Everycult: Violent Cop di Takeshi Kitano

L'Everycult della settimana è Violent Cop, dramma poliziesco del 1989 scritto e diretto da Takeshi Kitano al suo esordio alla regia.

Everycult: Violent Cop di Takeshi Kitano
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Il cinema della sottrazione visuale di Takeshi Kitano nasce con Violent Cop, film d'esordio del seminale cineasta giapponese che configura immediatamente le longitudini e le latitudini della sua poetica. Essenziale, stilizzato, profondamente metafisico e inconfondibilmente neo-noir, quello del regista è un cinema del puntinismo fatto di estremi e capace di idiosincrasie impossibili, che si muove all'insegna di un immobilismo animato dall'ira più incontrollabile e dalle tenerezze più insospettabili.
Nato sotto Nagisa Oshima (memorabile la parte del soldato giapponese in Furyo, al fianco di David Bowie, film dal quale per certi versi inizia a formarsi la maschera kitaniana per eccellenza) ed erede spirituale ma contraddittorio del cinema yakuza ipercinetico di Kinji Fukasaku (che inizialmente avrebbe dovuto dirigere proprio Violent Cop e che collaborerà con il nostro in Battle Royal), Takeshi Kitano è un autore dal forte senso sperimentalista, il cui lavoro è impregnato di una filologia cinematografica rigorosissima che è al tempo stesso avanguardista e rispettosa del classico.
Caratteristiche che sarebbero state espresse ripetutamente nei film successivi, come il capolavoro Hana-Bi: Fiori di Fuoco, ma che già in Violent Cop sono evidenti, immediate, sconcertanti.

Un cinema della morte

In Violent Cop Takeshi Kitano, autore totale e qui regista, sceneggiatore e attore ma che successivamente diverrà pure montatore (e il montaggio è una delle caratteristiche fondamentali del suo corpo filmico), veste i panni di Azuma, un poliziotto di Tokyo dai metodi a dir poco brutali e violenti quasi ai limiti della sociopatia.
Sbrigativo e pronto ben volentieri a sporcarsi le mani al fine di ottenere i risultati desiderati, durante una delle sue indagini per alcuni omicidi legati al traffico di droga scopre che il suo collega Iwaki, uno dei pochi che potrebbe arrivare a definirsi suo amico, in realtà fa il doppio gioco e tradisce il distintivo. Apriti cielo, soprattutto poi quando sua sorella Akari (interpretata da Maiko Kawakami), una ragazzina con disturbi mentali con la quale il protagonista coltiva un ambiguo rapporto di possessiva gelosia, viene rapita e violentata dai criminali cui Azuma sta dando la caccia.
Questo gesto estremo, che può essere considerato una rottura nei confronti degli archetipi dai quali Violent Cop evidentemente trae ispirazione per rifondarli a suo modo (in primis l'ispettore Callaghan di Clint Eastwood, ma anche il celebre "Papà" Gene Hackman ne Il braccio violento della legge), causa la perdita di ogni freno inibitore nel protagonista, a quel punto pronto a infrangere qualsiasi moralismo etico o norma comportamentale per sprigionare la sua sete di violenza.

Se la figura classica del poliziotto testa calda nel cinema è sempre destinata a riscattarsi prima dei titoli di coda, qui è impossibile fuggire dall'oscurità e dal nichilismo in quanto già presenti dentro gli uomini.
Il mondo esterno dà solo il via libera, un'amoralità che sarebbe stata ripresa a piene mani dai vari Drive e Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn, oggi il più noto e celebrato debitore del cinema di Takeshi Kitano.

Un nuovo noir

Violent Cop è tutto composto sulla dualità del chiaro-scuro e racconta un vero e proprio scontro tra luce e oscurità intorno al quale si costruisce l'estetica kitaniana. La scena finale, con i suoi tagli di luce violentissimi e risalenti al cinema classico, diventa solo l'apoteosi di questa dialettica che percorre tutto il film, esasperando la pesantezza di un ambiente urbano schematico e opprimente cui solo il mare - elemento paesaggistico ricorrente nell'arte di Kitano, quasi un non-luogo separato dalla realtà - sembra poter portare un po' di sollievo. Ma il sollievo, in Kitano, molto spesso equivale alla morte, intesa come cessazione delle pene della vita.
Come in Jean-Pierre Melville, maestro del polar francese fra i massimi punti di riferimento dell'autore di Tokyo, e in un ribaltamento del già citato Fukasaku, il cui cinema viene ricordato per il massimo grado di concitazione, Takeshi Kitano compone i suoi film con una stilizzazione disumanizzante.
Se le scene procedono per situazioni, a volte dotate perfino di un'ampia indipendenza,quasi come fossero strisce a fumetti che finiscono con l'apparire come singoli quadri ritagliati in uno spazio prestabilito, i personaggi che si muovono all'interno delle cornici non sono mai persone ma molto più spesso dei burattini (nella più classica delle tradizioni teatrali giapponesi), degli automi che agiscono lungo i fili di un destino che appare già segnato.

E in quest'ottica Kitano diventa il maestro burattinaio che decide la gestualità meccanica dei suoi balocchi, impone i suoi lunghi silenzi e i suoi profondissimi vuoti (non solo del suono, ma soprattutto dell'immagine) e ammira con ironica, agrodolce e fatalista impassibilità i suoi personaggi, tutti così tragicamente godardiani nella loro impotente stolidità dinanzi agli eventi della vita. E della morte, soprattutto.

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