5 grandi ed epici film storici che dovreste guardare aspettando Napoleon

Dal piano sequenza russo a Shakespeare, l'epica in costume ha segnato la storia del cinema e continua ad affascinare: ecco 5 film storici da recuperare.

5 grandi ed epici film storici che dovreste guardare aspettando Napoleon
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Ci sono generi che si adattano a diverse forme di cinema e che possono contenere, al loro interno, svariate sottocategorie. Il film storico è senz'altro uno di essi, vista la sua identità fluida, capace di mutare a seconda della storia narrata o dell'epoca di riferimento. Perché non solo per "storico" si può facilmente intendere qualsiasi contesto ambientato nel passato - dal medioevo al Novecento, passando per la preistoria o l'antica Roma - ma così sono identificati, oltre ai prodotti che raccontano storie realmente accadute, o almeno adattando parte di esse (sovente intrecciandosi con il biopic), anche titoli che utilizzano un momento del passato come sfondo per le vicende da mettere in scena (in quel caso, non raramente, si parla di opere in costume).

Ma, sorvolando sulle definizioni e le categorie, il genere storico trova nel cinema, sin dai suoi albori, terreno fertile per affascinare e trasportare lo spettatore in epoche lontane. In occasione dell'uscita nelle sale di Napoleon (qui i film al cinema a novembre), diretto da Ridley Scott interpretato da Joaquin Phoenix, abbiamo scelto cinque grandi film storici - non i migliori quanto piuttosto cinque titoli di rilievo da vedere a prescindere - immancabili per gli amanti del genere e non solo.

Napoleon

Uno dei cult più strettamente legati all'opera di Scott ha in comune con essa titolo e protagonista, anche se la sua produzione risale a quasi cento anni fa. Il Napoleon di Abel Gance restituisce alla perfezione quel fermento artistico e culturale che animava la Francia, e l'Europa più in generale, degli Anni Venti, plasmando uno degli artifici cinematografici più sperimentali e produttivamente dispendiosi del tempo.

Il risultato è un'epica complessa e titanica (a partire dalla durata, che supera le cinque ore totali), incentrata sulla prima parte della vita di Bonaparte, inquadrato come mitologico condottiero autoritario e al di sopra della storia e del tempo - il film fu più volte accusato di nazionalismo, patriottismo sfrenato e persino militarismo, proprio in piena epoca fascista e con il nazismo che accumulava consensi.

Ma oltre al ritratto audace del francese, Napoleon è un attento sguardo sul potere politico e sociale, oltre che sulla distruzione causata dai conflitti bellici, proposto in maniera così magniloquente attraverso una messa in scena magistrale: uno shock sensoriale che sfrutta al meglio il montaggio e i movimenti di macchina per inondare la visione con vigorose immagini che si susseguono violentemente lasciando senza fiato, evidenziando una grammatica cinematografica raramente vista fino a quel momento.

Dalla giovane età alle campagne d'Italia, amalgamando aspetti pubblici e privati di Napoleone, Gance cerca di essere il più esaustivo possibile circa il carattere del suo antieroe romantico, che viene spogliato del delicato e pericoloso discorso morale per concentrarsi sull'esplorazione di tutte le sue enigmatiche sfaccettature. Così, superando la politica e i concetti di bene e male, oltre la retorica e la morale, l'autore francese prende Bonaparte e lo innalza a simbolo visivo, alla gloria dell'arte immortale.

Arca Russa

Esiste un prima e un dopo Arca Russa. Non che in passato non ci siano stati tentativi, anche riusciti, con e senza artifici, di realizzare piani sequenza più o meno lunghi (dai segmenti che compongono Nodo alla gola all'incipit de L'infernale Quinlan). La differenza sta nella portata delle operazioni: perché il film di Aleksandr Sokurov è, dall'inizio alla fine, un fluviale stream of consciousness per immagini, senza stacchi e tutto in soggettiva, tra diverse epoche, in un viaggio metafisico.

Un unico take, ininterrotto, di circa novanta minuti in cui l'Ermitage di San Pietroburgo diventa la miglior scenografia possibile per raccontare la storia della Russia: l'epoca di Pietro il Grande si intreccia con quelle future, sfociando nel contemporaneo, in cui i visitatori del museo scoprono quella stessa cultura.

Arca Russa è una riflessione malinconica su un paese in decadenza, ancorato al passato e ai ricordi. E forse l'opera stessa lo è: un viaggio nella memoria, un cammino nello spazio e nel tempo attraverso gallerie artistiche, sale da ballo e corridoi splendenti, in quello che è più una sorta di non-luogo, fuori da ogni dimensione e a metà tra presente e passato, che amaramente è conscio di non poter tornare a splendere come allora.

Mirabile affresco storico, nel quale ogni elemento entra nell'occhio voyeuristico della macchina da presa, dai diplomatici, dalle dame di corte, fino ad arrivare ai turisti contemporanei: un'arca nella quale far entrare tutto per salvarlo dall'oblio. Un'operazione imponente, che mostra le possibilità espressive offerte dal mezzo cinema, capace di rievocare attraverso la tecnica e le maestranze, contando le migliaia di comparse e le decine di operatori e assistenti alla regia. E non è un caso che un progetto simile, privo di stacchi, provenga proprio dal paese che, con Ejzenstejn, Vertov e Kulesov, rivoluzionò il montaggio.

Falstaff

Quarto Potere è da sempre stato, per Orson Welles, un po' croce e delizia: perché se è vero che quel folgorante esordio è, a distanza di 80 anni, considerato ancora tra i più grandi film della storia del cinema, va anche tenuto conto del fatto che a causa delle attenzioni rivolte a quell'opera, i dibattiti hanno spesso lasciato in disparte molti dei titoli che hanno reso il suo autore un pilastro della settima arte.

