Army of the Dead di Zack Snyder: tra supereroi non-morti e Apocalypse Now

Army of the Dead è l'ennesima sperimentazione del cinema di Zack Snyder, capace di guardare contemporaneamente sia indietro che avanti.

Army of the Dead di Zack Snyder: tra supereroi non-morti e Apocalypse Now
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Dopo essersi tolto un grosso sasso dalla scarpa con la director's cut di Justice League, Zack Snyder ha trovato nel servizio di streaming on demand Netflix la più ampia libertà creativa della sua carriera: finalmente lontano dal fiato dei produttori, Snyder con Army of the Dead ha messo insieme tutti i particolari del suo cinema realizzando l'ennesima opera sperimentale.
L'autore, munito di quella carta bianca che veniva consegnata alla comparsa con la maglietta di smile inchiostrata di ketchup nel finale dell'adattamento di Watchmen, diventa il demiurgo totalizzante di un film in cui si occupa di tutto - soggetto, sceneggiatura, produzione, regia, fotografia, e su questa ci soffermeremo particolarmente - e che rappresenta solo il primo passo di un progetto più ampio.
Non si può guardare al nuovo accordo con Netflix (che ha già dato il via libera a due prequel di Army of the Dead, mentre il sequel è praticamente dietro l'angolo) e non pensare a quello scemato con la Warner Bros. per il DC Extended Universe, quello abbandonato e pieno di "senni di poi" che oggi è conosciuto come Snyder-Verse.

Supereroi morti viventi

Con Army of the Dead del resto lo stesso Zack Snyder sembra voler riflettere sulla morte dei supereroi: questo regista, che è in grado di dire tutto sul proprio lavoro con una sola scena introduttiva in stile quasi-musical, in più di un senso sfrutta i suoi nuovi morti viventi per proseguire il proprio discorso visivo sui muscoli e suoi corpi immortalati nello spazio del quadro cinematografico, immaginando una realtà alternativa nella quale i superesseri in un certo senso esistono ma sono non-morti.
Guardate bene: fin dalla primissima scena, ovvero il prologo in salsa militare nel quale ritorna quel Michael Cassidy che era stato fugacemente Jimmy Olsen nel prologo di Batman vs Superman: Dawn of Justice, Zack Snyder a un livello visivo inizia a descrivere gli Alpha come farebbe con i superumani.
La presentazione del primo zombie Alpha, che si staglia sullo skyline di Las Vegas, sembra quasi offrire un'inquadratura speculare a quella della Justice League al completo alla fine della battaglia finale con Steppenwolf e il suo esercito.
E da lì in avanti Snyder andrà sempre meno per il sottile: la Sposa viene vestita non troppo vagamente come Wonder Woman e fatta muovere come farebbe uno Spider-Man, si indossano una maschera e un mantello che ricordano molto da vicino il fare di Batman.

Le tipiche inquadrature enfatizzate e testosteroniche con le quali l'autore ha glorificato la figura del superumano nell'arco dei suoi film sono riservate sempre e solo agli Alpha.
Addirittura torna la mitologia, dogma attraverso cui il cinema snyderiano ha raccontato i supereroi, nella figura di Zeus, leader di una nuova civiltà non-morta che domina i resti della Las Vegas post-apocalittica da un hotel in decadenza chiamato sfacciatamente "Olimpo".
Che cosa rappresentano questi super-zombie, questi esseri ancora una volta in tutto e per tutto migliori degli umani mortali? Sono, in un certo senso, le vestigia di un passato eternamente fuori campo, un prima verso il quale Snyder non si protende mai e che resta fuori, in una tv in sottofondo, o sepolto come lo è il "prima" del personaggio di Omari Hardwick, raccontato in una scena muta che dice tutto: e non a caso il suo finale sottolinea come Snyder voglia curarsi esclusivamente del futuro.
Ancora una volta, al centro di tutto, il corpo: quello di 300, quello di Watchmen, quello di Sucker Punch, quello dello Snyder-Verse DC. Un corpo di mummia, riesumato e putrefatto, appartenente a un'alba dei morti viventi e non a un'alba della giustizia.

