Everycult: Rashomon di Akira Kurosawa

L'Everycult della settimana è dedicato a Rashomon, capolavoro del cinema giapponese diretto dal regista Akira Kurosawa.

Everycult: Rashomon di Akira Kurosawa
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Dire che il cinema giapponese nasca nel 1951 con Rashomon di Akira Kurosawa sarebbe un errore, perché non terrebbe conto dei risultati ottenuti da una "scuola" cinematografica profondamente diversa da quella occidentale portata avanti a colpi di jidaigeki e gendaigeki, e dei loro vari sottogeneri, da registi come Kaoru Osanai, Teinosuke Kinugasa o Minori Murata.
In un certo senso però Rashomon è a tutti gli effetti la nascita del cinema giapponese, per lo meno dal punto di vista del mondo occidentale: ed essendo esso stesso un film sul punto di vista, sulla natura estremamente fittizia e artificiosa della realtà fenomenica, per noi europei non sarebbe sbagliato sostenere che il cinema di Akira Kurosawa abbia dato vita al cinema giapponese tout court.
Dal 1951, anno in cui Rashomon (che non è neppure il primo film di Kurosawa, anzi, arriva a coronamento di un discorso sull'umanità iniziato molto prima) trionfa al Festival di Venezia col Leone d'Oro, nel mondo occidentale inizieranno ad arrivare i film di registi allora conosciuti e oggi considerati imprescindibili a ogni longitudine e latitudine cinematografica come Kenji Mizoguchi, Yasujiro Ozu, Nagisa Oshima, Kenji Fukasaku, Takeshi Kitano.
Ma quello che più di tutti avrebbe influenzato Hollywood - tanto da generare perfino produzioni e collaborazioni con Martin Scorsese e Francis Ford Coppola - fu Akira Kurosawa.

I punti di vista infiniti

Il cinema di Akira Kurosawa, costruito sulla dialettica tra stasi e movimento, su un montaggio brusco di campi lunghi e primi piani, su preziosi effetti di luce, vividi contrasti espressionisti e barocchi per alimentare la profondità di campo, in Rashomon trova forse il suo esempio più centrato e rappresentativo.
Sebbene molto distante dalle spettacolarizzazioni che avrebbero ammaliato i grandi registi occidentali (I sette samurai è uno dei film preferiti di Steven Spielberg, ma anche di Ridley Scott e tanti altri, mentre sono note le influenze de La sfida del samurai e La fortezza nascosta sul cinema di Sergio Leone e George Lucas) il film contiene già tutti i temi cari al cineasta, quelli che avrebbe continuato a esplorare attraverso la sua vasta produzione degli anni successivi: il brutto della società, l'insistenza di una verità oggettiva, la solitudine del singolo come specchio di una pluralità diseguale e divisa.
La trama, che prende il via nel Medioevo giapponese, è ambientata in tre luoghi diversi e soprattutto in tre tempi diversi (un numero che ricorrerà spesso, dai tre ideogrammi sul casolare distrutto ai due gruppi di tre protagonisti).

Fuori dalla città di Kyoto, nei pressi della porta di Rasho, un passante incontra un taglialegna e un monaco che iniziano a raccontargli la brutale ma confusa storia della morte di un samurai, forse ammazzato da un bandito (l'incredibile Toshiro Mifune, vero volto di trent'anni di cinema giapponese) invaghitosi di sua moglie o dalla sua stessa donna. La verità è impossibile da stabilire perché durante il processo, dove hanno testimoniato il bandito, la moglie del samurai e perfino una medium che ha riportato le parole del samurai defunto, ognuno ha fornito la stessa storia ma con differenze profondissime.
Lo spettatore, associato al viandante che ascolta le narrazioni del taglialegna e del monaco, si perde così in un flusso di blocchi narrativi che si contraddicono a vicenda e con i quali Akira Kurosawa metaforizza il caos al centro delle vite degli uomini.

Il mistero del mistero

Ma non si creda che il mistero al centro del film sia davvero quello della vera identità dell'assassino del samurai. Kurosawa pare non essere minimamente interessato a questa verità - che per l'appunto Rashomon non risolve, lasciandosi aperto a ogni interpretazione - tipica invece del cinema spettacolare e dei thriller investigativi (un genere al quale questo film aderisce solo in minima parte, e chissà che strada sceglierà la serie tv remake attualmente in lavorazione).

Semmai ciò che il regista vuole analizzare è la reazione del pubblico nei confronti della narrazione, il potere del cinema in quanto creazione costantemente affabulatrice, in grado di veicolare lo sguardo attraverso un punto di vista mai davvero obiettivo, sempre "di qualcun altro".
La maniera con cui Kurosawa pone la cinepresa in terra durante i processi - oltre a rimandare al cinema "basso" di Ozu - sembra mettere lo spettatore in prima linea, farlo giudice delle parole dei testimoni, che durante i loro racconti guardano in camera quasi a voler fissare negli occhi il pubblico.

Questo complesso - e geniale - gioco di prospettive e di verità assolute si fa ancora più profondo nelle "storie dentro la storia", ovvero nei segmenti narrativi nei quali Kurosawa ci porta nelle testimonianze dei personaggi.
La stessa scena della morte del samurai ci viene raccontata più volte, prima dal bandito, poi dalla moglie del defunto, poi dal defunto stesso (attraverso una medium) ma Kurosawa per ciascuna "interpretazione" del medesimo fatto utilizza un identico approccio registico che annulla ogni soggettività di sguardo.
Ogni storia raccontata è quella vera, quella reale, ma allo stesso tempo è una messa in scena, una creazione frutto del personaggio che prende la parola: come a dire che il cinema è in grado di raccontare lo stesso fatto all'infinito, cambiando punti di vista continuamente.
E in questo modo tutto diventa vero e tutto è finzione allo stesso tempo, come accade solo nel cinema.

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