In un panorama hollywoodiano fatto di sequel, adattamenti, remake, spin-off, reboot e prequel vari ed eventuali, la ventata d'aria fresca portata da John Wick (2014), esordio alla regia dello stuntman Chad Stahelski, non passò certo inosservata. Nel suo omaggiare la figura dell'eroe solitario tipicamente anni '80 (Trappola di Cristallo), che a sua volta si rifaceva al senso di individualismo originario del cinema americano classico (Mezzogiorno di Fuoco, La Parola Ai Giurati) e che era andato gradualmente a scomparire col successo del buddy movie, Stahelski decideva di partire dallo stesso esatto spunto de Gli Spietati di Clint Eastwood (leggi anche: Everycult su Gli Spietati) per andare da tutt'altra parte: se il western del 1991 si radicava negli estremismi del realismo, l'action del 2014 trovava ragion d'essere nel mondo stilizzato del fumetto.
Un ex criminale che per amore di una donna ha voltato le spalle alla criminalità anni prima dell'inizio del film, e che dopo aver perso quell'amore è tornato nel mondo che aveva abbandonato: c'è quella nostalgia crepuscolare e malinconica che scorre nelle vene di John Wick, eroe action scappato dalle luci della ribalta che adesso sceglie di riemergere dall'ombra, Uomo Nero/Baba Jaga del revenge movie di serie B animato da un'innovazione tecnico-autoriale da art-house. Nel 2017 arriva John Wick - Capitolo 2, e Stahelski fa letteralmente il bis: più grande, più inventivo e più bello, il film è tutto ciò che un sequel dovrebbe essere, e procedendo su due binari interconnessi (rottura delle regole e stato dell'arte) raggiunge il massimo che un mondo cinematografico così specifico può sperare di ottenere.
Stato dell'Arte
È talmente dettagliato e pieno di spunti, John Wick - Capitolo Due, da far pensare che debba necessariamente essere un adattamento di qualcos'altro: e a ben guardare le influenze del cinecomic sono evidenti nella costruzione di un mondo originale e immaginario che supera il plausibile, pur rimanendo improntato al realismo; siamo dall'altra parte del modo di fare cinema di Christopher McQuarrie (leggi: Everycult su Mission: Impossible - Rogue Nation, o Le Tre Scene Cardine di Mission: Impossible - Fallout) ma la sensazione di artigianalità, nelle sequenze action, per quanto contenute rispetto a quelle più spropositate cui si presta con gioia Tom Cruise, è straripante. Stahelski, stuntman di Reeves nella trilogia di Matrix (che, ironicamente, in questo secondo capitolo offrirà un ruolo a Laurence Fishburne, ricreando l'accoppiata della saga sci-fi dei fratelli/sorelle Wachowski), segue l'azione con una grammatica tutta sua, riducendola a una punteggiatura frame by frame che però ha il respiro lunghissimo e incessante, con la cura/passione per le coreografie sottolineata dai pochissimi stacchi al montaggio: si contano sulle dita di una mano le sequenze in cui John Wick spara fuori dal campo, perché per il resto tutto accade sempre nello stesso quadro, nel giro di pochi metri, con le armi da fuoco che vengono utilizzate per simil-assalti all'arma bianca.
Vengono mostrati un gran gusto visivo e un livello di dettaglio che esprimono la natura mitica e grandiosa della storia. Il sound design evidenzia lo scricchiolio delle ossa, gli schizzi di sangue, accompagnando le scene di combattimento dalla narrazione interna sempre chiarissima e mai inutilmente dialogata, che si sviluppa sempre in ampi flussi continui, senza però essere soltanto intensa ma anche splendidamente fisica e altrettanto ben realizzata, con ogni personaggio che vanta un suo riconoscibile stile di combattimento che ne enfatizza la personalità.
