Civiltà Perduta, Ad Astra e il cinema di James Gray

Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2019, lo sci-fi con Brad Pitt è un sequel spirituale dell'avventura con Charlie Hunnam.

Civiltà Perduta, Ad Astra e il cinema di James Gray
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C'è un uomo valoroso in chiara difficoltà emotiva, una convocazione ufficiale da parte di ufficiali tutti sorrisi compiacenti e mezze verità, una missione pericolosa da compiere portando a termine un lungo viaggio verso l'ignoto e soprattutto una persona da trovare, una che non vuole essere trovata, una che ha voltato le spalle alla propria nazione e forse all'umanità intera.
Potrebbe sembrare la trama di Apocalypse Now - e infatti lo è - ma per forza di cose è anche quella di Ad Astra, nuovo film del maestro James Gray che torna al Cuore di Tenebra di Joseph Conrad a tre anni dalla sua ultima fatica, The Lost City of Z (arrivato in Italia come Civiltà Perduta), che già del romanzo dello scrittore polacco-britannico uscito nel 1899 e del capolavoro di Francis Ford Coppola era una sorta di rivisitazione.
A qualche mese dalla presentazione di Apocalypse Now Final Cut, Gray prende Brad Pitt - in un anno stratosferico che lo ha visto brillare in C'Era Una Volta a Hollywood di Quentin Tarantino - per viaggiare attraverso il Sistema Solare per trovare suo padre Tommy Lee Jones come il Benjamin Willard di Martin Sheen si spostava dal Vietnam alla Cambogia per arrivare ai soliloqui del disertore colonnello Walter Kurtz di Marlon Brando, allo stesso modo in cui Charles Marlow viaggiava lungo il fiume Congo per incontrare il commerciante d'avorio Kurtz.


Siamo praticamente sulle medesime orme di Civiltà Perduta, fra i più belli e sottovalutati lungometraggi degli ultimi tempi, in cui l'esploratore Percy Fawcett di Charlie Hunnam viaggiava per l'Amazzonia alla ricerca di un'antica civiltà perduta: quel film era basato a sua volta su un altro libro, la biografia di Fawcett scritta da David Grann, ma cinematograficamente vicinissimo all'opera di Coppola, non a caso si rifaceva ad alcune di quelle sensazioni e a molte trovate visive (citava perfino l'apparizione della tigre, sostituendola con una pantera nera) però aveva altri scopi, primo fra tutti la celebrazione dello spirito pionieristico dell'uomo, che invece Apocalypse Now rigettava. Con Ad Astra ogni celebrazione viene interrotta.

Apocalypse Tomorrow

Stiamo distruggendo la Terra nel 2019 e in un futuro prossimo potremmo perché no tentare di fare lo stesso con l'intero Sistema Solare: secondo James Gray tutto avrà inizio una volta che il progresso tecnologico ci permetterà di spingerci fino a Nettuno, di colonizzare la Luna e costruire basi sotterranee su Marte, perché a quel punto il capitalismo avrà altri territori da conquistare, da infettare, da uccidere. È una delle idee migliori del progetto, vedere le insegne di Subway sulla luna non fa ridere ma mette una grande paura perché c'è da credere a Roy McBride (il personaggio di Pitt) quando dice che l'unica cosa che la razza umana ha saputo fare è portare su altri pianeti le stesse cose che ha cercato di lasciarsi alle spalle quando ha iniziato a muoversi verso lo Spazio.


L'evoluzione del pensiero di Civiltà Perduta è evidente: agli albori del 1900, quando sul pianeta che ci ha dato i natali erano ancora presenti vaste zone inesplorate che aspettavano solo di essere mappate, Gray guardava al suo personaggio protagonista e alla sua storia con fascinazione e curiosità, senza dimenticarsi di esaminarne difetti e ombre, certo, ma raccontandolo con un'ammirazione che trasudava da ogni inquadratura.
In Ad Astra accade invece l'esatto contrario, McBride è un uomo distaccato ai limiti dell'apatia che lascia la sua donna senza ripensamenti e che forse troverà proprio nel freddo Spazio un modo per rientrare in contatto con la sua sensibilità. Lo sguardo con cui Gray analizza il protagonista del suo viaggio interplanetario è indagatore e inquisitorio, quello con cui si analizza un problema da risolvere e non un modello cui ispirarsi. È questo punto di vista a rendere Ad Astra un'opera totalmente diversa rispetto ai recenti drammi spaziali arrivati al cinema.

Odissea nel Sistema Solare

Lo sguardo con cui il cineasta si rivolge al protagonista è lo stesso che viene riservato all'altro personaggio principale di Ad Astra, ovvero il Sistema Solare: James Gray è il primo cineasta che sembra voler dichiarare un timore reverenziale gigantesco nei confronti dell'Universo, non è affascinato ma al contrario ne è terrorizzato, perché lo Spazio nasconde il rischio che non ci sia assolutamente niente oltre l'essere umano e che quindi l'uomo possa riempirlo all'infinito delle storture che lo contraddistinguono.
Dal Marte di The Martian di Ridley Scott alla nuova galassia scoperta dai protagonisti di Interstellar di Christopher Nolan, dalla luna di First Man di Damien Chazelle all'atmosfera fluttuante di Gravity di Alfonso Cuarón, l'esplorazione spaziale al cinema è sempre andata di pari-passo con la scoperta e l'emozione della scoperta, che può suscitare sentimenti più o meno positivi, ma che comunque rappresenta una parte importante nell'economia della storia e nelle motivazioni dei personaggi.

In Ad Astra queste sensazioni non ci sono perché non c'è più niente da scoprire, l'esplorazione che Percy Fawcett aveva iniziato viaggiando verso l'Amazzonia nel 1905 si è spinta fin dove poteva raggiungendo Nettuno: dopodiché, il nulla. Scampoli di meraviglia si possono rintracciare di quando in quando in orbita sul pianeta blu, l'ottavo e il più distante rappresentante del Sistema Solare dopo l'esclusione di Plutone, forse perché raramente mostrato al cinema (ci viene in mente l'horror fantascientifico Event Horizon di Paul W. Anderson, che però risale al 1997), ma anche in quel frangente il film è concentrato a fare tutt'altro.

Gray poi, a differenza di tutti i suoi colleghi sopracitati - Cuarón escluso, in quanto esula dal discorso che segue perché creatore di un'estetica tutta sua - è il primo a distaccarsi a livello visivo dall'estetica creata da Stanley Kubrick nel capostipite di tutto 2001: Odissea nello Spazio: non ne copia una sola inquadratura nel mostrare lo spostamento dei corpi artificiali nello Spazio, mostra sequenze lunari totalmente differenti, addirittura Giove, meta ultima del viaggio kubrickiano, appare in un solo frame soltanto per essere superato frettolosamente; una montagna gigantesca da valicare e lasciarsi alle spalle per spingersi verso un nuovo tipo di orizzonte, in una scena che pare una dichiarazione d'intenti.

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