Café Society: Woody Allen fra biopic e omaggio vintage

Cinque anni fa usciva in sala uno dei film più divisivi ed enigmatici del grande Woody Allen, a metà tra biopic e omaggio vintage.

Café Society: Woody Allen fra biopic e omaggio vintage
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Quando fu presentato a Cannes, nel 2016, Cafè Society di Woody Allen divise pubblico e critica, come del resto era tipico negli anni 2000 per ogni opera del maestro newyorkese. Complesso, visivamente piacevolissimo, animato da un cast a dir poco perfetto, rimase però secondo molti a metà tra ironia e malinconia, tra autobiografia e omaggio al tempo in cui Hollywood era fabbrica dei sogni, in cui però l'elegia era troppo evidente.
A cinque anni dall'uscita, è il caso di analizzare di nuovo quel film, quel particolare viaggio tra romanticismo e rimpianto per capire come e quanto ci abbia parlato di un regista tra i più celebrati e audaci, al netto della sua paradossale coerenza nel parlare bene o male sovente delle stesse cose.

A spasso nella Hollywood che fu

Cafè Society partiva dalle speranze e sogni del giovane newyorkese Bobby (Jesse Eisenberg), che lasciava la Grande Mela per raggiungere a Hollywood lo zio Phil Stern (Steve Carell) uno dei più blasonati e considerati produttori e agenti dell'industria cinematografica.

L'occasione è anche il modo per lasciare per sempre l'ombra del fratello maggiore Ben (Corey Stoll) gangster dai modi spicci e ben poco assimilabili al romanticismo e ai sogni di successo con i quali Bobby si appresta a fare il suo ingresso nel mondo della celluloide degli anni '30.
Il suo universo cambia completamente quando incontra la segretaria e segreta amante di Phil, la giovane e ingenua (apparentemente) Veronica (Kristen Stewart), che stregherà il suo cuore e lo farà precipitare in un vortice fatto di sentimenti e delusioni che ne condizionerà il resto della vita.
Film incredibilmente elegante grazie alla fotografia del nostro fuoriclasse Vittorio Storaro, nonché ai costumi di Suzy Benziger, Café Society ancora oggi è particolarmente enigmatico nella sostanza.
A tutti gli effetti è un autoritratto di Allen, ma anche una doccia fredda esistenziale, un declinare la tragedia del crescere, dei sogni e degli entusiasmi scomparsi, del romanticismo dei vent'anni che se ne va, evapora come i drink nei bicchieri della California dorata delle star che furono.
Giocato sull'eterna contrapposizione tra giorno e notte, interno ed esterno, impreziosito da una dimensione elegiaca strutturata sugli abiti, i sorrisi, le pettinature, Café Society in realtà nasconde un velo di tragedia e incompiutezza alquanto disturbante.
Su tutto e tutti, anche su un bravissimo Eisenberg, domina lei, Kristen Stewart, che si agita con fare svampito e irresistibilmente opportunista, racchiudendo in sé tutto il meglio e il peggio che per Allen le donne hanno sempre rappresentato.

Un mondo fatto di sogni e ipocrisia

Per Allen le donne, il cinema e la propria esistenza sono il fulcro di un percorso che ci ha sempre parlato del contrasto tra ciò che vorremmo fosse la realtà e ciò che essa è veramente, sullo struggente conflitto tra ambizione e talento.
Il simbolo è proprio lei, Veronica, bella, dolce, apparentemente tutto ciò che Bobby dovrebbe desiderare, ma in realtà uno degli emblemi di opportunismo e trasformismo migliori che Allen ci abbia mai donato.

Kristen Stewart, con la sua bellezza da eterna Lolita e il suo animo da svampita si erge come trappola ferale per la mente di Bobby, che a causa sua lascia Hollywood e i sogni dorati per tornare da dove era venuto, incontrando quel successo che altrove aveva cercato.
Non conta che sulla sua strada incontri un'altra Veronica, una travolgente e sensuale Blake Lively, che agli occhi dello spettatore, del mondo, la supera in tutto, in ogni qualità che un uomo vorrebbe trovare nella compagna della vita. Per Bobby quel qualcosa di non tangibile, di non realizzato, è un chiodo fisso, è un miraggio che però non può non inseguire.
Parla di sé Woody, di Harlene, Louise, di Diane Keaton e Mia Farrow, di Soon-Yi Previn, di quella ricerca che dura una vita, degli errori e del vedere sempre nell'altra o nell'altro ciò che vogliamo e mai ciò che vi è veramente.
Bobby è lui, che giovane e squattrinato nel giro di poco tempo diventò famoso negli anni '60, che in fondo erano degli altri anni '30 da certi punti di vista, in un'America non meno equivoca e senza senso, ipocrita e bigotta di quella che ci viene mostrata in questo film dai colori pastosi e glamour.
Tuttavia permane il disagio, l'impressione che Woody sia fin troppo indulgente con i suoi personaggi, soprattutto con il suo alter ego, parodia di un piccolo borghese, partito rivoluzionario e invecchiato precocemente tra noia e lusso, in quel locale alla moda dove si sente un piccolo Cesare.

L'elogio dell'incompiutezza e del fallimento

Come in molti altri film quali Accordi e Disaccordi, La maledizione dello Scorpione di Giada, Magic in the Moonight, Allen esprime una ferocia sotto le righe, copre di ridicolo narcisismo i suoi personaggi, persino quello Steve Carell che in fondo è Bobby, solo molto tempo dopo.

Siamo condannati al fallimento dunque? Sì e no. Pure in questo Café Society è molto vago, mentre parodizza il jet set, il mito yuppie come Woody ha sempre fatto, l'icona del maschio americano forte e vincente.
Vi è un romantico amore per la disfatta nel cinema di Allen, un ostentato appagare la retorica della sconfitta più intima, individuale, segreta, quella che si palesa di fronte allo specchio o nel momento in cui Bobby rivede la prima Veronica. Siamo le illusioni che cerchiamo di essere?

Appare eloquente da questo film, forse però Allen commette l'errore di non andare fino in fondo, di non mostrarci quella desolazione, quel dolore che è chiaro negli occhi di questo trentenne pieno di ferite e rimpianti.
Tutto sa di morte ma è qualcosa che, pure qui, Woody non mostra che in frammenti. Sta finendo l'America del jazz e delle illusioni, di quel fermento generato dalla disperazione che piano piano scompare, nel paradosso della bufera bellica che di lì a poco si scatenerà.
Certo, come per Vicky Cristina Barcelona assistiamo alla potenza di una narrazione incentrata sull'incompiutezza, sull'insoddisfazione di quando capiamo che la nostra vita non dipende solo da noi, che non ne abbiamo il controllo.
Era qualcosa che gli era riuscito nella perfezione viscerale di Match Point. Qui invece vi è un elegante sussurro, un tenue tratteggio variopinto. Forse non abbastanza da uno come Woody Allen, il migliore di sempre nel farci sorridere con malinconia.

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