Il grado di spettacolarità si alza - l'azione sembra andare avanti senza soluzione di continuità - di pari passo con la difficoltà della sua realizzazione, e il tutto viene costantemente associato all'arte e alle sue varie forme. Che si tratti del citare Q della saga di James Bond nella scelta dell'equipaggiamento al Continental di Roma (in un montaggio alternato che gioca sull'arte culinaria per le armi, sulla fashion art per i vestiti anti-proiettili, sulla cartografia per le mappe delle catacombe), o di sparatorie notturne con l'architettura di Roma come unica testimone silente, o ancora di una resa dei conti davanti alle migliori opere pittoriche e scultoree di New York (senza dimenticare l'epilogo nella stanza degli specchi, una sequenza che cita spudoratamente La Signora di Shanghai di Orson Welles contestualizzandola, non a caso, in un'installazione d'arte contemporanea il cui scopo è quello di fornire una "maggior percezione della propria anima"), l'obiettivo di Stahelski è quello di trasformare la coreografia action in una danza, precisa e letale, un ballo di corpi che flirtano con la morte allo scopo di evitarla/perpetrarla. Uno in cui ogni oggetto diventa uno strumento per uccidere/fare arte, come la stoffa per gli stilisti, lo scalpello per gli scultori o il pennello per i pittori.
Rottura delle regole
Per fare vera arte però bisogna rompere le regole e superare i canoni stabiliti in precedenza: abbiamo visto come lo stile di Stahelski lo faccia a livello visivo, comprimendo tutta l'azione all'interno della stessa inquadratura, ma tutto questo lavoro di ristrutturazione dell'impianto filmico dell'action viene accompagnato a una scrittura che aggiunge, che amplia, che ingrandisce. Con battute mordaci e irresistibili situazioni al limite del paradosso ("Posso consigliarvi una visita al bar?"), la sceneggiatura è sorprendente per la maniera in cui riesce a implementare gli sprazzi di specificità che caratterizzavano il primo capitolo, portando una marea di novità a corredo del mondo di fiction nato dalla mente dello sceneggiatore Derek Kolstad.
Un mondo fumettistico e pulp creato ad hoc per il cinema, che sembra però più completo, esaustivo edimmaginifico della maggior parte di quelli nati da adattamenti di graphic novel o romanzi più o meno suoi contemporanei, che invece spesso e volentieri si assomigliano l'uno all'altro finendo per confondersi. Quella di John Wick è una realtà inconfondibile, sia da un punto di vista visivo (le influenze sono chiaramente il cinema action di Hong Kong e il suo gun alla John Woo mescolato allo spaghetti-western) sia da quello di world building (uno step editoriale fondamentale per la riuscita e il proseguimento di un franchise).
La mitologia del labirintico mondo di assassini in cui si muove John Wick, fatta di sette (la Gran Tavola, che forse domina segretamente il mondo?), giuramenti di sangue (geniale l'idea del Pegno, per giustificare l'innesco della trama) e regole arcane ("Mai ignorare un pegno, mai uccidere nei confini del Continental), è delineata stupendamente con il minimo possibile di informazioni e ancor meno dialoghi: clan criminali che vanno dalla Camorra ai Russi passando per la Triade e arrivando fino a un sottobosco di pseudo-barboni che ti uccidono dopo averti chiesto due spiccioli, stenografe i cui improbabili tatuaggi rimandano a un passato poco raccomandabile che gestiscono un complesso sistema di taglie con una tecnologia che sembra ferma agli anni novanta (non ci sono smartphone, i computer sembrano gli antenati di quelli della nostra quotidianità), monete d'oro, poliziotti che non intervengono di fronte ai crimini degli assassini a pagamento, trattati quasi con la riverenza dei vip. La maggior sagacia dello script sta nel coraggio dimostrato nel concedere al protagonista di rompere quelle stesse regole che gli sono state costruite intorno, sblocco narrativo che non solo permette una svolta imprevedibile ma consente soprattutto lo spunto necessario a portare il franchise verso direzioni inedite: è così che ogni capitolo ha un feeling diverso e unico rispetto agli altri, andando a comporre un caleidoscopio narrativo incredibilmente variegato e contemporaneamente sempre coerente a se stesso.
Everycult: John Wick 2 di Chad Stahelski
Con il terzo capitolo della saga action con Keanu Reeves in sala, Everycult rivisita John Wick - Capitolo 2, secondo lungometraggio di Chad Stahelski.
