa bene?

Il cinema italiano si sta inerpicando sempre di più in produzioni che raccontano il male: quanto può giovare questa direzione?

Da Gomorra a Ultras, il marketing del male ci fa bene?
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Il cinema ha da sempre accolto tra le proprie braccia le storie sul crimine: dare visibilità a un determinato tipo di filone è figlio sia delle necessità di marketing che di raccontare storie nude e crude, aspetti che emergono soltanto sul grande schermo, romanzati per poter essere meglio comunicabili a una platea più vasta. Diventa d'altronde più affascinante la storia, anche quella dei borghi o dei piccoli avvenimenti: ce lo ha insegnato degnamente Pierfrancesco Diliberto in arte Pif con i suoi due film da regista. In particolar modo In guerra per amore ha saputo darci una visione edulcorata della nascita della mafia in Sicilia, continuando a battere su un tema a lui molto caro e raccontato in un modo naif, comprensibile anche a un pubblico meno accorto e non necessariamente informato dei fatti.
Eppure l'Italia ha sempre prediletto un altro tipo di racconto, un modo di inserirsi nel genere di film che potremmo annoverare come "di mafia", cercando di incattivire moltissime fattispecie narrative, creando degli stilemi che spesso sono andati anche a soverchiare l'umana realtà.

I primi esempi di cinema di mafia

Ogni Paese ha il proprio crimine da raccontare e le proprie finalità: in America il cinema ha sempre spinto nel genere in questione degli eroi, dei divi, che si ritrovano contestualmente coinvolti in attività criminali, diventando quindi duplice faccia della medesima medaglia. L'Italia, invece, dal canto suo ha saputo sfruttare questo filone narrativo come una vera e propria lotta al crimine organizzato, sulla scia di quelle indicazioni che Roberto Saviano, fortunato autore di Gomorra, aveva fornito in tempi ancora non sospetti. Le origini del film sulla criminalità si ritrovano negli anni Sessanta, per mano di Francesco Rosi con Salvatore Giuliano. Siamo nel pieno del Neorealismo, in Sicilia, con il regista che vuole raccontare gli avvenimenti scaturiti dal ritrovamento del corpo del criminale, morto appena dieci anni prima l'inizio della lavorazione.
Era un altro tipo di cinema, un modo decisamente diverso di raccontare la mafia, che negli anni è finita per essere esasperata con quella violenza che ci ha portato inevitabilmente a rendere Gomorra il prodotto più esportato all'estero tra le nostre produzioni.

Siamo ben lontani anche da Il padrino, a oggi il capolavoro del genere, firmato da Francis Ford Coppola nel 1972 e primo capitolo di una trilogia che non ha bisogno di presentazioni. I cento passi di Marco Tullio Giordana, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese e C'era una volta in America di Sergio Leone, però, riescono a inserirsi in un contesto storico che racconta e porta alla luce, che semplifica e massifica la lotta alla mafia, con violenza, tradimenti e rimorsi, ma permettendoci di avere una finestra comoda e agiata su quel mondo complesso e spaventoso che è la criminalità organizzata.
Degli aspetti che, ultimamente, sembrano essersi persi nelle produzioni italiane che spingono sul "marketing del male".

Tra cronaca nera e revisionismo storico

A braccetto con quel fenomeno mondiale che è diventata la serie di Gomorra, alla quale tra l'altro di recente si è anche accostato L'immortale, debutto alla regia di Marco D'Amore, si è presentato su Netflix Ultras, il film firmato da Francesco Lettieri e che racconta la storia di un gruppo di tifosi del Napoli, inevitabilmente destinati a una vita di violenza e di cattiveria gratuita. Vogliamo focalizzarci sulla necessità di andare a raccontare con questi toni eventi che da anni, in tutto il Paese, si stanno cercando di arginare e di evitare. L'Italia, soprattutto in ambito calcistico, sta provando numerose strade per cercare di limitare eventi come la morte di Ciro Esposito o Gabriele Sandri. E in questo percorso diventano quantomai interessanti le dichiarazioni che la madre di Ciro ha rilasciato dopo la release di Ultras: da anni si cerca di combattere la violenza e quel mondo, a tutti gli effetti criminale, messo in piedi da alcuni gruppi di tifosi utilizzando proprio questi avvenimenti di cronaca nera a mo' di monito. Gli sforzi compiuti però sembrano essere sempre messi in secondo piano e nascosti sotto al tappeto del marketing del male.

Il successo che banalizza la mafia

Gomorra è un ottimo prodotto, che mette in scena delle competenze produttive di primissimo ordine, una serie che merita il successo che ha avuto.
C'è chi è genuinamente appassionato alle vicende, che spesso assumono anche le fattezze del thriller nei vari scontri tra famiglie, c'è chi invece non riesce a farsi interessare da quel mondo che gli sembra talmente lontano da non riuscire a sopportarlo nemmeno in televisione.
Aspetti soggettivi, che come in tutti i generi e i settori non vanno a inficiare, però, la qualità.

