Avatar: La via dell'acqua ci insegna come guardare il cinema

La potenza totale di Avatar: La via dell'acqua è racchiusa anche in uno dei suoi messaggi più grandi: imparare di nuovo a guardare il cinema.

Avatar: La via dell'acqua ci insegna come guardare il cinema
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Vi ricordate quando da piccoli al mare sceglievamo una conchiglia, un sassolino (magari un coccio di bottiglia verde levigato) e poi lo buttavamo in acqua, aspettando che toccasse il fondo per cercarlo e andarlo a prendere? Azione che un bambino ripete più e più volte, aumentando magari la difficoltà, scegliendo un oggetto più piccolo o lanciandolo più in là, sempre più in là. In Avatar - La via dell'acqua c'è esattamente questa scena, che racchiude il senso primordiale del film: imparare. O imparare di nuovo. A respirare, a comprendersi, a parlarsi, a volare.

Ripartire da zero guardando sempre avanti, sempre un pelino più in là. Che è la stessa cosa che James Cameron vuole fare con questo secondo capitolo: farci imparare di nuovo a guardare il cinema. Un cinema che prima di questo Avatar non esisteva, per scagliare lo sguardo oltre e immaginarne uno che ora esiste, ma solo dopo La via dell'acqua. Lo spettatore va quindi a prendere quella conchiglia, immergendosi quasi letteralmente nel cinema di Cameron, tornando a riva cambiato, diverso. Migliore? Chissà, ma sicuramente con qualcosa in tasca che prima non aveva.

Avatar, la via dell'acqua e lo sguardo dello spettatore

È un capitolo di sguardi, questo, anzi, di primi sguardi, di occhi riaperti dopo l'oblio. L'oblio dei 13 anni dal primo Avatar, il medesimo del generale Quaritch. Che apre gli occhi, sconcertato dal nuovo mondo, poi si parla, insegna a sé stesso, che è come lui ma non lo è più.

Proprio come questo Avatar è figlio del primo capitolo, solo che durante il tempo passato è cresciuto, ha fatto esperienza, e ora è grande. Grandissimo. James Cameron costringe tutti i suoi personaggi a imparare qualcosa di nuovo. O qualcosa di vecchio, ma con una veste diversa. Siamo noi che rieduchiamo i nostri occhi alla strabordante perfezione tecnologica di questo Avatar. Come se dovessimo imparare di nuovo ad andare in bici, quando sotto sotto l'abbiamo sempre saputo fare. Quasi ci trovassimo davanti al passato cinematografico e dovessimo "ucciderlo" per poter andare oltre. Però anche se lo sgretoliamo fra le mani la polvere ci resterà sempre sul palmo. Cameron infatti non vuole cancellare quello che è stato, ma assimilarlo e riplasmare il nostro senso estetico, tondeggiando sugli occhi come mai prima d'ora.

Un padre impara

Anche lo stesso James Cameron deve imparare di nuovo. Anzi, lo ha fatto per tredici lunghi anni, partorendo un figlio che può finalmente dire suo.

Ma i problemi ci sono stati, come quelli di Jake, come quelli di qualsiasi genitore con i propri figli. E di qualsiasi figlio con i propri genitori. L'interscambio è continuo, frenetico, a tratti collerico ma sempre genuino, rispettoso. Lo stesso rispetto che non hanno le persone che non imparano, cioè il genere umano, mai pago e mai in grado di capire dai propri errori, reiterati ancora e ancora, in un processo inverso dell'apprendimento che sfocia nella brutalizzazione della natura e di tutto ciò che la circonda. Ma dalla natura dovremmo imparare, perché quella di Pandora va spesso oltre la nostra comprensione. E anche se ci sembra benefica o salvifica è sempre pronta a ribellarsi quando spingiamo i suoi limiti troppo oltre, quando anche per lei e per i suoi abitanti la linea tracciata non è più sopportabile.

Uno sguardo per uno sguardo

La grammatica degli sguardi nel film è totale. Tra l'altro, datelo anche voi uno sguardo alla nostra recensione di Avatar La via dell'acqua. Gli occhi dei personaggi sono sempre al centro dell'attenzione, enormi, proiettati verso cose nuove. I metkayina hanno occhi diversi, con le membrane li sbattono orizzontalmente, e questa diversità è la stessa nostra seduti in sala.

Ma rispetto al primo film La via dell'acqua compie un passo in avanti: non si guarda più, solo, con occhi nuovi, ma si guarda con gli occhi degli altri. Per capirli, e per comprendere noi stessi tramite i loro. Anche qui bisogna imparare, di nuovo, a guardare. Per non lasciare gli altri indietro ed entrare nel loro punto di vista. Le soggettive usate da Cameron sono infatti cruciali nel messaggio di scambio tra uno sguardo e l'altro, tra un pensiero e l'altro, tra lo schermo e lo spettatore. Che tentativo dopo tentativo ha finalmente trovato la sua conchiglia, aperto gli occhi e li ha fatti respirare sott'acqua per la prima volta nella sua vita.

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