In un panorama hollywoodiano fatto di sequel, adattamenti, remake, spin-off, reboot e prequel vari ed eventuali, la ventata d'aria fresca portata da John Wick (2014), esordio alla regia dello stuntman Chad Stahelski, non passò certo inosservata.
Nel suo omaggiare la figura dell'eroe solitario tipicamente anni '80 (Trappola di Cristallo), che a sua volta si rifaceva al senso di individualismo originario del cinema americano classico (Mezzogiorno di Fuoco, La Parola Ai Giurati) e che era andato gradualmente a scomparire col successo del buddy movie, Stahelski decideva di partire dallo stesso esatto spunto de Gli Spietati di Clint Eastwood (leggi anche: Everycult su Gli Spietati) per andare da tutt'altra parte: se il western del 1991 si radicava negli estremismi del realismo, l'action del 2014 trovava ragion d'essere nel mondo stilizzato del fumetto.
Un ex criminale che per amore di una donna ha voltato le spalle alla criminalità anni prima dell'inizio del film, e che dopo aver perso quell'amore è tornato nel mondo che aveva abbandonato: c'è quella nostalgia crepuscolare e malinconica che scorre nelle vene di John Wick, eroe action scappato dalle luci della ribalta che adesso sceglie di riemergere dall'ombra, Uomo Nero/Baba Jaga del revenge movie di serie B animato da un'innovazione tecnico-autoriale da art-house.
Nel 2017 arriva John Wick - Capitolo 2, e Stahelski fa letteralmente il bis: più grande, più inventivo e più bello, il film è tutto ciò che un sequel dovrebbe essere, e procedendo su due binari interconnessi (rottura delle regole e stato dell'arte) raggiunge il massimo che un mondo cinematografico così specifico può sperare di ottenere.
Stato dell'Arte
È talmente dettagliato e pieno di spunti, John Wick - Capitolo Due, da far pensare che debba necessariamente essere un adattamento di qualcos'altro: e a ben guardare le influenze del cinecomic sono evidenti nella costruzione di un mondo originale e immaginario che supera il plausibile, pur rimanendo improntato al realismo; siamo dall'altra parte del modo di fare cinema di Christopher McQuarrie (leggi: Everycult su Mission: Impossible - Rogue Nation, o Le Tre Scene Cardine di Mission: Impossible - Fallout) ma la sensazione di artigianalità, nelle sequenze action, per quanto contenute rispetto a quelle più spropositate cui si presta con gioia Tom Cruise, è straripante.
Stahelski, stuntman di Reeves nella trilogia di Matrix (che, ironicamente, in questo secondo capitolo offrirà un ruolo a Laurence Fishburne, ricreando l'accoppiata della saga sci-fi dei fratelli/sorelle Wachowski), segue l'azione con una grammatica tutta sua, riducendola a una punteggiatura frame by frame che però ha il respiro lunghissimo e incessante, con la cura/passione per le coreografie sottolineata dai pochissimi stacchi al montaggio: si contano sulle dita di una mano le sequenze in cui John Wick spara fuori dal campo, perché per il resto tutto accade sempre nello stesso quadro, nel giro di pochi metri, con le armi da fuoco che vengono utilizzate per simil-assalti all'arma bianca.
Vengono mostrati un gran gusto visivo e un livello di dettaglio che esprimono la natura mitica e grandiosa della storia. Il sound design evidenzia lo scricchiolio delle ossa, gli schizzi di sangue, accompagnando le scene di combattimento dalla narrazione interna sempre chiarissima e mai inutilmente dialogata, che si sviluppa sempre in ampi flussi continui, senza però essere soltanto intensa ma anche splendidamente fisica e altrettanto ben realizzata, con ogni personaggio che vanta un suo riconoscibile stile di combattimento che ne enfatizza la personalità.
Il grado di spettacolarità si alza - l'azione sembra andare avanti senza soluzione di continuità - di pari passo con la difficoltà della sua realizzazione, e il tutto viene costantemente associato all'arte e alle sue varie forme.
