Il coinvolgente e affascinante autolesionismo/masochismo di Nicolas Winding Refn lo spinse, nel 2013, divenuto improvvisamente l'icona della nuova cinefilia, dopo la vittoria per la miglior regia a Cannes nel 2011 col cult-glamour Drive, a compiere uno dei più grandi smacchi morali che il festival della Costa Azzurra ricordi: Solo Dio Perdona. A metà fra provocazione gratuita ed estremismo artistico, figlio di una visione cinematografica che non conosce il significato della parola compromesso ("O con me o contro di me" rimane una delle dichiarazioni più celebri dell'autore), il b-movie autoriale che nel 2013 sconvolse la Croisette fu concepito espressamente per turbare e indignare, ed è proprio questo animo da perpetuo punk ribelle sordo a ogni lamentela che cela il fascino di un'opera complessa, nichilista, scabrosa e respingente, un capolavoro espressionista di ermetismi ed estremismi mosso da fiabeschi sottotesti freudiani più che da una trama nel senso stretto del termine, e che fu giustamente annichilito dai fischi alla sua prima mondiale: la polemica è l'applauso più forte a cui Refn possa aspirare, lo eccita disturbare e lo appaga inorridire, e con Solo Dio Perdona è riuscito nell'intento sotto ogni aspetto.
Shakespeare, western e samurai
Ci vuole davvero coraggio per uscirsene con un'opera simile dopo il successo mondiale e plebiscitario appena ottenuto: vendendosi fin dal primissimo materiale promozionale come un sequel ideale di Drive - la presenza di Ryan Gosling, la trama revenge tipica del b-movie, l'accesa fotografia al neon che era stata così efficace nel fare presa sul pubblico commerciale col film precedente - Solo Dio Perdona per longitudine e latitudine va a piazzarsi dall'altra parte del mondo del cinema rispetto al predecessore, non tanto per l'ambientazione thailandese (siamo a Bangkok) quanto per le atmosfere rarefatte che ricalcano quelle dell'ultimo film di Refn prima della fama globale, cioè Valhalla Rising. Non il tentativo di replicare e/o crogiolarsi nel consenso che stava arrivando da tutte le parti, quindi, quanto piuttosto la volontà di aggiustare il tiro rispetto allo sperimentale fantasy/horror con Mads Mikkelsen, denso di immagini potenti sì ma anche piuttosto vago e ripetitivo. Con questo film-trappola, invece, che si spaccia per serie B ma che affonda in un astrattismo silente che sembra il frutto dell'unione notturna, segreta e ignominiosa del body of work di Takeshi Kitano con la filmografia psichedelica e visionaria di Alejandro Jodorowsky, Refn fa esplodere la ricercatezza ossessiva-compulsiva del suo estatico sguardo da esteta per raccontarci un mondo allegorico in cui dionisiaco e apollineo entrano in contatto, in una messa in scena che vuole spiegare il caso della natura umana con precisione matematica.
Quello che vediamo rappresentato - come deve fare il Cinema con la C maiuscola di un Autore con la A maiuscola che vuole definirsi tale - non è mai il nostro mondo ma quello di Refn, che il regista immagina, da cui è attratto/terrorizzato e che vuole rappresentare/esorcizzare. La storia ci dice che siamo in un gangster movie dai tratti asiatici riconducibile al filone exploitation, ma tutto il resto parla un linguaggio visivo completamente diverso da quello a cui questo genere cinematografico è abituato: c'è del noir spruzzato di colori glam-pastello (la fotografia, curata da quel Larry Smith che nel 1999 esordì al cinema come DoP di Eyes Wide Shut, semplicemente non si dimentica) ma anche tanto western, non solo a partire dal titolo (che pare quello dello spaghetti-western Dio Perdona... Io No di Giuseppe Colizzi, 1967, primo incontro fra Bud Spencer e Terence Hill) ma per come a regnare sembri essere sempre e comunque la giustizia di frontiera, talmente estremizzata che quasi approda nei regni del post-apocalittico. Un post-apocalittico che indaga gli abissi più ancestrali e ferali dell'anima con l'eleganza di uno Shakespeare armato di pistole e katane (Kirstin Scott Thomas è un incrocio fra Lady Macbeth e una femme fatale alla Rischiose Abitudini), dipingendo una realtà che non esiste da nessun'altra parte se non in questo film.
