5 grandi film cult che non potete non conoscere se avete Paramount+

Dagli anni Cinquanta alla fine del secolo, cinque opere che hanno rivoluzionato il cinema e che sono disponibili in streaming sulla piattaforma

5 grandi film cult che non potete non conoscere se avete Paramount+
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Tra le piattaforme di streaming presenti nel panorama italiano, Paramount+ ha saputo, fin dal suo recente esordio nel settembre 2022, ritagliarsi uno spazio notevole grazie ad un'offerta dedicata a clienti più esigenti, alla ricerca di grandi classici senza tempo e degli ultimi successi al box office, a pochi mesi dall'uscita in sala. Dalla saga di Scream fino alla più recente fatica di Babylon di Damien Chazelle (qui la recensione di Babylon), il catalogo - pur ridotto nelle dimensioni rispetto a quello di alcuni competitors - riesce facilmente a farsi rispettare.

Come già accennato, però, a far da padroni sono i grandi classici del XX secolo. Provando a delineare 5 grandi cult su Paramount+ non può non aver visto, la scelta è ricaduta sui titoli, per motivi vari e differenti, più importanti, quei film che hanno lasciando un segno su tutto ciò che è venuto dopo. Inoltre, si è evitato di inserire più film dello stesso autore (motivo per cui non è presente uno dei nomi di punta del catalogo, Il Padrino).

Viale del tramonto

Pochi altri titoli realizzati ad Hollywood hanno saputo raccontare così bene il sistema e il divismo, costruendo attorno ad essi un'aura affascinante ma al contempo macabra e deviata. Viale del tramonto (Sunset Boulevard) è uno degli apici degli anni Cinquanta, a metà tra dramma psicologico e commedia farsesca, capace di mescolare alla perfezione i generi e le tendenze del periodo per creare un mix esplosivo, che solo un maestro come Billy Wilder poteva trattare con un tale equilibrio.Quello di Wilder fu un titolo inizialmente osteggiato - ed egli additato come traditore - proprio per il modo con il quale veniva rappresentata la macchina hollywoodiana, creatrice ma soprattutto distruttrice di miti.

Viale del tramonto celebra il cinema, nel bene e nel male , e per farlo lo mette a nudo: in punta di piedi e gradualmente, dietro un'iniziale forma di pseudo riverenza, inizia svelarne le ipocrisie, le incoerenze e le meschinità, evitando di cedere in una facile retorica e senza perdere una sottile ma decisiva ironia nell'inquadrare le glorie di un passato dorato abbandonate e disilluse. Perché il tramonto del titolo è anzitutto quello delle vite dei protagonisti, dell'eticità in favore del cinismo produttivo e sociale, delle personalità di un cinema che si trasforma e muta velocemente, che lascia indietro e dimentica senza pietà il muto e le sue star, per far posto alle parole.

Un canto del cigno («Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo», dirà la protagonista Norma Desmond) per un'industria già allora sull'orlo del baratro, che trova ragion d'essere grazie soprattutto ai suoi interpreti e al meccanismo metalinguistico di fondo: Gloria Swanson, attrice prima d'allora inattiva da circa quindici anni, era davvero una diva del muto caduta in disgrazia, così come Erich von Stroheim, uno dei più importanti registi degli anni Venti (suo il leggendario Rapacità), messo da parte con l'arrivo del sonoro e rilanciatosi in seguito come attore (spicca un'indimenticabile scena che fonde realtà e fiction, nella quale viene proiettato La regina Kelly, film del 1928 diretto da von Stroheim stesso e con Swanson nel ruolo di protagonista).

Nashville

Il cinema americano classico ha sempre amato le storie, gloriose o tormentate che siano. Storie dallo sviluppo quanto più lineare, con un percorso riconoscibile. Con Nashville, il capolavoro del 1975 di Robert Altman, tutto ciò viene però meno: non è facile, e forse non ha neanche troppo senso, trovare parole soddisfacenti per descrivere un progetto nel quale bisogna immergersi, senza troppe linee guida, e nuotare nel mare caotico e nell'apparente disordine per poterne anche solo minimamente comprendere la portata.