Resta inevitabile la domanda provocatoria: abbiamo davvero bisogno di prodotti che inneggiano alla violenza e che hanno come fil rouge della vicenda la crudeltà e l'abominio umano per cercare di tenercene a distanza e combatterlo?
La domanda troverà numerose risposte, ma è impossibile non pensare alla scena conclusiva di quel compendio sul fenomeno Gomorra quale è la serie dei The Jackal intitolata Gli effetti di Gomorra sulla gente.
Accanto a quel susseguirsi di ironia e satira, rivolta a chi negli anni d'oro della serie non poteva fare a meno di ripetere le battute più iconiche come un mantra o come se stesse recitando scene di vita vissuta, Ciro Priello e Fabio Balsamo si ritrovano a condividere il tavolo con Roberto Saviano, al termine della terza e ultima puntata della mini-serie web.

L'autore di Gomorra, che dalla cultura popolare è ritenuto essere colui che per primo ha scoperchiato il vaso di Pandora della camorra, tenendo ovviamente il ritmo della comicità proposta dal collettivo napoletano nei minuti precedenti, suggerisce che è giusto che si parli della mafia e della criminalità nei termini che Gomorra ispira.
È così che si mistifica e si banalizza un'organizzazione la cui capillarità e diffusione è attualmente ancora ignota. Una visione indubbiamente valida, fortificata dal fatto che a fornirla è lo scrittore più impegnato nelle attività di reportage e indagine sulla camorra, ma che lascia spazio a tantissimi altri modi di approcciare la questione.

Il racconto del male e l'esasperazione della violenza

Ultras, dal suo canto, ha raccontato un mondo che rende difficile anche solo l'ispirazione per determinati comportamenti: se Gomorra era riuscito a entrare nel cuore di molti, la storia della tifoseria organizzata di Pozzuoli e i quartieri annessi alla città napoletana risulta essere un agglomerato di cattiveria gratuita e di violenza dispersa nell'aria tra ingenui giovani. Non si spara, ammette lo stesso regista, ma si gioca con le pistole per tutto il film; non si ruba, ma dei giovanissimi ragazzi napoletani si aggirano con i loro scooter con fare per niente gioviale tra le strade di Pozzuoli a cercare di sovvertire l'ordine della camorra imponendone uno tutto loro.
Non sono scene di vita vissuta, non sono evidenze dinanzi alle quali dobbiamo arrenderci, perché Napoli - nello specifico caso di Ultras, ma anche di Gomorra - non è solo questo, non è solo criminalità organizzata e ricerca perenne della vittoria sull'altro utilizzando il sotterfugio e la violenza.
E a dimostrarcelo ci sono i numerosi film che negli anni hanno saputo raccontare la provincia campana con fare gioviale.
Senza voler scomodare i principi della commedia, come Totò, Eduardo o anche Troisi, basti pensare ai più recenti di Siani, ma anche alla volontà di dare un'idea più romantica di quel golfo che tanto ha fatto innamorare Valeria Golino con il suo Per amor vostro, o anche quell'inaspettato soggiorno che vide Matt Damon e Jude Law battagliare per un patrimonio milionario ne Il talento di Mr. Ripley, ambientato in buona parte a Napoli.
Garrone ci aveva ambientato Reality, John Turturro l'aveva usata come palcoscenico per Passione, il documentario sulla tradizione musicale partenopea, e Ozpetek nemmeno troppi anni fa ci aveva costruito dei cunicoli di mistero con Napoli velata.

Quando non mostrare è più efficace dell'evidenza

Abbiamo sempre bisogno del bene e del male, perché l'uno ci aiuterà a riconoscere l'altro: ci servono sia Batman che Joker, sia la storia di Peter Pan che di quella di James Hook, ma tutto sta nei termini e nei modi. Inevitabilmente l'antagonista finirà per essere molto più crudo e rude nelle sue azioni, ma questo non deve condurci a esaltare quel marketing del male che ci sta spingendo ad amare di più le produzioni sulla criminalità e di meno quelle documentaristiche, che ci raccontano la storia edulcorandone alcuni aspri concetti e proponendocela in maniera più indorata. Non ci resta che sottolineare, ancora una volta, come pur raccontando due aspetti che si sposano benissimo quali la camorra e la mafia, Garrone e Pif riescono a intraprendere due diverse strade che conducono allo stesso obiettivo.
Il primo persevera con il proporci la violenza, il secondo ce la racconta in maniera più subdola, nascondendola sotto quel tappeto che è l'amore, dilaniato da un fenomeno che va combattuto, non fatto passare per quotidiano e invincibile.

Se Ultras e Gomorra ci faranno ragionare sulle tematiche della mafia ce lo dirà il tempo. Che Pif riesca a farlo è indubbio, perché la sua proposta si basa su quell'evoluzione di uno stratagemma narrativo che apparteneva agli horror di un tempo e che lo stesso Walt Disney aveva adottato in Bambi: non far vedere è molto più spaventoso del mostrare.
E una pistola che spara in testa all'avversario di turno non potrà mai impaurire tanto quanto il ritrovamento di un corpo di un soldato impiccato a un ramo di un albero, del quale nulla si sa, nulla si è visto, ma che da solo è più potente di qualsiasi esplosione. Basta chiedere anche a Tom Ford e al suo Animali notturni.

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