Una favola nera ermetica
Tre anni dopo con The Neon Demon, vero e proprio remake non dichiarato del Suspiria di Dario Argento (studiato nell'Everycult di Suspiria), Refn sarebbe approdato con scarpe e macchina da presa nei territori della favola nera, per la quale però a ben guardare in Solo Dio Perdona già mostrava un fortissimo interesse. La recitazione in sottrazione di Ryan Gosling, che si cala ancora di più in questo personaggio-maschera concepito da Refn tra Valhalla Rising e Drive, che carica ogni singola espressione di impaurita dolcezza, oscura reverenza o vibrante rabbia (a volte tutte queste sfumature insieme) rappresenta in carne e bellezza l'emblema perfetto dell'impianto filmico voluto da Refn, secco, ottundente e onirico, eternamente a cavallo sul punto esatto in cui si incontrano, a croce, realismo, allegoria, favola ed ermetismo. Ci sono sogni e incubi che appaiono come premonizioni, un montaggio che alterna un Ryan Gosling vestito di bianco e uno vestito di nero, primi piani su mani (strumenti primordiali per fare del bene, per fare del male e soprattutto per fare arte) giustapposti a frame di lame che emergono dal buio, suggerimento di un'idiosincratica ed eterna lotta interiore tra la paura di perderle e il desiderio di dissociarsene una volta per tutte. Se si crea la perfezione partendo dall'orrore (che è ciò che Refn fa con le sue immagini scabrose), è giusto volersi fermare?
Ecco, quindi, svelata l'identità del poliziotto/rappresentazione della morte che il protagonista sogna/vede prima ancora di incontrarlo fisicamente, che lo bracca a partire da visioni da incubo: non è altri che Refn stesso, un uomo nero spietato e infallibile (ma anche capace di tenerezza infinita, come ci dice la scena con la figlia) che insegue la sua creazione/il suo protagonista per punirlo, assolverlo, liberarlo (non è un caso che sia lui a uccidere la madre). Oltre a danzare con la katana inoltre, ha una voce unica che non ha eguali al karaoke: violenza terribile e melodiosa arte che condividono lo stesso involucro.
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Everycult: Solo Dio Perdona di Nicolas Winding Refn
Dopo l'uscita della serie TV Too Old To Die Young, analizziamo il film-manifesto del controverso regista Nicolas Winding Refn.
Il coinvolgente e affascinante autolesionismo/masochismo di Nicolas Winding Refn lo spinse, nel 2013, divenuto improvvisamente l'icona della nuova cinefilia, dopo la vittoria per la miglior regia a Cannes nel 2011 col cult-glamour Drive, a compiere uno dei più grandi smacchi morali che il festival della Costa Azzurra ricordi: Solo Dio Perdona.
A metà fra provocazione gratuita ed estremismo artistico, figlio di una visione cinematografica che non conosce il significato della parola compromesso ("O con me o contro di me" rimane una delle dichiarazioni più celebri dell'autore), il b-movie autoriale che nel 2013 sconvolse la Croisette fu concepito espressamente per turbare e indignare, ed è proprio questo animo da perpetuo punk ribelle sordo a ogni lamentela che cela il fascino di un'opera complessa, nichilista, scabrosa e respingente, un capolavoro espressionista di ermetismi ed estremismi mosso da fiabeschi sottotesti freudiani più che da una trama nel senso stretto del termine, e che fu giustamente annichilito dai fischi alla sua prima mondiale: la polemica è l'applauso più forte a cui Refn possa aspirare, lo eccita disturbare e lo appaga inorridire, e con Solo Dio Perdona è riuscito nell'intento sotto ogni aspetto.
Shakespeare, western e samurai
Ci vuole davvero coraggio per uscirsene con un'opera simile dopo il successo mondiale e plebiscitario appena ottenuto: vendendosi fin dal primissimo materiale promozionale come un sequel ideale di Drive - la presenza di Ryan Gosling, la trama revenge tipica del b-movie, l'accesa fotografia al neon che era stata così efficace nel fare presa sul pubblico commerciale col film precedente - Solo Dio Perdona per longitudine e latitudine va a piazzarsi dall'altra parte del mondo del cinema rispetto al predecessore, non tanto per l'ambientazione thailandese (siamo a Bangkok) quanto per le atmosfere rarefatte che ricalcano quelle dell'ultimo film di Refn prima della fama globale, cioè Valhalla Rising.