Apocalypse Now, le stazioni, la fotografia

A ben guardare, però, dietro i lustrini sgargianti della città del peccato, i cliché dell'heist-movie con citazioni alla saga di Ocean's e a Una calibro 20 per lo specialista, Army of the Dead nasconde anche qualcos'altro.
Anche questa volta, come sempre nel cinema di Zack Snyder, il film è pensato per demitizzare e innovare, ma se nel mirino c'è molto evidentemente lo zombie movie, dietro l'originalità della premessa si nasconde un approccio cinefilo che affonda le proprie radici (o i propri denti, già che siamo in tema) in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.
Snyder ci gira attorno come farà la tigre Valentine con lo sfortunato personaggio di Garret Dillahunt: l'inquadratura di un elicottero stagliato contro il sole arancione lì, un rimando alle musiche di Wagner là, una cover di The End dei Doors inserita a tradimento.

Soprattutto la struttura narrativa, quel concetto di viaggio a tappe lungo la storia del cinema per guardarci attraverso. Il cammino del capitano Willard per arrivare dal colonnello Kurtz e la sua Las Vegas piena di "morti viventi" in Apocalyspe Now veniva trattato da Coppola come un itinerario allegorico lungo le tappe e i generi di Hollywood, dalla saga familiare al film di guerra, dall'horror al musical (pensate alla scena delle conigliette).
Lo stesso concetto Snyder lo applica specificatamente allo zombie-movie, mostrandoci progressivamente tutta l'evoluzione della figura del non-morto.
Si parte da quello lento e goffo alla Romero, si passa per quello più veloce e letale che si è imposto nell'immaginario collettivo dal 2000 in poi (con 28 giorni dopo e ovviamente L'alba dei morti viventi dello stesso Zack Snyder), e si arriva al nuovo Alpha, o super-zombie, un Kurtz/Dio che è il cuore di tenebra di una società di reietti abbandonati ed è perfino in grado di dare la vita dalla morte.
Come in Apocalypse Now, poi, l'impronta maggiore arriva dal punto di vista fotografico: la fotografia ha sempre giocato un ruolo fondamentale nel cinema di Snyder, è sempre stata un marchio identificativo.

In Army of the Dead per la prima volta diventa un vero fattore narrativo: attraverso un effetto eternamente e volutamente opaco (che fa quasi pensare a un mondo visto attraverso qualcos'altro, come accadeva in Apocalypse Now) Snyder dipinge una realtà illusoria, quasi onirica che sembra escogitata al solo scopo di evadere da quella reale, una Fuga da Las Vegas (la citazione carpenteriana è voluta) nella quale i soldi non sono mai il punto del discorso ma solo il pretesto che un padre trova per passare del tempo insieme alla propria figlia perduta.
E poco importa che ci siano gli zombie intorno a loro se c'è una sola possibilità di riallacciare i rapporti: i legami con la vita privata del regista sono evidenti e il film ci si butta come in un sogno agrodolce utilizzando delle ottiche che non per niente sono conosciute come "dream lenses".
Ma è soprattutto la maestria con la quale Snyder sfrutta queste lenti per definire lo spazio a rappresentare un nuovo discorso stilistico nel cinema mainstream: vero e proprio scultore di inquadrature fin da 300, l'autore con queste nuove ottiche riesce a ritagliare all'interno della stessa inquadratura degli spazi-altri, delle porzioni di testo da evidenziare, sottolineando visivamente ciò che vuole che l'occhio dello spettatore guardi con più attenzione.
Da quanto tempo non si vedeva un blockbuster così assolutisticamente senza compromessi per quanto riguarda il senso della vista? Forse bisogna tornare davvero alle Termopili di Leonida.

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