Tra essi c'è senza dubbio Falstaff, ennesimo confronto con Shakespeare (da cui attinse anche per Otello e Macbeth) e perla dimenticata della sua filmografia. Basandosi sul personaggio di John Falstaff - da rintracciare in ben cinque opere del Bardo - Welles trova un carattere perfettamente coerente e rappresentativo del suo cinema: una maschera che vive appieno la sua esistenza ma che incarna simbolicamente anche la sfida nei confronti di una società decadente.

Il regista de La signora di Shangai e F come falso lavorò, come spesso accadeva, con un budget ridottissimo e una produzione da incubo, ma anche, e forse soprattutto, a fronte di tali ostacoli, fu il genio autoriale a prevalere e trovare il guizzo giusto: trovandosi in difficoltà Welles optò per intuizioni espressive singolari, come l'abuso di primi piani, calibrati per ottenere risultati sempre diversi, o il caos visivo della battaglia tra pioggia e fango, che diedero al lungometraggio una forza estetica dirompente.

Falstaff intrattiene e divertente ma mantiene dall'inizio alla fine un'aura crepuscolare e amara, un senso drammatico dell'esistenza, nella quale anche i rapporti umani più solidi rischiano di venir meno, travolti dalle profondità più oscure dell'animo. Una perla da riscoprire, il più delle volte tralasciata e posizionata in seconda fascia rispetto ad altre e più note opere del regista americano.

Kagemusha - L'ombra del guerriero

Non è facile immaginarlo ma alla fine degli Anni Settanta Akira Kurosawa, maestro e padre del cinema giapponese moderno, non viveva un buon momento dal punto di vista produttivo. La televisione iniziava ad attirare gli spettatori e gli enormi costi delle sue precedenti opere si facevano sempre più insostenibili, soprattutto per la Toho.

Dopo insuccessi come quello di Barbarossa e un periodo che, a detta di molti contemporanei, sembrava quello del suo declino artistico, l'aiuto arrivò dagli Stati Uniti. Furono infatti George Lucas e Francis Ford Coppola, ammiratori del regista giapponese, a supportare la realizzazione di Kagemusha, opera che segnò l'avvio dell'ultima fase di carriera dell'autore nipponico.

L'intenso dramma storico - ambientato nel Giappone del 1573, sullo sfondo di guerre civili tra diversi clan - affronta la psicologia e il condizionamento mentale dell'essere umano, spaziando dal crudo realismo alle atmosfere allucinate, ideali per lavorare sulla sensazione di spaesamento causata da un'identità evanescente.

Il cinema in costume orientale ha spesso affrontato simili racconti in cui realtà e finzione si fondono e diventano indistinguibili - qui la recensione del recente Shadow di Zhang Yimou, ben più modesto - narrando di una pratica, molto comune nel passato, che consisteva nel sostituire un sovrano o una figura di rilievo, nel caso avesse riportato gravi ferite, con un sosia, al fine di evitare di diffondere caos e panico. Kagemusha segue lo sperimentalismo iniziato negli anni precedenti da Kurosawa, lavorando con audacia sulla fotografia e il colore per valorizzarne ogni potenzialità espressiva e gli effetti onirico-mistici. Vincitore della Palma d'oro nel 1980 (ex aequo con Alla That Jazz), Kagemusha è un potente affondo introspettivo sulla vanità e l'inconsistenza della gloria, sugli ideali e l'identità, oltre che vero spettacolo e intrattenimento, ideale punto d'incontro tra la tradizione orientale e il cinema hollywoodiano.

I diavoli

Negli Anni Settanta il numero di lungometraggi tagliati e banditi fu impressionante: la rivoluzione sociale e culturale degli anni precedenti lasciò il segno sulle arti ma ancora non tutti furono pronti per reagire positivamente ad opere come I diavoli, vero bersaglio della morale e della censura. I film del 1971, adattamento di un romanzo di Aldous Huxley, che a sua volta di ispirò ad una storia vera, mette in scena il piacere della carne, il desiderio e pulsioni primordiali trattenute e poi esplose in un'isteria incontenibile. Nulla di così esaltante se non fosse che la religione è al centro di tutto, con le suore della cittadina di Loudun coinvolte nell'irrazionale frenesia eretica che fu accusata più volte di blasfemia pornografica.

Un thriller storico, con venature horror, che Ken Russell trasforma in un'indagine politica sul potere e sul sesso, entrambi desideri, poi non così reconditi, dell'essere umano. Tra le più decise accuse nei confronti del fanatismo e della religione, I diavoli è lucidamente esplosivo e traboccante, eccessivo fino al fastidio ma esteticamente imponente: gli ambienti e le scenografie quasi futuristiche di un giovanissimo Derek Jarman contribuiscono ad evocare inquietudini e repressioni - specie quelle della suora interpretata da Vanessa Redgrave - e a inscenare il contrasto tra esteriore, formalmente rigoroso, e interiore, psicologicamente corrotto e agitato.

Sogno erotico e realtà materiale pervadono il lungometraggio fino alla fine, in un crescendo che non sembra porsi limiti: la stessa Warner ha vietato la distribuzione di alcune delle sequenze ritenute più scandalose e, al momento, non esiste una versione legale integrale in disponibile in commercio. Quello di Russell è un titolo maestoso e inclassificabile, con una capacità unica nel restituire sensazioni (anche a scapito della totale fedeltà storica) e comunicare attraverso un sapiente uso delle immagini e dei mezzi tecnici.

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