Non il tentativo di replicare e/o crogiolarsi nel consenso che stava arrivando da tutte le parti, quindi, quanto piuttosto la volontà di aggiustare il tiro rispetto allo sperimentale fantasy/horror con Mads Mikkelsen, denso di immagini potenti sì ma anche piuttosto vago e ripetitivo.
Con questo film-trappola, invece, che si spaccia per serie B ma che affonda in un astrattismo silente che sembra il frutto dell'unione notturna, segreta e ignominiosa del body of work di Takeshi Kitano con la filmografia psichedelica e visionaria di Alejandro Jodorowsky, Refn fa esplodere la ricercatezza ossessiva-compulsiva del suo estatico sguardo da esteta per raccontarci un mondo allegorico in cui dionisiaco e apollineo entrano in contatto, in una messa in scena che vuole spiegare il caso della natura umana con precisione matematica.
Quello che vediamo rappresentato - come deve fare il Cinema con la C maiuscola di un Autore con la A maiuscola che vuole definirsi tale - non è mai il nostro mondo ma quello di Refn, che il regista immagina, da cui è attratto/terrorizzato e che vuole rappresentare/esorcizzare.
La storia ci dice che siamo in un gangster movie dai tratti asiatici riconducibile al filone exploitation, ma tutto il resto parla un linguaggio visivo completamente diverso da quello a cui questo genere cinematografico è abituato: c'è del noir spruzzato di colori glam-pastello (la fotografia, curata da quel Larry Smith che nel 1999 esordì al cinema come DoP di Eyes Wide Shut, semplicemente non si dimentica) ma anche tanto western, non solo a partire dal titolo (che pare quello dello spaghetti-western Dio Perdona... Io No di Giuseppe Colizzi, 1967, primo incontro fra Bud Spencer e Terence Hill) ma per come a regnare sembri essere sempre e comunque la giustizia di frontiera, talmente estremizzata che quasi approda nei regni del post-apocalittico.
Un post-apocalittico che indaga gli abissi più ancestrali e ferali dell'anima con l'eleganza di uno Shakespeare armato di pistole e katane (Kirstin Scott Thomas è un incrocio fra Lady Macbeth e una femme fatale alla Rischiose Abitudini), dipingendo una realtà che non esiste da nessun'altra parte se non in questo film.
Una favola nera ermetica
Tre anni dopo con The Neon Demon, vero e proprio remake non dichiarato del Suspiria di Dario Argento (studiato nell'Everycult di Suspiria), Refn sarebbe approdato con scarpe e macchina da presa nei territori della favola nera, per la quale però a ben guardare in Solo Dio Perdona già mostrava un fortissimo interesse.
La recitazione in sottrazione di Ryan Gosling, che si cala ancora di più in questo personaggio-maschera concepito da Refn tra Valhalla Rising e Drive, che carica ogni singola espressione di impaurita dolcezza, oscura reverenza o vibrante rabbia (a volte tutte queste sfumature insieme) rappresenta in carne e bellezza l'emblema perfetto dell'impianto filmico voluto da Refn, secco, ottundente e onirico, eternamente a cavallo sul punto esatto in cui si incontrano, a croce, realismo, allegoria, favola ed ermetismo.
Ci sono sogni e incubi che appaiono come premonizioni, un montaggio che alterna un Ryan Gosling vestito di bianco e uno vestito di nero, primi piani su mani (strumenti primordiali per fare del bene, per fare del male e soprattutto per fare arte) giustapposti a frame di lame che emergono dal buio, suggerimento di un'idiosincratica ed eterna lotta interiore tra la paura di perderle e il desiderio di dissociarsene una volta per tutte. Se si crea la perfezione partendo dall'orrore (che è ciò che Refn fa con le sue immagini scabrose), è giusto volersi fermare?
Ecco, quindi, svelata l'identità del poliziotto/rappresentazione della morte che il protagonista sogna/vede prima ancora di incontrarlo fisicamente, che lo bracca a partire da visioni da incubo: non è altri che Refn stesso, un uomo nero spietato e infallibile (ma anche capace di tenerezza infinita, come ci dice la scena con la figlia) che insegue la sua creazione/il suo protagonista per punirlo, assolverlo, liberarlo (non è un caso che sia lui a uccidere la madre).
Oltre a danzare con la katana inoltre, ha una voce unica che non ha eguali al karaoke: violenza terribile e melodiosa arte che condividono lo stesso involucro.
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