Everycult: Rocky IV di Sylvester Stallone

L'Everycult della settimana è dedicato a Rocky IV, dramma sportivo del 1985 scritto, diretto e interpretato da Sylvester Stallone.

Everycult: Rocky IV di Sylvester Stallone
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Sicuramente John Rambo ha combattuto la guerra, ma a vincerla è stato Rocky Balboa: l'iconico pugile italoamericano interpretato da Sylvester Stallone del resto è sempre stato in guerra, ogni singolo film della sua longeva e leggendaria saga cinematografica si è sviluppato intorno ai temi del conflitto, del sacrificio e soprattutto della sconfitta, nel pensiero stalloniano vero e proprio carburante per spingere l'uomo a dare di più, ad andare oltre i propri limiti.
Non bisogna dimenticare mai infatti che è la sconfitta a trasformare Rocky in Rocky, l'eroe di Stallone diventa estensione della classe media degli Stati Uniti quando perde l'incontro più importante della sua vita alla fine del primo episodio della saga: è la sconfitta che conferisce a un uomo la forza del senso di rivalsa, la grande seconda occasione che tutti pensiamo di meritare e speriamo di ottenere nella vita. Non a caso il pugile di Stallone andrà a perdere di nuovo anche nell'incredibile Rocky Balboa, quando vecchio e decadente si lancerà a capofitto in una nuova sfida e prendendole di santa ragione, con un orgoglio senza pari, sconfinerà nel territorio dell'epica per diventare mito.
Tra quel primo episodio del 1976 (che, a proposito di vittorie e sconfitte, batté Taxi Driver di Martin Scorsese agli Oscar) e il capitolo finale della saga uscito nel 2006, c'è stata però una tappa intermedia fondamentale nella vita del personaggio: quella del 1985, l'anno di distribuzione di Rocky IV.

Living in America

Con 300 milioni di dollari incassati in tutto il mondo è ancora oggi il titolo di maggior successo in assoluto della saga, perfino contando i risultati di Creed e Creed II, al quale è particolarmente legato tramite i personaggi della famiglia Drago.
Un vero e proprio trionfo di scrittura, regia e montaggio, almeno dal punto di vista dello Stallone-pensiero, negli anni Rocky IV è diventato più di ogni altro il simbolo della vita cinematografica dell'eroe Rocky Balboa, un'opera essenziale da 90 minuti e a suo modo sperimentale, allucinata ed estremista.
La storia è arcinota e i suoi sottotesti politici pure - anche se è difficile definirli tali, in realtà sono dei veri e propri testi scritti con la disinvoltura e la sottigliezza dei caratteri cubitali urlati ai quattro venti e a pieni polmoni - ma ribadirla non fa mai male perché del resto è il punto centrale del discorso. Rocky, all'apice del successo e soprattutto della consapevolezza di sé, dopo aver riconquistato entrambe le cose si ritrova impotente e messo all'angolo come mai gli era capitato quando assiste alla morte del suo migliore amico Apollo Creed per mano di Ivan Drago, pugile sovietico dalla stazza imponente che quasi ricorda Squalo, il villain dei bondiani Moonraker e La spia che mi amava.

Il film non ce lo dice mai ma sembra evidente che sotto i sorrisi di Apollo si celi una certa invidia nei confronti dell'amico fraterno. Il giovane pugile biondo arrivato dalla Russia con poco amore e tanta voglia di menare le mani non fa che parlare di Rocky e il pubblico, perfino su quel ring nel quale Creed perderà la vita, esulta alla sola vista di Rocky, presente in qualità di allenatore. Creed si fa più spaccone che mai e quella sarà la sua rovina, arriva ballando sulle note di Living in America e se ne va tra le braccia di Rocky in una posa plastica che ricorda neanche troppo vagamente La pietà di Michelangelo.
Non sarà il solo richiamo alla figura di Gesù Cristo inserito nel film da Stallone, perché a quel punto Rocky dovrà volare a casa di Drago, nella gelida Madre Russia, per vendicare il suo amico: diventerà inconsapevolmente un profeta in terra straniera per assolvere i peccati del mondo.