Ad emergere è la coralità, con tantissimi personaggi al centro del discorso, nessuno veramente protagonista o forse tutti tali, ognuno con qualcosa da raccontare nell'intricata giungla di voci e musica. La vicenda principale è risicatissima e vede al centro di tutto un festival di musica country, attorno al quale si svilupperanno tutte le storie, le micro trame e le vie esplorate anche soltanto per pochi secondi che coinvolgono non solo musicisti ma anche giornalisti e personalità politiche alla ricerca di fortuna elettorale. A Nashville e in Nashville si trova chiunque, un microcosmo della vibrante società, non solo americana, degli anni Settanta.

Per certi versi, l'opera sembra avere la struttura e le intenzioni del documentario dell'indagine di natura antropologica, che rifugge liberamente dalle regole del cinema convenzionale, sperimentando con la scrittura e con il montaggio, alternando i racconti, intrecciandoli e facendoli confluire quando necessario, per poi vederli nuovamente sulla loro strada. Il vero punto forte del lavoro di Altman è proprio il suo essere indeterminato e indeterminabile: come la varietà delle sue voci eterogenee, esso stesso è impostato sempre diversamente, accumulando tanti film in uno solo, ed evitando di dare punti di riferimento precisi, uscendo da un contesto cinematografico che gli sta stretto, per diventare altro. Ma è in quella conclusione così forte che viene a galla il leitmotiv politico e critico che si era insinuato nella vicenda, esplodendo ed esplicitando il pesante lascito del pensiero rivoluzionario di fine anni Sessanta.

Apocalypse Now

Come già anticipato, l'assenza de Il Padrino è giustificata dalla presenza di un altro cult di Francis Ford Coppola, un lavoro epocale che trova pochi precedenti (ma anche successori) nella storia del cinema. Apocalypse Now ha una storia produttiva complessa e lunghissima, che ancora oggi sembra non finire per via dei costanti cambiamenti apportati dal regista al montaggio finale - solo pochi anni fa è arrivata nelle sale la versione che Coppola definisce definitiva, criticata negativamente da Paul Schrader - ma che ha dato vita a tutt'altro che un semplice war movie.

Ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, l'opera di Coppola contiene al suo interno una quantità di spunti di riflessione e letture impossibili da elencare con esaustività. Sfruttando un concept asciutto - la risalita di un fiume vietnamita per portare a termine una missione importante - l'autore innesta sul percorso tutti i tormenti, lo stress, le paure dei soldati, mettendo in scena situazioni al limite del possibile e contesti sociali e geografici onirici e allucinati. Se da una parte c'è la leggerezza, se così si può chiamare, dei momenti di stasi, nei quali il gruppo, tra musica a droghe, si diverte senza freni, dall'altra tutti gli eventi che si susseguono avranno un impatto devastante sulla mente dei soldati, fungendo quasi da seduta psicanalitica per conoscere se stessi e le proprie deviazioni, diventando sempre più irrazionali, fino ad arrivare all'incontro con il Kurtz di Marlon Brando, simbolo di una mente alla deriva e di un'oscurità alla quale facile cedere. Una visione del Vietnam cruda, sporca, orrorifica, distruttrice di corpi e menti, generatrice di mostri. «Il mio film non riguarda il Vietnam. È il Vietnam», disse, per l'appunto, Coppola stesso.

Un'odissea - e il possibile paragone con il poema omerico sembra azzeccatissimo - nelle tenebre della mente e del cuore dell'essere umano, in cui buoni e cattivi sono solo concetti astratti. Il grande cinema americano, quello autoriale e anticonvenzionale ma allo stesso tempo un grande spettacolo per chi ne fruisce. Apocalypse Now sembra esser stato per Coppola quello che il Vietnam è stato per i soldati americani: vivendo appieno il suo film, quest'ultimo l'ha lasciato privo di energie, facendogli passare il resto dei suoi giorni, fino ad oggi, ripensando al trauma, come un reduce di guerra, e cercando di rielaborarlo.

Chinatown

La grande stagione del noir era tramontata, il poliziesco della New Hollywood aveva messo da parte gli stilemi formali degli anni Quaranta e Cinquanta per diventare più "sporco" e diretto. In quel clima di decadenza e disillusione degli anni Settanta, però, quel genere in parte dimenticato tornò alla ribalta anche grazie Roman Polanski e a un film, nato su commissione e senza grandi pretese.