Che si tratti del citare Q della saga di James Bond nella scelta dell'equipaggiamento al Continental di Roma (in un montaggio alternato che gioca sull'arte culinaria per le armi, sulla fashion art per i vestiti anti-proiettili, sulla cartografia per le mappe delle catacombe), o di sparatorie notturne con l'architettura di Roma come unica testimone silente, o ancora di una resa dei conti davanti alle migliori opere pittoriche e scultoree di New York (senza dimenticare l'epilogo nella stanza degli specchi, una sequenza che cita spudoratamente La Signora di Shanghai di Orson Welles contestualizzandola, non a caso, in un'installazione d'arte contemporanea il cui scopo è quello di fornire una "maggior percezione della propria anima"), l'obiettivo di Stahelski è quello di trasformare la coreografia action in una danza, precisa e letale, un ballo di corpi che flirtano con la morte allo scopo di evitarla/perpetrarla.
Uno in cui ogni oggetto diventa uno strumento per uccidere/fare arte, come la stoffa per gli stilisti, lo scalpello per gli scultori o il pennello per i pittori.
Rottura delle regole
Per fare vera arte però bisogna rompere le regole e superare i canoni stabiliti in precedenza: abbiamo visto come lo stile di Stahelski lo faccia a livello visivo, comprimendo tutta l'azione all'interno della stessa inquadratura, ma tutto questo lavoro di ristrutturazione dell'impianto filmico dell'action viene accompagnato a una scrittura che aggiunge, che amplia, che ingrandisce.
Con battute mordaci e irresistibili situazioni al limite del paradosso ("Posso consigliarvi una visita al bar?"), la sceneggiatura è sorprendente per la maniera in cui riesce a implementare gli sprazzi di specificità che caratterizzavano il primo capitolo, portando una marea di novità a corredo del mondo di fiction nato dalla mente dello sceneggiatore Derek Kolstad.
Un mondo fumettistico e pulp creato ad hoc per il cinema, che sembra però più completo, esaustivo edimmaginifico della maggior parte di quelli nati da adattamenti di graphic novel o romanzi più o meno suoi contemporanei, che invece spesso e volentieri si assomigliano l'uno all'altro finendo per confondersi. Quella di John Wick è una realtà inconfondibile, sia da un punto di vista visivo (le influenze sono chiaramente il cinema action di Hong Kong e il suo gun alla John Woo mescolato allo spaghetti-western) sia da quello di world building (uno step editoriale fondamentale per la riuscita e il proseguimento di un franchise).
La mitologia del labirintico mondo di assassini in cui si muove John Wick, fatta di sette (la Gran Tavola, che forse domina segretamente il mondo?), giuramenti di sangue (geniale l'idea del Pegno, per giustificare l'innesco della trama) e regole arcane ("Mai ignorare un pegno, mai uccidere nei confini del Continental), è delineata stupendamente con il minimo possibile di informazioni e ancor meno dialoghi: clan criminali che vanno dalla Camorra ai Russi passando per la Triade e arrivando fino a un sottobosco di pseudo-barboni che ti uccidono dopo averti chiesto due spiccioli, stenografe i cui improbabili tatuaggi rimandano a un passato poco raccomandabile che gestiscono un complesso sistema di taglie con una tecnologia che sembra ferma agli anni novanta (non ci sono smartphone, i computer sembrano gli antenati di quelli della nostra quotidianità), monete d'oro, poliziotti che non intervengono di fronte ai crimini degli assassini a pagamento, trattati quasi con la riverenza dei vip.
La maggior sagacia dello script sta nel coraggio dimostrato nel concedere al protagonista di rompere quelle stesse regole che gli sono state costruite intorno, sblocco narrativo che non solo permette una svolta imprevedibile ma consente soprattutto lo spunto necessario a portare il franchise verso direzioni inedite: è così che ogni capitolo ha un feeling diverso e unico rispetto agli altri, andando a comporre un caleidoscopio narrativo incredibilmente variegato e contemporaneamente sempre coerente a se stesso.
Che voto dai a: John Wick 2
Voti: 44
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