Cuori in fiamme

Ecco quindi che prima di ascendere a leggenda sotto i pugni di Mason Dixon nell'ultimo incontro della sua carriera, Rocky diventa un mito di fantapolitica scalando la montagna Ivan Drago, cima gigantesca sul quale il nostro dovrà svettare a mani nude.
La poetica del non voler mai gettare la spugna che muove ogni fibra del corpo di Rocky (e di Stallone, chiaramente) al protagonista gli si è ritorta contro. Un elemento che il film fa solo intendere senza prolungarsi in lungaggini inutili, che pure ci sono e appaiono come le meno interessanti, ma come poteva Stallone consegnare ai produttori un'opera di 75-80 minuti? Sarà infatti interessante scoprire la durata della director's cut in arrivo.
Resta quindi la consapevolezza al protagonista del proprio fallimento.

Avrebbe potuto salvare la vita del suo amico sventolando bandiera bianca e interrompendo l'incontro ma, fedele al suo principio, ha tenuto fede alla parola data (Creed, altrettanto orgoglioso e col tono di un addio, appena prima dell'inizio del match gli fa promettere di non intromettersi) e lo ha guardato morire. Ancora non lo sa, ma ha sacrificato una parte di sé per il bene superiore.
In Russia infatti fermerà la Guerra Fredda salendo sul ring e versando il proprio sangue non per la patria ma per il mondo: tutta Mosca, compreso il governo sovietico, durante l'interminabile numero di riprese del match Drago vs Balboa passerà dalla parte del primo a quella del secondo, un capovolgimento tutto americano possibile soltanto nella mente di Stallone e ottenibile soltanto col sudore scenografico, con la fatica stilizzata, col monologo strappalacrime dal sapore di parabola biblica.
Va da se che, a differenza dei due incontri che abbiamo citato come fondamentali nella vita del pugile e i cui esiti la narrazione ci racconta come incerti e appassionati, quello in Russia è fin da subito scontato e infatti il film quasi lo sorvola, manda avanti veloce i round in dissolvenza e lo fa durare pochissimo rispetto ad altri della saga.

Rocky l'incontro l'ha già vinto prima di salire sul ring, durante la sua preparazione.
In una scena di montaggio connotativo-formale che ha fatto scuola e che nel tempo è diventata il simbolo del film, Stallone, in uno sforzo artistico irripetibile, realizza una sequenza epocale che non solo racchiude tutto Rocky IV, ma proprio tutto Rocky. Quasi un cortometraggio a sé stante, o per meglio dire un videoclip musicale a un anno esatto da Thriller di John Landis per Michael Jackson, l'allenamento di Rocky parte da una casetta sperduta nella desolazione innevata del panorama sovietico (simbolo delle umili origini del protagonista) e si chiude sulla vetta di un monte (lo status raggiunto dalla sua icona).
Da punto A a punto B un coacervo di idee visive, una valanga di rime interne che ben più del match cui assisteremo di lì a poco stabiliscono già una relazione indissolubile tra Drago e Rocky: uno un supersoldato della modernità che pompa i suoi muscoli con la tecnologia, l'altro un uomo umile e semplice prostrato dinanzi alla natura che come Cristo inciampa portando la sua croce.

A emergere è un'energia elettrica, un ritmo trascinante, una forza esagerata alla quale è impossibile resistere: non ci riesce Drago sul suo tapis roulant iper-tecnologico, non ci riescono gli agenti dei servizi segreti che rovinano a terra nella neve da ridicoli ometti quali sono, non ce la fa lo spettatore che si alza dal divano e inizia a correre in giro per casa. Un trionfo di successioni di immagini e suoni che è il senso ultimo del cinema.

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