Quello del regista polacco (che non torna in America da quasi cinquant'anni), già noto per Rosemary's Baby e Repulsione, è un ritorno alle storie di detective e di corruzione, omaggio e rielaborazione in chiave moderna dei classici di genere - e per questo il termine neo-noir sarebbe più adatto. Le vicende dell'investigatore Gittes (che deve molto a Marlowe e all'hard boiled di Hammett e Chandler), assunto per indagare su presunte infedeltà ma coinvolto in uno scandalo ben più grande, colpiscono e affondano anche grazie alla capacità della scrittura di mescolare gli intrighi politici e le dinamiche sociali ed emotive dei personaggi principali, in un climax emotivo costante per tutto il corso del film.

Tra i punti di forza di Chinatown c'è proprio un'abilità encomiabile nell'analizzare un mondo alla deriva e senza speranza di rivalsa, senza intaccare l'eleganza formale dell'opera, dando alla messa in scena un'atmosfera opprimente ma mai visivamente aggressiva.

Polanski, infatti, sembra proprio interessato non a distaccarsi dai topoi iconografici del genere - la coppia di protagonisti lo incarna alla perfezione, grazie soprattutto alle straordinarie prove di Nicholson e Dunaway, così come i titoli di testa che rimandano al passato - quanto piuttosto a lavorare sulla stratificazione, oltre la delicata superficie, per lasciare un senso di nichilistica amarezza e sconforto, generati da un'oscurità nascosta che risiede nel cuore dell'opera, sulla scia di Lang o Houston, e che non lascia scampo neanche al detective di Nicholson, impotente e annullato da un potere più grande. Chinatown segna un periodo fondamentale per la storia del cinema, in cui Hollywood è in pieno mutamento e i cambianti passano, come spesso accade, dalla rilettura della tradizione, rispettandone i codici ma adattandola al presente, alle sue paure, incertezze, desideri e pulsioni.

Pulp Fiction

Cos'altro si può dire che non sia già stato ampiamente approfondito? Il secondo lungometraggio di Quentin Tarantino ha sconquassato e rovesciato non solo nel cinema degli anni Novanta, rappresentando uno dei massimi esempi di commistione tra "alto" e "basso", tra autorialità post-moderna e arte popolare. Pulp Fiction è una piccola follia libera che mette insieme narrazione destrutturata e intrecciata, volgarità spinta e violenza (sarebbe possibile rifarlo oggi?), oltre che molteplici citazioni cinefile - dalla Nouvelle Vague alla blaxploitation, dal cinema italiano a quello orientale - settando uno stile e un linguaggio che diventerà caratteristico del suo autore. I generi perdono i loro limiti, la commedia grottesca si fonde al poliziesco creando un ibrido portentoso dominato da un ordinatissimo caos, divertendo ed entusiasmando ogni volta come la prima.

Poche opere hanno goduto di un tale successo popolare, specie a distanza di decenni con la condivisione social: un fenomeno reso possibile grazie a sequenze indelebili e personaggi memorabili - il film lanciò definitivamente Uma Thurman e rimise in carreggiata la carriera di John Travolta - che giocano un ruolo fondamentale nel perfetto ed eccitante equilibrio orchestrato da un giovane Tarantino, già proiettato verso l'alto anche grazie all'inaspettata vittoria (era dato per sicuro vincente, anche in virtù della carriera straordinaria di Kieslowski, Tre colori: Film Rosso) della Palma d'oro al Festival di Cannes e all'Oscar alla miglior sceneggiatura originale.

E sta proprio in quest'ultima e nelle linee di dialogo inaspettate e travolgenti - una discussione sui panini al formaggio o sui massaggi ai piedi quando invece ci si aspetterebbe l'azione- una delle ragioni dell'exploit del titolo e del suo inalterato successo a distanza di quasi tre decenni. Tarantino sovverte le aspettative, stimola lo spettatore e, a volte, lo prende pure in giro, depistandolo volontariamente e divertendosi. Un cult fuori (e sopra) da ogni regola, da ogni tempo e da ogni gusto. Una piccola rivoluzione diventata sempre più grande negli anni ma iniziata sulla Croisette, con un dito medio rivolto ad un'anziana.

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