7 Psicopatici: fare, disfare e parodiare Federico Fellini

In modo provocatorio e forse volontariamente indiretto, Martin McDonagh si è confrontato tematicamente con uno dei maestri del cinema italiano.

7 Psicopatici: fare, disfare e parodiare Federico Fellini
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In questo complicato e tragico 2020, ripercussioni certamente minori rispetto all'economia globale e alla salute pubblica le ha avute anche il cinema, con particolare riguardo per le sale cinematografiche e svariate produzioni non ancora partite. Tra queste c'è purtroppo il nuovo e interessante progetto del brillante Martin McDonagh, blasonato autore irlandese già dietro agli ottimi In Bruges, 7 Psicopatici e il bel Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. Nelle sue opere, il regista ama soprattutto soffermarsi sull'introspezione dei suoi personaggi, solitamente inseriti in un contesto comico-drammatico venato di crime, noir e poliziesco. È un cinema particolare e riconoscibile che vive anche di diverse caratteristiche teatrali, a partire dalla composizione dei dialoghi e fino all'uso delle scenografie (anche esterne), tant'è che McDonagh è considerato uno dei più geniali drammaturghi della sua generazione e ha all'attivo diverse e applauditissime pièce.

Più che nel suo straordinario esordio alla regia con In Bruges e a quella che è stata ormai tre anni fa la consacrazione cinematografica del suo genio autoriale con Tre Manifesti, è però con il progetto mediano e più esasperato, eccentrico e dal concept articolato che McDonagh ha espresso la sua coscienza artistica per l'appunto più teatrale, per altro accostandosi a un gigante come Federico Fellini. Non nel modo in cui pensate, comunque, imitandone cioè la forma d'autore o il taglio stilistico, perché il regista irlandese ha "intrappolato" in 7 Psicopatici alcune tematiche estetiche e contenutistiche del grande maestro del cinema italiano, adattandole alla sua personale visione della crisi d'ispirazione di un rinomato autore di Hollywood.

7 matti e mezzo in cerca d'autore

Proverbialmente si dice che 7 sia il numero perfetto. È così perché matematicamente parlando si tratta di un cosiddetto numero felice e anche di un numero fortunato, perché i giorni della settimana sono sette, perché una fase lunare dura mediamente sette giorni, sette sono le stelle più luminose dell'Orsa Maggiore e così via. Non è un caso che proprio il protagonista del film di McDonagh, Marty Franan (Colin Farrell), abbia scelto dunque di raccontare e unire le storie di 7 Psicopatici nella sceneggiatura del suo nuovo film, che però tarda a prendere forma, essendo Marty privo di buona ispirazione e alle prese con problemi d'alcolismo.
Non è nemmeno un caso che lo abbia scelto il regista, a dire il vero, perché richiama al contempo alcuni massimi capolavori della storia del cinema come I Sette Samurai di Akira Kurosawa o I Magnifici 7 di John Sturges (dando subito il contesto dell'ambito raccontato) ed è esattamente un numero in meno rispetto a 8 e mezzo di Fellini e un numero in più rispetto ai 6 personaggi in cerca d'autore di Luigi Pirandello. Questi sono tutti riferimenti che soprattutto in chiave tematica e autoriale sono palesemente vividi all'interno del costrutto dialogico e narrativo impalcato da McDonagh, che riesce però nel suo massimo ingegno a farli propri e vestirli con abiti di genere sofisticati, intessuti di dramma e commedia.

Da Pirandello estrae e rielabora il discorso della ricerca di un'identità caratteriale che può farsi reale e divenire concreta soltanto grazie all'aiuto di un autore in grado di rappresentare emozioni, contraddizioni, drammi e umanità di personaggi che restano altrimenti aleatori o non completi. Intuizione, questa, che il regista sceglie poi di accorpare a una riflessione più esilarante relativa alla Perdita della Musa, all'assenza di genio, d'illuminazione, facendo coincidere proprio come nel cinema di Fellini la realtà con la fantasia.

È qui che McDonagh guarda oltre Pirandello e verso Fellini, sostituendo però un regista con uno sceneggiatore (ruolo per lui più comodo da approfondire) ed entrando a gamba tesa nei meccanismi creativi della sua arte, che priva di suggestioni ha bisogno di una scossa esterna, data dall'amico Billy Bickle (Sam Rockwell). Mentre l'autore prova a rimaneggiare Fellini, paradossalmente lo destruttura e lo disfa al contempo in un mirabolante susseguirsi di situazioni ai limiti dell'assurdo, che però quasi mai si intersecano con l'immaginifico o l'onirico, che anzi Marty (e dunque McDonagh) rifiuta con parodica sfrontatezza ("le scene oniriche piacciono solo ai fr**i").

C'è un chiaro gioco di verità e finzione che prosegue lungo tutto il film, anzi a partire già dall'inizio, ma non trascende mai il limite del potenzialmente reale, puntando appunto a toni sognanti e cinematograficamente sostenuti.

Eppure il senso del cinema di Fellini e di McDonagh è lo stesso, tra 8 e mezzo e 7 Psicopatici: fare in modo di riaccendere l'ispirazione di un soggetto grazie all'aiuto dei suoi amici o personaggi, che nella fantasia del secondo sono addirittura le stesse identiche persone, in un'ingerenza perpetua tra finzione e verità che stimola il genio di Marty fino all'Eureka conclusivo, quando a film fatto, finito e uscito arriva il momento di massimo nichilismo dell'autore, che proprio nel finale diventa quel Mezzo Psicopatico in più assente nel titolo.

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